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Aprile 1980, l’eliminazione di Amleto Fabiani, detto «er Voto»

Matteo Picconi

«Amleto Fabiani si venne a trovare in una posizione piuttosto delicata: da un lato con De Pedis, al quale aveva dato uno schiaffo, e che non lo aveva mai perdonato per questo; dall'altro con noi, per quanto accaduto con Marcello Colafigli»

Nei frequenti resoconti di cronaca nera risalenti agli anni Settanta e Ottanta, termini come «boss», «regolamento di conti», «sgarri» ecc… venivano largamente impiegati per la ricostruzione di fatti criminosi che, almeno all’epoca, non erano ben chiari all’opinione pubblica, ai cronisti, probabilmente neanche alle forze dell’ordine. Eppure per quanto concerne l’eliminazione di Amleto Fabiani, personaggio collaterale alla famosa Banda della Magliana, il concetto di «sgarro» ben si sposa con la dinamica dei fatti che hanno portato al suo efferato omicidio, avvenuto peraltro in un periodo particolare, nella primavera del 1980, anno in cui l’organizzazione era all’apice del suo potere criminale nella Capitale.

L’omicidio Fabiani si colloca in un contesto di poco precedente all’agguato mortale nei confronti di Franco Giuseppucci e della conseguente faida con il clan Proietti. Dall’eliminazione di Franco Nicolini, avvenuta due anni prima presso l’ippodromo di Tor di Valle, la banda aveva consolidato il controllo su tutta la piazza romana, dal gioco clandestino al traffico degli stupefacenti. Una supremazia territoriale che, tuttavia, andava mantenuta: non tutti i malavitosi della «vecchia guardia», legati a preesistenti ambienti criminali, digerivano i nuovi ras del gruppo Magliana-Acilia e Testaccio. Difficilmente tali resistenze venivano perdonate. Alla luce delle ricostruzioni sopraggiunte oltre un decennio più tardi con la cattura di Maurizio Abbatino e l’operazione «Colosseo», il caso Fabiani può inquadrarsi in tale contesto così come un altro omicidio avvenuto poche settimane prima, quello di Teodoro Pugliese – pregiudicato della banda dell’Alberone che con i suoi affari dava fastidio a Giuseppucci – sospettato inoltre di essere un informatore della polizia, nonché colui che aveva fatto proprio il nome del Negro nel famoso caso delle armi ritrovate all’interno della roulotte di quest’ultimo.

«ER VOTO», TRA VECCHIA E NUOVA MALA

Amleto Fabiani in una segnaletica di fine anni 70

Amleto Fabiani in una segnaletica di fine anni 70

Sono pochi i dati biografici relativi a Amleto Fabiani. Nato nella Capitale il 26 novembre 1947, cresce nelle periferie a sud di Roma venendo ben presto a contatto con il mondo della criminalità comune. Come molti suoi futuri sodali, conosce il carcere minorile di Casal del Marmo nel corso degli anni Sessanta. In occasione di una detenzione presso tale istituto incontra per la prima volta Antonio Mancini e il Roscio Gianni Girlando. Nel libro «Il sangue agli occhi», scritto in collaborazione con Federica Sciarelli, è proprio l’Accattone a ricordare quell’incontro con quel quattordicenne spavaldo e un po’ arrogante:

«Un giorno videro arrivare questo pischello dal nome strano: Amleto. Ma non fu oggetto dei loro scherzi, anzi, lo accolsero con un affettuoso benvenuto, e da due amici diventarono tre. Amleto raccontava con spavalderia a Nino e Gianni di aver rubato un camion pieno di elettrodomestici. Inseguito dalla polizia, aveva tentato la fuga lanciando sulle auto degli inseguitori televisori, radio, tostapane, frullatori, insomma tutto quello che aveva a portata di mano. Come facesse a guidare e contemporaneamente afferrare e lanciare ogni sorta di oggetto, non è molto chiaro. Ma a Nino e Gianni piaceva il loro nuovo amico. Si era comportato con molto coraggio e non gli fecero tante domande».

