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«La butto giù dalla Torre degli Asinelli»: la minaccia del Carmelo Bene «comunista» al politico Dc

Sebastiano Palamara

Tra le polemiche per la commemorazione-spettacolo organizzata in occasione del primo anniversario della strage di Bologna, anche la reazione dell'attore agli insulti piovutigli dalla opposizione democristiana in consiglio comunale

Bologna 1981. Una «Quattro giorni contro il terrorismo» per ricordare il primo anniversario della strage alla stazione di Bolognai: è questa l’idea della giunta a maggioranza comunista guidata da Renato Zangheri. Dal 30 luglio al 2 agosto, la città emiliana sceglie di ospitare una fitta serie di convegni, dibattiti, concerti musicali, reading di poesia. I principali destinatari dell’invito sono i giovani, che accorrono a migliaia da tutta Europa: giunge, quasi immediata, l’adesione di più di quattrocento associazioni. L’idea di una commemorazione «non tradizionale» manda subito in fibrillazione Palazzo d’Accursio, cuore pulsante del serraglio dei partiti bolognesi: qualcuno è riluttante, non pochi sono i perplessi, molti gli imbarazzati. Le polemiche su «come commemorare le vittime di Bologna» iniziano a infuriare. L’idea del Pci si trasforma rapidamente in uno scandalo: «Socialisti contro comunisti, laici contro cattolici, democristiani contro tuttiii». Il Psi, che è parte della maggioranza e figura tra gli organizzatori dell’iniziativa, comincia a temere una kermesse in stile festa dell’Unità, e tenta di sfilarsi: «Si sta strumentalizzando un po’ troppo». Per la destra – e in generale per i moderati – si tratta, nel migliore dei casi, di una «festa frivola». Nel peggiore, di un vero e proprio oltraggio ai morti.

«AL MESSAGGIO DI MORTE DEI TERRORISTI SI RISPONDE CON LA CULTURA, CON LA VITA»

A chi si dice contrario, scrive l’Unità, «convegni e concerti suggeriscono una sola idea: che non ci sia rispetto per i morti. Solo il silenzio, dicono, onora le vittime. E la parola silenzio evoca tristezza, raccoglimento, severità. Ecco allora nascere la contrapposizione tra festa e morte. Dove festa non significa, nelle parole dei critici, necessariamente festival ma descrive qualsiasi rumore, affollamento, colore, vita attiva. Il silenzio o la cristiana preghiera sarebbero le manifestazioni più consone al dolore e al ricordo (…). Discorsi, ammonimenti, severi attimi di raccoglimento e magari, come qualcuno ha proposto, qualche rintocco di campana. Poi tutti a casa con un sottile senso di smarrimento. Aspettando altre morti e altri riti. Ma, così, assieme all’esaurirsi dei solenni ricordi ufficiati si consuma anche la democrazia e soprattutto il suo rapporto con i giovaniiii». Il Corriere della Sera, invece, osserva: «Le polemiche attraversano il dolore per rubare spazio politico, e le accuse riflettono una cultura intimista». Tutt’al più, si può considerare accettabile la musica, ma «per carità le paroleiv». Il sindaco comunista Renato Zangheri, però, non ci sta: «Al messaggio di morte che i terroristi hanno mandato, si risponde anche con la cultura, con la vita. Basta riti vuoti e inutili. I caduti si ricordano anche con opere per i vivi. C’è una funzione civile dell’arte a cui non si può rinunciare. I nostri sentimenti assomigliano a quelli che hanno ispirato Verdi per la Messa da Requiem o Picasso per Guernica. O, piuttosto, si preferirebbe che i bolognesi il giorno della strage restassero chiusi in casa o andassero in vacanza? Sarebbe meglio che certe polemiche si presentassero in una veste più sincera di questa». Alcuni deputati democristiani bolognesi, quasi raccogliendone l’indicazione, «scomodano» il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini per domandare chiarimenti sull’esatto ammontare delle spese sostenute per organizzare la manifestazione. I dibattiti infiammano, le divisioni si accentuano, i moralismi si sprecano. Ci va giù pesante il Resto del Carlino, più pacate le critiche espresse da Vittorio Gorresio su La Stampa. Non aggiunge serenità al dibattito neanche il Giornale di Montanelli, che contesta soavemente «l’idea di ballare il rock sui cadaveri degli 85 morti della strage». In verità, son previsti perlopiù concerti jazz e di musica classica, ma il clima, nel complesso, è questo. Il primo anniversario della strage di Bologna si avvicina, e le schermaglie delle settimane che lo precedono restituiscono l’immagine di una città surriscaldata, divisa «tra i progressisti e non, tra i difensori della nuova cultura e i fustigatori del solito culturame preso a comodo bersaglio». Non lascia spiragli al dialogo la perentoria opposizione della Dc cittadina: «Così non si combatte il terrorismo. Sarebbe meglio tacere». Affilata come una lama la risposta del sindaco Zangheri: «Per combattere il terrorismo, sarebbe ancora meglio acciuffarli i terroristi, ma visto che questo non accade, allora bisogna provvedere a stimolare le coscienzev…». Sullo sfondo dello scacchiere non solo bolognese, ma nazionale, a inasprire i dissidi tra «sinistra e Dc c’è il problema delle indagini. “Hanno cercato di non farci parlare di questo, dell’inadeguatezza dei servizi dello Stato, delle deviazioni”, accusa il sindacovi».

