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The Clash, il ritorno in Italia nel 1984

Matteo Picconi

«In Inghilterra è tutto così di destra… chi sapeva che voi avete città governate da comunisti?»

È l’inizio del 1984, l’anno letterario di George Orwell, dei primi morti di AIDS, delle forti repressioni antisindacali di Margaret Thatcher. In Italia la commissione parlamentare sulla P2 pubblica la sua relazione finale, confermando l’autenticità degli elenchi sequestrati l’anno precedente nella villa del venerabile Licio Gelli; nella Capitale due milioni di persone partecipano ai funerali di Enrico Berlinguer, segretario del PCI, morto in seguito a una emorragia celebrale che lo sorprese durante un comizio per le elezioni europee a Padova; per la settima volta, il Mostro di Firenze torna a terrorizzare la città, uccidendo Claudio Stefanacci e Pia Rontini, rispettivamente di 21 e 18 anni. Ma il 1984, per gli amanti della musica e del rock, è anche l’anno del ritorno dei Clash, dei nuovi Clash, che in occasione del tour «Out of Control» tornano a esibirsi con cinque concerti nella Penisola.

I «NUOVI» CLASH

Clash nel 1984

La nuova formazione dei Clash nel 1984

«I Clash incarnavano l’appassionata coscienza politica del punk». Con queste parole, nel 2003, viene annunciato l’ingresso della storica band londinese nella Rock and Roll Hall of Fame. Un riconoscimento per certi versi tardivo ma indubbiamente legittimo, giunto un anno dopo la scomparsa improvvisa di Joe Strummer. Nati nella seconda metà degli anni Settanta, in una Londra in pieno fermento culturale e musicale, per molti i Clash hanno cambiato il volto del rock: si potrebbe dire che hanno aperto gli occhi del mondo su un genere, il punk, ancora poco conosciuto a livello mondiale, per poi superarlo, contaminarlo, deformarlo, ma senza mai metterlo del tutto in discussione. Al netto delle critiche dei cosiddetti ortodossi, che fin dal 1977 additarono Strummer e compagni di essere i primi traditori del punk, si può affermare che il passaggio di maturità attuato dai Clash fu prima di tutto culturale, politico, oltre che musicale, segnando quindi il superamento di quel nichilismo che contraddistingueva il movimento inglese di quegli anni:

«Se i Sex Pistols», scrive in «La storia del Rock» Ezio Guaitamacchi, «risvegliano le energie represse per alimentare il caos senza badare alle connotazioni politiche, i Clash le usano per combattere battaglie progressiste. I secondi diventano il gruppo punk più popolare del pianeta quando i primi cessano l’attività».

Pietra miliare del rock, quindi, i Clash «meritano la leggenda» per dirla con le parole del critico musicale inglese Jon Savage. Ma se si torna indietro negli anni, in particolare nell’ultimo travagliato biennio che precede il definitivo scioglimento del gruppo, questo giudizio era tutt’altro che scontato. Fra lo scetticismo generale, nei primi mesi del 1984 Joe Strummer e il manager Bernard Rhodes tentano di rilanciare la band o, almeno, quello che ne rimaneva. Un po’ ovunque, sia sulla stampa di allora che nella storiografia musicale più recente, si legge dei nuovi o secondi Clash quando si fa riferimento a quel periodo. Nei due anni precedenti, infatti, il nucleo storico aveva perso due elementi importanti: nel 1982, poco dopo la pubblicazione del fortunatissimo album Combat Rock, il batterista gallese Nick Topper Headon viene allontanato per problemi legati alla sua tossicodipendenza; l’anno seguente è la volta del chitarrista Mick Jones, fondatore e colonna portante del gruppo, mandato via per i continui attriti, in campo artistico e non solo, con Strummer e Rhodes. È un duro colpo, il preludio di una fine lenta ma non del tutto agonizzante. Il 1984, infatti, può considerarsi per i Clash l’ultimo grande anno, con oltre settanta esibizioni dal vivo sparse in tutto il mondo. La loro fine, semmai, la sancisce la pubblicazione di Cut the Crap (1985), album molto criticato, considerato un flop a livello commerciale, «rinnegato» addirittura dallo stesso Strummer negli anni successivi.

