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Montreux 1975: l’indimenticabile esibizione di Etta James, la «Maradona del soul»

Sebastiano Palamara

Quella sera si presenta una leonessa strafatta, appesantita, smarrita, il volto imperlato di sudore, le guance rosa. Smorfie da clown stravolto, un frame estrapolato dal manuale dell’autodistruzione

Risale al 1967 la prima edizione del Festival di Montreux, un appuntamento musicale divenuto immediatamente uno dei più prestigiosi del mondo: se già all’esordio si avvicendarono sul palco mostri sacri come Ella Fitzgerald, Keith Jarrett, Nina Simone, Weather Reports, anche negli anni seguenti il parterre del Festival continuò a vantare la presenza dei più grandi musicisti del pianeta nei generi jazz, blues, R&B, soul. In una cornice del genere non poteva mancare Etta James (1938-2012), che infatti nell’estate del 1975 arriva a Montreux per il suo primo concerto europeo. Per tutti «Lady soul», Etta James è stata la sontuosa interprete di perle come «All I could do was cry», «The Wallflower», «At Last», «Tell Mama», «Something’s got a hold on me», «I’d rather go blind», protagonista di una carriera straordinaria: quaranta album pubblicati, vincitrice di sei Grammy Awards e diciassette Blues Music Awards, ventiduesima tra le cento voci migliori di tutti i tempi secondo la rivista Rolling Stones. Una leggenda.

UN’INFANZIA CHE SEMBRA LA NEMESI DEL SOGNO AMERICANO. LA DIPENDENZA DALL’EROINA

Ma la sua non è stata un’esistenza fatta solo di paillettes e luci scintillanti. Svezzata precocemente da un’infanzia che sembra la nemesi fatale del sogno americano, Etta cresce soprattutto con una serie di genitori adottivi; la divora presto il rimpianto di un padre mai conosciuto – anche se lei era convinta fosse il campione di biliardo Rudolf «Minnesota Fat» Wanderone – e l’invadente lontananza di una madre problematica, così assente che lei stessa la chiamava «Mistery Lady». Inizia a cantare a cinque anni in una chiesa battista di Los Angeles dove il maestro del coro, fine educatore, ha l’abitudine di prenderla a pugni sul petto per «far uscire la voce dall’intestino», così diceva quell’infame. È segnata anzitempo dagli abusi subiti da uno dei patrigni, un’anima nera col fiato greve di whisky a buon mercato, uno che durante le sue partite notturne a poker la svegliava e la percuoteva obbligandola ad esibirsi per la sua ottusa bisca improvvisata. Lei ancora bambina, mezza addormentata, impaurita, qualche volta costretta a cantare col pigiama bagnato di pipì. Non sopporterà mai più di cantare su richiesta, neanche molti anni dopo, quando già irrimediabilmente avvinta dalla fama delle copertine, delle folle, delle adulazioni, delle feste tristi.

Scoperta da Johnny Otis che all’inizio degli anni Cinquanta la lancia col gruppo The Creolettes, nel 1961 Etta trova il successo internazionale con l’indimenticabile At last, ma allo stesso periodo risale l’inizio della dipendenza dall’eroina. Straripante e sregolata, la cantante comincia presto il dentro e fuori dai centri di rehab, a falsificare le ricette mediche per procurarsi gli antidolorifici ingurgitati come caramelle, a scolare bottiglie e bottiglie di metadone, a firmare assegni scoperti. Arrivano poi il carcere, la cocaina, le paranoie, l’obesità, il cortisone, le benzodiazepine. Alloggi improvvisati e bende gastriche al posto della cintura, mostri e rimpianti, spreco e necessità. Fuori controllo. Racconta nella sua autobiografia Rage To Survive: The Etta James Story (scritto con David Ritz), di rendersi conto di star per affogare in un abisso di fango quando si ritrova a praticare sesso orale ad un ottantenne per procurarsi una bustina di «roba». La nebbia.

ECCESSIVA E SMODATA, AFFOGATA NEGLI INFERI DEL SUO MALEDETTO GENIO

Artista precoce e grandiosa, Etta si sente masticata sin dagli esordi dalle fauci di avvoltoi in abito da sera: nei primi dieci anni di carriera le vengono corrisposti dalla casa discografica solo diecimila dollari, a fronte di incassi decine di volte superiori. Ma a schiacciarla, ben presto, è il peso del suo stesso personaggio: una specie di Maradona del soul, col cuore sempre stordito e la coscienza irrequieta e paranoica. Nessun filtro intermedio tra sé e le proprie devastanti emozioni, mai fedele e al tempo stesso sempre uguale a sé stessa, che si trovasse alla Casa Bianca con il presidente Usa o in una bettola qualunque con un alcolizzato col cappello texano e la camicia imbrattata di vomito.