LA DC: «NON PARTECIPEREMO. BENE È UN ISTRIONE, UN PAGLIACCIO»

La vera pietra dello scandalo delle «quattro giornate di Bologna», però, è Carmelo Bene, anzi «CB» (come lo appuntava il grande filosofo francese Gilles Deleuzevii): a lui è affidata una Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli, lui è il personaggio più contestato. «Come si permetteva, costui, di trasformare la dura necessità del confronto sociale in un fatto solipsistico ed estetico?», si chiede, anni dopo, Romeo Castellucci. Federico Bendinelli, capogruppo della Dc in Consiglio comunale, annuncia subito che il suo partito «si asterrà dall’intervenire alla celebrazione affidata a Carmelo Bene, essendo egli un istrione, un pagliaccioviii» Implacabile la risposta che Bene gli destina. Pur chiamando in causa il Poeta, CB non ne imita le terzine incatenate di endecasillabi, e sceglie un altro registro, ben più prosaico: «Dante lo avrebbe messo nel girone della merda». Sipario. Il clima non era granché più disteso nel consiglio di amministrazione della Rai: il socialista Massimo Pini – fedelissimo di Craxi – rifiuta la ripresa televisiva alla Lectura di Bene, «probabile ritorsione contro Bologna “la rossa” e i bolognesi, che avevano spernacchiato Craxi in un recente comizioix». Furibonda, quasi da saloon, la reazione dei consiglieri comunisti: «Rovesciano il tavolo addosso a socialisti e democristiani. A seguire, la telefonata rassicurante di Craxi a Carmelo Bene: “Non preoccuparti, Pini non è in grado di capire noi attori; la vanità dell’esser fischiati può essere superiore all’ovazione”». Inverecondo il commento di Bene: «Pazzesco, un caso di censura così clamoroso che non si vedeva dai tempi di Scelba. Così credono di potermi controllare meglio il compitino. Dovrebbero dimettersi all’istante». A buttare benzina sul fuoco, nei giorni precedenti, ci si era messo anche Vincenzo Tessandori, lanciatosi in una spericolata associazione tra Bene e gli autonomi, intesi come paradigmi di «intolleranza»: alla contestazione di una parte della sinistra extraparlamentare, colpevole di leggere nell’evento il «tentativo politico strumentale di configurare Bologna e la sua realtà sociale come momento massimo di dialogo tra le istituzioni e i movimenti giovanili», si affiancava Bene, che con le risposte sibilline indirizzate ai detrattori dimostrava «intolleranza verso chi lo critica». Nel frattempo, il pomeriggio del 29 luglio le Br diffondevano un volantino dattiloscritto in cui annunciavano la creazione di una colonna bolognese, la «11 marzo», data dell’uccisione dello studente Francesco Lorusso, avvenuta nel ‘77.