Su quasi seicento concerti realizzati tra il 1977 e il 1985, solo in undici occasioni la band londinese ha calcato un palco italiano. La prima volta avviene a Bologna, il primo giugno 1980 con un concerto gratuito in Piazza Maggiore. I Clash sono già i Clash, l’anno prima è uscito London Calling, considerato uno tra i primi dieci album più influenti nella storia del rock. L’esibizione di Bologna viene ricordata per il boicottaggio dei collettivi bolognesi in aperto contrasto con la giunta comunale; un boicottaggio principalmente politico ma, per alcuni aspetti, anche musicale: «Questo concerto è stato organizzato per fotterci», si legge su un volantino distribuito in quei giorni, «per darci il punk che vogliono loro: gli stantii Clash, venduti al sistema…». Una posizione critica che, naturalmente, non riguardava solo il movimento punk italiano: neanche nove giorni prima, ad Amburgo, il gruppo inglese viene duramente contestato durante un concerto (Strummer, nell’occasione, spacca la sua chitarra in testa a uno skinhead). Tuttavia, i concerti di Bologna e Torino (1980) e quelli dell’anno seguente a Milano, Sanremo e Firenze, sono ancora ricordati come eventi irripetibili. I Clash non suoneranno in Italia per oltre due anni e quando all’alba del 1984 viene annunciato il doppio concerto di Milano, migliaia di fan rispondono con entusiasmo.

«MILANO CALLING»

Clash Milano 1984

Il biglietto dei Clash al Palasport di Milano

Entusiasmo, curiosità e, come si è già detto, tanto scetticismo. Quando la band inaugura il tour «Out of Control» non vi è nessun album nuovo da promuovere e i rapporti con la major Cbs sono in una fase di stallo. Per molti il declino dei Clash, specie dopo l’allontanamento di Mick Jones, è ormai cosa imminente: con una formazione pesantemente rimaneggiata, c’era il serio rischio che i nuovi Clash fossero diventati la «cover band» di sé stessi. Nonostante ciò, restava in ballo l’anima politica del gruppo guidato da Strummer e Paul Simonon e i media italiani non esitano a sottolineare tale aspetto.

«Del punk rock», scrive Mario Fegiz sul Corriere della Sera il 25 febbraio 1984, «riedizione rozza, arrabbiata e triste del rock and roll, i Clash rappresentano il momento più colto e politicamente più impegnato, artisticamente più significativo e duraturo».

Più o meno tutta la stampa italiana titola alla stessa maniera: «rock ribelle», «musica sovversiva», «band provocatoria», alternando convinti apprezzamenti sul piano strettamente musicale a critiche poco velate di natura politica. Non mancano le solite interviste un po’ «bacchettone» nei riguardi di Strummer, criticato per aver indossato, durante un concerto del 1978, una maglietta col simbolo delle BR e della RAF. Questa la risposta del front man dei Clash, riportata su La Stampa nell’edizione del 5 marzo 1984:

«Il gesto di un idealista naif, che non aveva fatto i compiti a casa, una mancanza… ma come facevo a sapere che facendo così arrecavo un danno invece che un favore alla sinistra? In Inghilterra è tutto così di destra, chi sapeva che voi avete città governate da comunisti? Comunque non credo in una rivoluzione armata. Credo che la gente, se educata con la verità, sarebbe inevitabilmente socialista».

Quando la Best Event dell’impresario Roberto Rovelli lancia le due date (27 e 28 febbraio) presso il Palazzetto dello Sport di Milano, le prevendite vanno a ruba e, secondo le stime della vigilia, per il doppio evento si prevedono oltre 22mila spettatori. Quello che colpisce subito è il prezzo del biglietto, dodicimila lire, ben al di sotto della media dei concerti più gettonati dell’epoca. Una scelta condizionata dallo stesso gruppo londinese che, fin dal 1977, aveva sempre imposto (tanto per gli album quanto per le esibizioni dal vivo) i prezzi più popolari possibili. Attenti alle tasche dei fan, spendaccioni nei loro brevi soggiorni in alberghi e ristoranti.

«I Clash», si legge sul Corriere della Sera del 28 febbraio 1984, «giunti ieri mattina da Berna, sono approdati nel primo pomeriggio al Palasport di San Siro. Il cameriere che ha servito loro, fra le 17 e le 18, un lauto pranzo, ha confessato che è più facile nutrire centoventi persone che i Clash. Hanno consumato circa ottanta litri di caffelatte con il quale hanno innaffiato un pasto aperto con pane, burro e marmellata e continuato con rigatoni al ragù, piselli e prosciutto, affettati, scaloppine al marsala e al limone, poi ancora caffelatte… mentre per i componenti del gruppo vegetariani si è notato un consumo di quantità industriali di sedano di Verona, finocchi e carote intinte in maionese per un totale di barattoli sei…».