L’amicizia con Mancini va avanti nel tempo tanto che i due si trovano anche a compiere alcune rapine insieme. Tuttavia nella carriera criminale di Fabiani emerge un dato su tutti: come dettava la malavita romana di allora, è un indipendente, un cane sciolto, collabora laddove c’è da realizzare un colpo. Il suo nome viene accostato dapprima alla banda di Mariano Castellani, poi a quella di Tiberio Cason, il boss di Centocelle, infine a Gianfranco Urbani detto er Pantera. Ma è soprattutto nelle borgate di Roma sud che stringe i legami più forti, in special modo con le batterie di Tor Marancia e Garbatella; tra i nomi più noti vicini al Fabiani emergono le figure di Manlio Vitale e Massimo Barbieri. Nella seconda metà degli anni Settanta, infine, si avvicina al clan dei Testaccini: suo cognato è Luciano Mancini, detto er Principe, personaggio legato al giro degli usurai di Campo de’ Fiori.

Un personaggio tutto sommato ben immerso nel panorama criminale, in quegli anni di pieno mutamento della Capitale. Alle cronache è pervenuto questo soprannome un po’ curioso di Fabiani, er Voto, nel senso di vuoto, di nulla nel cervello. Un nomignolo probabilmente dettato non tanto dalla mancanza di intelligenza, quanto da un eccesso di spregiudicatezza e incoscienza. Un soggetto forse più votato all’azione che alla pianificazione di un crimine. E, infatti, Amleto Fabiani ricorre molto spesso nella cronaca nera degli anni Settanta.

Il suo nome compare per la prima volta nel 1972 in relazione alla rapina del Banco di Roma di piazza Vittorio, nel corso della quale resta ucciso l’appuntato Antonio Cardilli. Nel 1976 invece risulta coinvolto in un’altra spettacolare rapina ai danni di un convoglio postale giunto ai binari della stazione Termini e nella spericolata fuga a suon di bombe a mano finita col suo arresto sul Colle Oppio. Ma è nei sequestri di persona che er Voto si ritaglia un ruolo di primo piano nella seconda metà degli anni Settanta. Considerato vicino a Tiberio Cason, Fabiani entra nel mirino degli inquirenti che indagano sulla «anonima sequestri romana».

Nell’aprile del 1978 viene inquisito, insieme a Barbieri e a Vitale, per il rapimento del duca Massimiliano Grazioli, in quanto trovato in possesso di alcune banconote provenienti dalla somma pagata dalla famiglia del sequestrato. I tre vengono scagionati due mesi dopo. Nel marzo 1979 viene nuovamente incriminato (e successivamente prosciolto) per il sequestro del costruttore di simpatie democristiane Emilio Francesco Falco, realizzato in collaborazione con un gruppo attivo nella provincia di Bari. L’ultimo fatto di cronaca risale sempre al 1979, quando il suo nome viene accostato all’omicidio di Antonio Sbriglione, pregiudicato catanese trovato carbonizzato nella pineta di Castel Fusano, presso il litorale di Ostia. Anche in quel caso, Fabiani, riesce a dimostrare la sua estraneità ai fatti.

Er Voto non collabora solo con la vecchia mala romana, ma stringe contatti anche con i nuovi boss in ascesa della futura Banda della Magliana. Nell’ordinanza di Otello Lupacchini il primo a sottolineare un legame con il Fabiani è sempre Antonio Mancini, in un interrogatorio reso il 29 aprile del 1994:

«Nel 1975, 1976, il carcere di Regina Coeli era “una baraonda” (…) Dopo il mio trasferimento al carcere di Pescara, peraltro, l’organizzazione alla quale era stata data vita, ricevette, ma non sono in grado di dire da chi, il suo primo incarico: l’eliminazione di tal Tripodi, proprio all’interno del carcere di Regina Coeli. I mandanti dell’omicidio», ricorda sempre l’Accattone, «che doveva essere commesso da Nicolino Selis, da Edoardo Toscano e da Amleto Fabiani, avevano procurato che una pistola fosse recapitata nel carcere; materialmente l’arma era stata fatta pervenire al Fabiani; l’omicidio, che sarebbe stato senz’altro commesso, tuttavia, non avvenne in quanto, inspiegabilmente, il Tripodi era stato trasferito improvvisamente ad altro istituto».

Avvicinatosi a Danilo Abbruciati e al clan dei Testaccini, per Fabiani sembra profilarsi un nuovo salto di qualità nel panorama criminale capitolino. Eppure qualcosa va storto e nel corso di una detenzione er Voto commette un primo, imperdonabile, sbaglio che segna definitivamente il suo destino.