CB: «SIA CHIARO, NON PRENDO UNA LIRA PER LA LETTURA»

Il 30 luglio Bene arriva all’Hotel Crest per la conferenza stampa finale. Accusato di prendere una montagna di milioni come cachet per la lettura, Bene smentisce sdegnato: «Non prendo una lira, sia chiaro». Presenti una cinquantina di giornalisti, accorsi per acciuffare l’ultima polemica prima dell’evento, CB, neanche a dirlo, non si sottrae: «Sono l’eroe di una scena vuota, deserta», l’esordio. Poi, quasi a discolparsi, chiarisce: «Non appartengo a questo tempo, non ho nulla a che vedere con le conversazioni mondane, con le polemiche politiche di questa piccola, demagogica provincia, con questa Italietta dello spettacolo, irreligiosa, cattolica, dove tutto è apparenza. Il mio nome è stato mediocremente strumentalizzato, fatta salva la mia solidarietà privata a Zangheri, come uomo, non come cittadino: i partiti non mi hanno catturato». Subito dopo arriva, pressoché scontata, la condanna del terrorismo. Poi, con la carica sovversiva di sempre, CB aggiunge: «Quello che mi preoccupa, però, è quello che autorizza il terrorismo: la stupidità. La stupidità è terroristica, l’indifferenza è terroristica, l’ombra delle maggioranze silenziose è terroristica. Sono terroristi la piccola e media borghesia e i bottegai di tutto il mondo. Non parliamo dei terroristi come se fossero altro da noi». Apriti cielo. Ma il tempo delle polemiche era scaduto: la commemorazione era alle porte.

«BASTA INQUINAMENTI E DEPISTAGGI. NON SIA UN’ALTRA PIAZZA FONTANA»

Era passato solo un anno dal più feroce attentato che avesse mai insanguinato l’Italia: 85 morti e più di 200 feriti. La delusione montava: la giustizia ancora sembrava non sapere da che parte cercare mandanti ed esecutori. Gli appelli dei familiari delle vittime, del presidente della Repubblica Sandro Pertini, di molti esponenti del mondo politico e della cultura, chiedevano all’unisono di fare luce sulle responsabilità: «Questa odiosa impunità deve cessare». Forte, e non ingiustificato, il timore che si potesse ripetere quanto accaduto «per piazza Fontana. Non possono essere più tollerati inquinamenti, deviazioni e ritardi». E, se anche il presidente del Consiglio Spadolini esprimeva il proprio «senso di smarrimento per l’esito attuale delle indagini», leggere qualcosa di simile alla rassegnazione nelle parole del giudice istruttore Giorgio Floridia, non può sorprendere: «Se al termine di un altro anno di lavoro non giungeremo a risultati positivi, dovremo avere l’onestà di confessare pubblicamente l’insuccesso».

«QUEL DANTE “COMUNISTA” FU L’EVENTO IRRIPETIBILE DELLA MIA VITA»