A livello organizzativo, la prima serata del 27 febbraio non è un gran successo. Nonostante le rimostranze dell’impresario Rovelli, il CONI installa inspiegabilmente migliaia di sedie di plastica per tutto il parterre. Molto utopisticamente qualcuno tra gli organizzatori immaginò di poter accogliere migliaia di punk e rockettari, venuti da tutta Italia, facendoli accomodare su delle seggiole, come a un tranquillissimo concerto di musica lirica. Stando a quanto riportato dalle cronache, il risultato è catastrofico: centinaia di quelle sedie vengono sradicate e lanciate in direzione del palco e molte decine di persone, tra spettatori e addetti alla sicurezza, finiscono in ospedale. Come se non bastasse, quel che rimane delle seggiole diviene materiale contundente utilizzato nelle numerose risse, accesesi un po’ ovunque tra i fan più agitati. Per il servizio d’ordine, insomma, una serata movimentata.

«Singolare circostanza», riporta l’inviato del Corriere della Sera il giorno seguente, «il ferimento di un membro del servizio d’ordine (un labbro spaccato e ferite al naso): egli è stato infatti colpito dal chitarrista del gruppo che lo aveva cercato di fermare, scambiandolo nell’oscurità del retropalco per un fan sfuggito alla rete di controllo».

Feriti, svenimenti, qualche arresto e una buona performance dei Clash. Il bis del 28 febbraio replica il pienone della sera precedente, oltre undicimila persone, che diventano ancora di più a fine concerto quando le «difese» poste ai cancelli cedono e centinaia di spettatori non paganti irrompono all’interno. Nel corso della seconda serata non ci sono le sedie e si registrano meno incidenti ma l’acustica e l’impianto elettrico lasciano molto a desiderare. Sono i primi segni di decadenza del Palazzetto dello Sport, inaugurato nel 1976, che di lì a un anno, in seguito alla grande nevicata del 1985, chiuderà i battenti per inagibilità, per poi essere demolito nel 1986.

Nonostante qualche critica di alcune testate nazionali, i due concerti di Milano si rivelano comunque un successo. I Clash non sono più gli stessi, si nota la mancanza della chitarra di Mick Jones, sostituito da ben due chitarristi, Nick Sheppard e Vince White, i quali, come scrive Fabio Malagnini su L’Unità il 29 febbraio, sono «meno bravi di Mick Jones ma di sicuro più selvaggi, rozzi, giovani e poveri d’esperienza». Meno classe, quindi, ma sempre la stessa grinta, con Strummer vero mattatore del palco. La sua cresta, mai sfoggiata negli anni precedenti, sembra voler rievocare le origini punk della band londinese anche se poi, purtroppo, non sarà così.

«Il loro ritorno», scrive su La Stampa del 29 febbraio 1984 la giornalista Marinella Venegoni, «evidenzia un’inversione di tendenza rispetto al trend originale: mentre tutti i gruppi famosi si lasciano tentare dalle leggi del mercato e suonano “più facile”, i Clash sono diventati più “duri”, la loro musica si dipana secca e lacerante, essenziale e austera, per un’ora e mezza di concerto, e solo le dolci tentazioni del reggae segnano qualche volta un attimo di pausa negli spasmodici graffi delle chitarre elettriche e nella scansione della batteria cruda e secca, ossessionante come un tamburo di guerra».

Lasciata Milano, Strummer e compagni riprendono il loro tour in giro per il mondo: qualche tappa in Europa, poi negli USA e in Canada, per un totale di oltre cinquanta concerti. Ma «l’anno italiano» dei Clash non è ancora finito e l’appuntamento è rimandato alla fine dell’estate. Risaliranno la Penisola a partire da Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno, per poi approdare, per la prima e unica volta, nella Capitale.

«FATEVELA VOI LA VOSTRA FORTUNA!»

Clash Roma 1984

Un ritaglio del Corriere della Sera del 7 settembre 1984

Quando a Roma si sparge la voce che i Clash suoneranno alla Festa Nazionale dell’Unità, in programma all’ex Velodromo dell’EUR, l’entusiasmo sale alle stelle. Non deve stupire il fatto che l’organizzazione del Partito Comunista sia riuscita ad agganciare una band di grido come gli inglesi: già dalla fine degli anni Settanta i festival del PCI sono eventi importanti e le risorse da mettere in campo non mancano. Quello del 1984, con l’improvvisa scomparsa di Enrico Berlinguer, assume un carattere speciale. Sarà, inoltre, un gran successo, sia in termini di partecipazione che finanziari: circa tre milioni di presenze e un incasso di oltre dieci miliardi di lire.