«ERA UN IMPULSIVO», DUE SGARRI IMPERDONABILI

Piazza Damiano Sauli oggi, nel marzo 1980 fu teatro della lite tra Fabiani e Marcello Colafigli

Piazza Damiano Sauli oggi, nel marzo 1980 fu teatro della lite tra Fabiani e Marcello Colafigli

Antonio Mancini, nel già citato libro della Sciarelli, definisce Fabiani un po’ avido, di quelli che dopo il colpo sparisce con la sua stecca senza neanche offrire una cena. Recentemente Maurizio Abbatino, nel libro-intervista «La verità del Freddo» a cura di Raffaella Fanelli, lo definisce semplicemente «un impulsivo», forse troppo temerario in un ambiente, quello carcerario soprattutto, dove le gerarchie stavano cambiando e dove il sistema delle batterie divise per zone stava lasciando il passo a una centralizzazione del potere malavitoso in mano a pochi personaggi, dettato da un sistema di alleanze spalleggiato dalle organizzazioni criminali ben radicate nel Sud della Penisola, siano queste emergenti, come la NCO di Raffaele Cutolo, o le cosche mafiose siciliane e calabresi. Probabilmente Fabiani non sa che quel Enrico De Pedis, che già si fa chiamare Renato, si sta ritagliando un ruolo di primo piano nel clan dei Testaccini e nella futura Banda della Magliana. È proprio con lui che er Voto entra in contrasto mentre entrambi sono «ospiti» presso il carcere trasteverino di Regina Coeli.

«Con Fabiani», scrive in «Ragazzi di malavita» il giornalista Giovanni Bianconi, «aveva un conto in sospeso Enrico De Pedis… er Voto si era permesso di dare uno schiaffo in pubblico a Renatino. Ma una volta usciti tutti e due dalla galera, De Pedis non s’era dato troppa pena per vendicarsi».

Pur restando ignote le cause del diverbio all’interno del carcere, il futuro boss dei Testaccini sembra lasciar correre l’accaduto. Tuttavia, come sottolinea Abbatino in un interrogatorio dell’ottobre 1992, i rapporti con il clan di Abbruciati e compagni si deteriorano irrimediabilmente. Meglio tornare a operare con i suoi compagni di sempre, come Barbieri (anche lui molto compromesso proprio con il Camaleonte), Manlio Vitale e le vecchie batterie attive a Sud della Capitale. Ma è proprio nel cuore di una di queste borgate, la Garbatella, ormai sotto il pieno controllo della Banda della Magliana, che avviene l’irreparabile, e Fabiani compie il suo secondo, imperdonabile, sbaglio. Se lui è un personaggio impulsivo, con Marcello Colafigli, residente nel vicino quartiere San Paolo e uomo di fiducia sia del Giuseppucci che del Crispino, trova pane per i suoi denti. Di qui il famoso episodio del bar Settebello, sito in piazza Damiano Sauli, uno dei tanti locali frequentati dai bravi ragazzi di allora. La data è incerta: dai resoconti degli interrogatori il fatto sarebbe avvenuto un mese prima dell’omicidio di Amleto Fabiani, quindi presumibilmente nel marzo 1980. L’episodio lo ha raccontato nei particolari proprio Abbatino nel suddetto interrogatorio del 1992:

«Davanti al bar Settebello vi era stata una rissa, o comunque una violenta discussione tra il suddetto Fabiani e Marcello Colafigli, nel corso della quale il secondo aveva ricevuto una bottigliata in testa. Marcello Colafigli venne subito dopo al bar di via Chiabrera, dove eravamo io, Edoardo Toscano, Gianfranco Sestili e Claudio Sicilia: rapidissima riunione al bar e, quindi, Gianfranco Sestili si recò al Ministero della Sanità, dove prelevò tre revolver, che furono poi consegnati a me, a Toscano e a Colafigli. Dopo di che, a bordo della mia Mercedes 200, di colore rosso a benzina, tutti e tre ci recammo al bar Settebello, alla ricerca d’er Vòto, qui incontrammo Manlio Vitale, il quale, a conoscenza della discussione, cercò, in quanto amico del Fabiani, di proporre un compromesso pacificatorio, con richiesta di scuse. Marcello Colafigli, nell’occasione, mentre ce ne stavamo andando, picchiò Franco Pistone, cognato d’er Vòto».