Eccessiva e smodata, combatteva i suoi fantasmi ingozzandosi e superandosi, annientandosi e smarrendosi. Affogata negli inferi del suo maledetto genio, che si preoccupassero gli altri di dare il «buon esempio»: i normali, quelli che non sono sempre «oltre», così tanto da smarrirsi nella più straziante delle solitudini, quella che ti assale e ti divora d’angoscia non appena il boato del pubblico o di una folla adorante si spengono, si mettono a tacere, quando le feste tristi finiscono e si ritorna a casa.

«SOMETHING TOLD ME IT WAS OVER». UN RUGGITO CHE È COME UN GRAFFIO

Quella sera del 1975 sul palco di Montreux si presenta una leonessa strafatta, appesantita, smarrita. Le telecamere la immortalano vestita con una curiosa salopette, il volto imperlato di sudore, le guance rosa. Smorfie da clown stravolto, al posto del viso una maschera da cinema muto, un frame estrapolato dal manuale dell’autodistruzione. In quell’aria persa, tuttavia, una strana forma di lucidità: se disfatta dev’essere, che almeno sia radicale, senza sconti. E quegli occhi neri, che fissano un punto indefinito, come in una strana indagine preclusa ai più, per poi fuggire tutt’a un tratto con un’inquietudine erratica che sottende a qualcosa di più vivo, di più recondito, talvolta opposto alle parole cantate che quegli sguardi accompagnavano.

«Something told me it was over» attacca a un certo punto, con un ruggito che è un graffio, un graffio con cui cerca di recuperare la vita che le sfugge via. Con una voce che conduce nelle acque limpide di un’illusione in cui la vita non è più solo un carnevale di maschere grottesche in cui trascinarsi tra i conati di nausea, contando i giorni che rimangono alla fine, ma anche un teatro dove partorire bellezza. Trascinata da passioni tanto violente quanto delicate, animata da una potenza misteriosa che entra nel profondo, solleva, ingrandisce, raddoppia di forza tutto ciò che incontra. È il segno tragico di una rabbia testarda e irriducibile.

«When I saw you and her talking». Quella sera a Montreux, in una manciata di istanti l’alchimia del suono trasforma la realtà della vita in un disegno d’arte denso di significato; in ogni onda emanata dalla sua voce magica, in quella straordinaria inquietudine armonica e timbrica c’è lo sforzo titanico e vano di ritrovare sé stessa. «Something deep down in my soul said “cry girl”». Più che euforica, disforica, un «fuori di sé» da mistica invasata, senza però crocifissi né invocazioni, nessuno le avrebbe ascoltate. Ma poi di quale «sé» parliamo, nel guazzabuglio delle identità irrisolte e sovrapposte, negate, nella malafede di ogni rappresentazione e progetto, nell’inanità di ogni intenzione?

NON DI PUÒ ESSERE ETTA JAMES SENZA PAGARE UN PREZZO INESTIMABILE

Fino in fondo oscena, dal greco o-skené, fuori scena, ci ricordava un altro genio come Carmelo Bene. Che fosse una divinità dispettosa a costringerla a essere straripante? Se così fosse, non era certo simile a quella di Cartesio, vicina piuttosto ad una Amy Winehouse ante litteram, assediata da uno di quei demoni che ti alitano addosso e ti irretiscono fino allo spasmo in un ginepraio di amarezza e di ricordi.

Quella sera d’estate a Montreux Etta James non era su un palcoscenico, ma sul pontile di una nave che solcava da millenni gli oceani dell’afflizione e della nostalgia. Sovrastata da un cielo allucinato da cui le colava addosso pietà liquefatta, accerchiata da una realtà che le appariva come un labirinto cosparso di specchi: è lì, in una miriade di stanze abitate da troppi Minotauri irriverenti, che la sua immagine si moltiplicava all’infinito, nella Micene della dissoluzione dell’Io. Trascinata dall’àncora della disillusione verso il fondo interminabile delle tenebre, alla deriva nella risacca di un mondo di plastica.

«That I don’t want to watch you leave me babe». Quel giorno a Montreux Etta James non mise in scena solo il momentaneo riparo dall’insopportabile verità sulla nostra condizione – quello che i filosofi chiamano il valore consolatorio dell’arte – perché nella voce sovrannaturale di questa zingara nera la pazzia sembra trasfigurarsi in chiaroveggenza, e sfociare talvolta nel momentaneo ma beffardo superamento della lotta tra vero e falso. Imprigionata dall’eterno presente in cui tutte le illusioni si sono già arenate, come se il tempo e le esperienze non fossero mai serviti a niente, sprofondata fino al collo in una fangaia di scheletri e vuote cianfrusaglie, in cui il tempo non passa e continua a girare in tondo, implacabile. Non si può essere Etta James senza pagare un prezzo inestimabile. «Qualcosa mi ha detto che era già finita». Si, Etta, era già finita.