L’edizione nazionale del festival torna nella Capitale dopo dodici anni. Ed è un ritorno in grande stile. Non ci sono solo i Clash ad arricchire il programma che dal 30 agosto al 16 settembre chiude l’Estate Romana di quel 1984: sul fronte musicale spiccano i nomi di Fabrizio De André, che solo sei mesi prima ha pubblicato l’album Creuza de mä, Pino Daniele e il tenore spagnolo José Carreras; vi sono ospiti d’eccezione nel palinsesto dedicato al cinema come Sergio Leone, Alberto Sordi e Carlo Verdone; non è da meno il programma dedicato al teatro, con la presenza di Vittorio Gassman, Carmelo Bene e Gigi Proietti. Insomma, una gran «parata di big», come titola il Corriere della Sera il 23 agosto, di cui i Clash rappresentano sicuramente la punta di diamante per il pubblico più giovane ma non solo.

Anche la location scelta per il festival è quella delle grandi occasioni. L’ex Velodromo Olimpico dell’EUR, edificato per le Olimpiadi del 1960 e poi abbandonato a sé stesso per quasi due decenni (è stato demolito nel 2008), viene ripulito e bonificato da centinaia di volontari del PCI con lavori estenuanti, cominciati nella primavera del 1984. L’area destinata ai concerti, «l’Arena», arriva ad accogliere oltre ventimila persone.

A far notizia non è solo la presenza dei Clash ma, soprattutto, il prezzo del biglietto, sempre più basso, sempre più «politico»: diecimila lire. A rigor di cronaca, il concerto di Ornella Vanoni e Gino Paoli, in programma tre giorni dopo, costa dodicimila lire. Le poche prevendite vanno a ruba nel giro di una settimana e per il 7 settembre, data dell’evento, all’Arena della Festa dell’Unità prevedono il tutto esaurito.

Con il concerto in programma alle 21, intorno alle sei del pomeriggio ci sono già settemila persone a ridosso del palco. Joe Strummer, cresta e completo rigorosamente di colore rosso, si accorge di loro e col pugno chiuso alzato al cielo si dirige verso la folla; un bodyguard lo ferma in tempo e lo spinge nel retropalco. È solo l’inizio di una serata esplosiva. Quando la band londinese apre il live con la consueta London Calling, l’arena ha raggiunto la capienza massima, circa ventimila persone. La loro performance, anche questa volta, non ha deluso le aspettative.

«Sotto la scritta “Sex style subversion”», riporta l’inviato de La Stampa il 9 settembre, «e sullo sfondo di un grande tabellone ricoperto di foto in bianco e nero, i Clash hanno lanciato il loro classico richiamo d’apertura. E il pubblico ha risposto: alzando il pugno, qualche volta ricoperto di stracci bianchi e neri, secondo la moda punk, ballando, cantando, urlando a voce piena certe strofe di canzoni che suonano proprio come slogan (…). Joe Strummer e il suo gruppo non si sono risparmiati».

La fotografia del Velodromo è proprio questa: slogan, pugni alzati, ribellione, si, ma consapevole. Rende bene la definizione che dei Clash fa lo scrittore Carlo Lucarelli in una puntata di Dee Giallo, dedicata a Paul Simonon, su Radio Deejay: del genere punk sono sicuramente il gruppo più «conscious», più impegnato, più costruttivo. E, nel 1984, sembrano esserlo ancora di più. «Oggi Joe Strummer», scrivono Gianni Cesarini e Federico Vacalebre su Il Mattino all’indomani del concerto di Cava de’ Tirreni, «è un rocker molto meno romanticamente rivoluzionario e molto più concretamente capace di incidere». La carica dei Clash, insomma, contagia anche il pubblico della Capitale, regalando una performance che, ancora oggi, ricordano in molti. Ma lo spettacolo non termina dopo due ore intense di musica e prosegue in una improvvisata e ingestibile conferenza stampa tra i membri della band e i numerosi cronisti accorsi al festival dell’EUR. Di seguito, un lungo resoconto del giornalista Giorgio Melone, pubblicato su L’Unità il 9 settembre 1984:

«I suoi diritti, Joe Strummer, li ha ripetuti come in un comizio di fine secolo, durante la conferenza stampa dopo il concerto. In piedi sul tavolo, con una bottiglia di Frascati Superiore semivuota in mano, dopo aver travolto sedie e microfoni, ha aggiunto: “Abbiamo il diritto di vivere in pace. Qui ed ora. Perché questa è la pace, la possibilità di parlarci liberamente, come stiamo facendo adesso, senza il pericolo di una bomba sospesa sulla testa”. Ma la bomba c’è, ed è già sospesa. “Ascoltatemi – urla Strummer in una confusione sempre maggiore, provocata dai suoi compagni che passano tra i giornalisti offrendo vino – è anche contro la bomba che stiamo cantando. Tutti devono fare qualcosa contro la bomba, e non c’è bisogno di andare alle manifestazioni pacifiste. Bisogna soltanto tirare fuori, con tutta la forza, la propria voglia di vivere e sbatterla in faccia alla signora Thatcher, a Reagan o a Cernienko. Noi lo facciamo con la nostra musica e per questo dicono che il nostro rock è politico e fa paura. Perché la forza del rock e di un corpo che balla il rock fa paura al potere”. L’arringa continua, provocatoria: “Siamo stati a Napoli, c’era tanto calore. Un’ora fa ho cantato davanti a un pubblico meraviglioso. Perché voi che siete gli intellettuali che hanno studiato nelle università non vi muovete? In Italia ci sono le bombe, in Spagna, in Inghilterra. E intanto con i dollari di Mr. Reagan ricominciano ad ammazzare la gente nell’America del Sud. Noi lottiamo cantando in mille concerti, anche se potremmo stare a casa comodi a far tanti soldi in più incidendo dischi: tirate fuori la vostra forza e sbattetela in faccia a tutte queste persone. Make your own luck, boys, make your own luck: fatevela voi la vostra fortuna ragazzi, fatevela voi”…».

Neanche ventiquattro ore dopo il concerto del Velodromo, i Clash si esibiscono alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia. Il 10 settembre suonano al Palazzetto dello Sport di Genova. Anche nel capoluogo ligure, la carica di Joe Strummer è tale che il concerto rischia di essere interrotto:

«Prima di attaccare le note della celebre Radio Clash», si legge su La Stampa l’11 settembre 1984, «il cantante, al colmo dell’eccitazione, in un italiano stentato ma sufficientemente comprensibile, ha invitato i ragazzi a salire sul palco. Il messaggio era chiaro, almeno cosi è sembrato. Respinti gli assalti isolati dei primi intraprendenti fan, l’efficiente servizio d’ordine è stato sopraffatto da un nutrito drappello di giovani che hanno invaso il palcoscenico, spingendo in posizioni di retroguardia il gruppo. Per una decina di minuti il concerto è proseguito così, con la voce di Joe Strummer che sembrava levarsi dalla baraonda di braccia, gambe e capigliature punk, sotto i riflettori blu e rossi (…). Il concerto è stato sospeso per una decina di minuti, il tempo di ricatapultare la folla di giovani che avevano invaso il campo tra il pubblico».

L’ultima tappa del tour italiano è prevista allo Stadio Comunale di Torino l’11 settembre. Una serata amara, sia per la band che per le migliaia di giovani accorsi nel capoluogo piemontese: il concerto viene annullato dalla commissione di vigilanza torinese in quanto l’impalcatura non è montata a norma. Già nel tardo pomeriggio monta la rabbia del pubblico (quasi quattromila le prevendite già vendute) e per poco non si verificano disordini presso i cancelli dello stadio. In prima fila, ad infiammare la folla, c’è sempre lui, Joe Strummer:

«Una congiura anti-Clash, dunque? Loro», scrive il 12 settembre 1984 l’inviata de La Stampa Laura Schrader «non hanno dubbi. Arrivano allo stadio largamente forniti di birre e bottiglie di vodka che distribuiscono ai pochi presenti: “Cantiamo e balliamo insieme, divertiamoci”. Ma nessuno ne ha voglia, si preferisce ascoltare il discorsetto arrabbiato del leader del gruppo (…): “In questi giorni in Italia mi sono proprio divertito – dichiara Strummer – e ieri a Genova, sul palco, me la sono goduta davvero. Soltanto a Torino non ci vogliono. Platini è benvenuto in questo stadio, ma non i Clash” …».

Rispetto ai due concerti di Milano, dove i nuovi innesti erano ancora in fase di «rodaggio», le esibizioni di Cava de’ Tirreni, Roma, Reggio Emilia e Genova furono decisamente più convincenti e, per il futuro della band, non promettevano per niente male. «I Clash erano vivi e stavano bene, alla faccia di chi li aveva messi in croce a febbraio», scrive Jacopo Ghilardotti nel suo libro «Ribelli all’angolo». Ma, come si è già detto, il 1984 è il loro ultimo anno e i Clash si scioglieranno definitivamente tredici mesi più tardi; appena in tempo per lasciare il segno anche in Italia.