Futili motivi, antipatie e rivalità pregresse, mancanza di rispetto nei confronti di personaggi ormai saliti alla ribalta; non si è mai fatta piena luce sulla scintilla che ha acceso la rissa nel bar della Garbatella. Nell’ordinanza Lupacchini tale lite viene definita come «riflettente una situazione latente di sopraffazione di ambiente, che portò alla determinazione di eliminare un personaggio evidentemente non volutosi assoggettare». Quel che è certo è che l’imprudenza del Voto, scampato per un soffio dalla vendetta a caldo di Marcellone, suona già come una condanna a morte. Dopo lo schiaffo a De Pedis e la bottigliata a Colafigli, la sua posizione ormai è compromessa. Secondo quanto riportato da Bianconi, il cognato di Fabiani, Franco Pistone, organizza presso il famoso bar testaccino, sito vicino al cinema Vittoria, una riunione di pacificazione tra i diretti interessati

Di questa riunione, alla quale avrebbero preso parte lo stesso Fabiani, Franco Giuseppucci e De Pedis (non Abbatino), ne ha parlato anche Claudio Sicilia, altro grande pentito della banda, ucciso nella borgata Tor Marancia nel novembre del 1991. Così il Vesuviano riporta l’esito di quella riunione in un interrogatorio del 23 ottobre 1986: «Fu proprio il Pistone peraltro a fare in modo che si addivenisse alla pace con il Fabiani che, a detta del Pistone, era molto impaurito (…) Ricordo che il Colafigli mi parlò di questa pace con tono ironico. Qualche giorno dopo, verso le ore 10, si presentò a casa mia con la sorella Mirella e con Franco Sestili. Il Colafigli era particolarmente allegro, ricordo che per pranzo portò delle mozzarellette al burro…».

Forse a seguito di quella riunione Fabiani pensava di averla fatta franca un’altra volta. Invece aveva i giorni contati. Come ben scritto dall’inviato del Corriere della Sera, Roberto Della Rovere, all’indomani dell’agguato mortale ai danni del Voto: «Fabiani era sempre riuscito, miracolosamente, a non farsi incastrare; al momento opportuno riusciva sempre a produrre un alibi adeguato. Se è sfuggito alla giustizia, non è sfuggito ai suoi assassini».

«LO SCHIFOSO CHE STA FUORI»

Il corpo di Fabiani nella sua auto in via Monte del Finocchio

Il corpo di Fabiani nella sua auto in via Monte del Finocchio

Via Monte del Finocchio ancora oggi è una strada isolata, con pochi stabili, che passa sotto la ferrovia Ostia Lido e collega la via del Mare a viale Egeo. Si trova all’estremità sud del quartiere EUR e non c’entra nulla con la borgata Finocchio sita lungo la via Casilina. Una stradina deserta, quasi di campagna, nei primi anni Ottanta letteralmente in preda al giro della prostituzione, anche in pieno giorno, e degli affari sporchi. Perfetta per un regolamento di conti.

Fabiani viene attirato lì con il pretesto di un lavoro il 15 aprile 1980. C’è un deposito della Acotral e alcuni materiali da rubare. Sono da poco passate le 18 quando alle forze dell’ordine giunge una segnalazione di una macchina sospetta, una BMW nera, accostata in quella via isolata. Dentro c’è un uomo al posto di guida, sembra che stia dormendo. Secondo L’Unità la chiamata viene effettuata da tre giovani di passaggio: sono quest’ultimi a fornire ulteriori descrizioni circa altri possibili testimoni dell’agguato. Viene fermata una donna bionda, forse una delle prostitute, poco prima allontanatasi a bordo di una 126. Fermata e interrogata, la donna risulta estranea ai fatti e, come le altre ragazze, si era allontanata per evitare di essere fermata dalle pattuglie.

Gli inquirenti ci mettono pochissimo a identificare Fabiani, trentatré anni, padre di tre figli, un negozio di antiquariato nella centralissima via dei Farnesi. Questa una prima ricostruzione degli eventi fornita dal Corriere della Sera il giorno seguente: «I suoi killers quasi certamente gli hanno sparato di sorpresa, a bruciapelo, dopo averlo fatto accostare al margine della strada, davanti ad un deposito dell’Acotral. Nessuno ha sentito nulla. Forse i colpi sono stati esplosi col silenziatore (…) L’uomo che stava al suo fianco ha infatti strappato la chiave dal cruscotto e l’ha gettata sul pavimento. Il secondo assassino stava invece sul sedile posteriore. È stato certamente quest’ultimo a sparare i colpi che hanno colpito Fabiani alla tempia».

