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La stampa italiana e la sottocultura «punk»

Redazione Spazio70

«La spilla? E' più facilmente infilata all'angolo non della guancia ma della giacca. Segno che nei tempi ci sei ma non ne vuoi pagare troppo le conseguenze "fisiche"»

Nella seconda metà degli anni Settanta, le principali testate italiane come interpretavano la sottocultura «Punk»? Cosa avevano realmente compreso di quel mondo? Ecco alcuni stralci tratti da «Il Corriere della sera» (1977).

«Capelli giallo ocra con striatura verde mela. Guinzaglio con lucchetto (chiave donata dalla sua amata). Tre orecchini al lobo dell’orecchio, ecco un tipico ragazzo Punk. Punk è un’espressione di estrazione americana che più o meno significa “qualcosa di orrendo e puzzolente che non vale nulla”. In inglese è usata gergalmente anche per definire spregiativamente l’organo femminile».

«Con quel solito anno, poco più poco meno, di differenza con cui i movimenti stranieri si trasferiscono in Italia, anche da noi sono arrivati i Punk. Le spille Punk, quelle infilate nell’angolo della guancia. Ma essendo noi una razza che tutto sommato non ha mai amato il Grand Guignol, i roghi e gli indemoniati, la spilla è più facilmente infilata all’angolo non della guancia ma della giacca. Segno che nei tempi ci sei ma non ne vuoi pagare troppo le conseguenze “fisiche”».

«LE FACCE DEI NOSTRI PUNK? ESPRIMONO NOIA»

«La musica Punk che in Inghilterra, paese da cui è stata importata, è fatta da gruppi che tradotti, si chiamano Maledetti, Dannati, Strangolatori. Quello che da noi sembra andare invece più forte si chiama Incesto. Ovviamente formato da un fratello e una sorella che dialogano a colpi di sadomasochismo. Ma c’è anche Maurizio, quel ragazzotto biondo dalla faccia qualunque che dieci anni fa stava nei Newada e suonava al Piper di Milano per i ragazzi per bene o quasi e che oggi con una giacca di plastica nera, una spilla sulla guancia e una moglie bianca agghindata più o meno come lui tenta la strada del diverso».

«Una volta c’erano gli hippies, belli con quei loro fiori nei capelli, l’aria un po’ triste per la noia e il fumo, ma mai violenta. C’erano i Rockers, i Teddy Boys. Con l’aria violenta, sì, ma tutto sommato di una violenza costruttiva, diretta a distruggere una società che per loro non andava, spinti dall’entusiasmo per qualcosa che non era ancora definito ma si cominciava a respirare nell’aria. La contestazione. E sono arrivati i ragazzi con gli eskimo e i caschi. Ci sono ancora oggi. Tirano molotov e ogni tanto sparano. Metodi che possiamo non condividere ma che sono causati da un profondo malessere. Le facce di questi nostrani punk esprimono invece la noia di ritrovarsi in qualche discoteca o davanti a un bar di via Torino dove sono state fatte queste fotografie, e di vedersi tutti con la faccia dipinta di nero. Gli indiani, quelli metropolitani, almeno si dipingono di rosso che è un colore più vivo».