Come si suol dire, un’esecuzione in piena regola. Una morte, peraltro, piuttosto annunciata. Eppure basta leggere le cronache di allora per comprendere come le indagini si siano avvicinate ben poco alla verità e, soprattutto, quanto poco si sia saputo in quel 1980 sugli sviluppi della criminalità organizzata nella Capitale. Faida tra bande, guerra per il giro di droga, tra il delitto Pugliese e l’esecuzione di Fabiani i media si scatenano in fantasiose ricostruzioni che poco si avvicinano alla realtà dei fatti. Nei giorni immediatamente successivi all’agguato dell’EUR vengono tratte in arresto alcune persone considerate vicine agli affari del Voto (persino una sua amante di nome Rosalba), accusate di associazione a delinquere: nessuno di questi nomi è riconducibile alla Banda della Magliana.

Per fare un po’ di luce su quel brutale omicidio bisognerà aspettare in prima battuta il pentimento di Claudio Sicilia nel 1986 e, infine, la cattura di Maurizio Abbatino. Anche in questo caso le versioni del Vesuviano e del Crispino, per quanto concerne l’individuazione di esecutori e mandanti, grosso modo seguono la stessa trama. Ad attendere il Fabiani in via Monte del Finocchio vi sono Renatino De Pedis e Raffaele Pernasetti, proprio coloro che qualche giorno prima, a Testaccio, avevano recitato il ruolo di pacieri nel «chiarimento» con Colafigli. Ne Sicilia né Abbatino indicano chi tra i due abbia materialmente sparato (chi premette il grilletto è rimasto, di fatto, ignoto). Può quindi stabilirsi con certezza che il delitto porta la firma dei Testaccini e che De Pedis, alla fine, abbia trovato il modo di vendicarsi dello schiaffo subìto qualche anno prima. Ma è stato un delitto comunque voluto da tutti i sodali della banda. Il concetto viene ribadito da Abbatino nel suddetto interrogatorio del 1992:

«Poiché l’omicidio era stato concordato insieme ed io, Toscano, Marcello Colafigli e Gianfranco Sestili, potevamo essere sospettati, stante la recente discussione, per procurarci un alibi ci recammo a giocare a tennis, su dei campi ubicati presso l’argine del Tevere alla Magliana».

L’esecuzione, per quanto concordata sia dal gruppo Magliana-Acilia che dal gruppo di Testaccio, crea comunque un piccolo risentimento del primo nei confronti di De Pedis. A spiegarlo è Vittorio Carnovale in un interrogatorio reso il 29 ottobre 1993: «Vi fu una lite per il fatto che il luogo dove avvenne l’omicidio stesso, ad opera dei Testaccini, era ritenuto compromettente per il nostro gruppo».

Resta solo un piccolo, ma fondamentale passaggio che lega gli eventi alla tragica fine del Voto. Fabiani non sarebbe mai caduto nel tranello di De Pedis: per quanto i rapporti tra i due non fossero degenerati, non vi era mai stato un chiarimento dopo lo sgarro di Regina Coeli. Per recarsi in un luogo così isolato, la vittima doveva necessariamente fidarsi. Su chi avesse «portato a dama» il Fabiani, il Crispino è lapidario: «Il Voto» si legge sul già citato libro-intervista della Fanelli «si fidava di Manlio Vitale, che lo attirò in trappola con la scusa di un lavoretto da fare».

Come degna conclusione di una brutta storia di mala, resta la frase che Colafigli avrebbe detto a Sicilia in quei concitati giorni della primavera 1980: «Tolto di mezzo quello schifoso che sta in carcere e quest’altro che sta fuori, a Roma comandiamo noi». La «profezia» di Marcellone travolge per primo Amleto Fabiani; per Selis bisognerà aspettare il febbraio dell’anno seguente. Ma la morte di Franco Giuseppucci, sopraggiunta inaspettatamente il 13 settembre 1980 in piazza San Cosimato, cambierà nuovamente le carte in tavola.