La sera del 31 luglio 1981, in piazza Maggiore e dintorni sono presenti più di centomila persone. Via Rizzoli è «una vertigine di follax». Singolare, ed emozionante, la dedica che Bene lancia dalla Torre degli Asinelli: «Da ferito a morte, dedico questa mia lettura non ai morti, ma ai feriti dell’orrenda strage». Scegliendo di posizionarsi in cima ad una torre, CB «invitò i cittadini ad alzare gli occhi al cielo, ad assistere ad un’epifania e a perdersi nel suono dei versi di Dante, propagati sopra i tetti e lungo le strade della città da un gigantesco impianto di amplificazionexi». Un muezzin per Dante, scriverà Andrea Cortellessa molti anni dopoxii. CB aveva scelto dei passi tratti da Inferno, Purgatorio e Paradiso, con l’aggiunta di due sonetti dalle Rime e dalla Vita nova; Paolo e Francesca, Ulisse e Diomede, Ugolino, Sordello…quella lettura bolognese fu un successo straordinarioxiii. Uno spettacolo che alcuni definirono «magico», altri «gigantesco», per tutti «irripetibile». Soprattutto per lui: «Quel Dante “comunista” fu uno dei più infernali casini del dopoguerra ma anche il più grande e irripetibile evento della mia vitaxiv». Un evento «difficilmente categorizzabile, nato dall’intersezione di commemorazione pubblica, perpetuarsi di un canone della letteratura italiana, performance scenica, phoné, musicaxv». Anche chi non aveva mai letto Dante «quella sera si emozionò. Il dolore e la speranza della Commedia si mescolarono al dolore per i morti e alla speranza per i feriti, vissuti dalla città dal giorno dell’orrenda stragexvi». E, se Bene nei frammenti scelti della Divina Commedia «sembra trasmettere tutto il dolore per una ferita, coi sonetti restituisce pace a chi ascoltaxvii». Quasi tutti i giornali, nei giorni seguenti, descrivono uno strano prodigio al confine tra laico e religioso: «Una cerimonia densa di significati, pervasa di una tensione cui si addice l’attributo di “religiosa” in un senso profondo, lo stesso che si esprime oggi nella richiesta di verità e moralitàxviii». Uno dei più accaniti critici del giorno prima, il giornalista Renato Palazzi, scegliendo le parole con cui descrivere la serata, non trattiene l’ammirazione: «Spesso i presenti hanno sfiorato il brivido di una misteriosa emozione. Con i suoi accenti di tenebra e di diamante, Bene ha calato i versi danteschi nell’onda liquida e densa della sua straordinaria gamma timbrica. La sua voce, scorporata e quasi fantasmatica, rimane il segno più netto, quasi inquietante, della serataxix». Da sempre il «teatro senza spettacolo» di Bene cercava in scena l’irrappresentabilità dell’evento, inteso come contraltare alla «invivibilità della vitaxx». Il procedimento di sottrazionexxi che Bene inseguiva nella sua radicale linea di ricerca, la sua incessante ricerca dell’«osceno», dall’etimo greco o-skené, fuori scena, si realizza quel giorno con la sottrazione della sua stessa figura, con l’assenza fisica dal campo visivo degli astanti. Restava però la voce. Quella voce indimenticabile. «Quando l’ho visto a Bologna», racconta Renato Nicolini, «ho capito (…). La riduzione della presenza fisica dell’attore – quasi smaterializzato dalla distanza dell’altezza – alla voce. La voce che conserva dentro di sé l’irriducibile materialità del corpo, mentre il corpo si sottrae alla banalità patinata dell’immagine. Ecco come affrontare la folla, la società di massa, sottraendosi ai suoi riti e offrendosi nella forma che si può controllare. Mi tornano alla mente le parole di Nietzsche: “Solo l’arte è capace di volgere quei principi di disgusto per l’atrocità e l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere. Il sublime artistico come repressione dell’atrocità”». A un certo punto, a fine serata, mentre Bene già si strucca «e in gola ancora pulsano le parole dantesche», appare il democristiano Bendinelli «pentito e commosso, per rendergli omaggio». Quello che solo poche ore prima era stato definito un «insopportabile istrione», aveva incantato anche quel severo democristiano. CB, «senza nemmeno voltarsi, scandisce allo specchio: “Lei ha tre minuti per sparire di qui, dopo di che sarò costretto a buttarla giù dalla Torre”. Testimone, Renato Nicolinixxii». In pieno stile Bene la chiosa finale: «A dispetto di tanti detrattori, io e Zangheri abbiamo vinto quella battaglia. Che Bologna sia rossa tanto meglio, anche se io sono incolore, sono mortoxxiii».

 NOTE

i Ore 10.24 del 2 agosto 1980. Esplode una bomba nell’ala Ovest della stazione di Bologna: 85 morti e più di 200 feriti. Nel 1995 la magistratura condanna i neofascisti Valerio Fioravanti e Francesca Mambro all’ergastolo come esecutori materiali della strage. Nel 2007 viene condannato anche Luigi Ciavardini; nel 2020 Gilberto Cavallini, ii Vita di Carmelo Bene. Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, ed. Bompiani, 1998, iii Ferdinando Adornato, L’Unità 18/7/1981, iv Corriere della Sera, 15/7/1981, v Il commento di Zangheri, diretto alla Democrazia Cristiana, dà la misura dell’asprezza dello scontro: è evidente, nemmeno troppo tra le righe, un pesante riferimento alle sabbie mobili in cui versa l’inchiesta sulla strage, tenuto conto che la Dc governava ininterrottamente il paese dal dopoguerra e che, anche in quel 1981, con 262 deputati e 138 senatori era l’ azionista di maggioranza nonché dominus assoluto del governo presieduto da Giovanni Spadolini, vi La Stampa, 15/7/1981, vii Nel 1978 Deleuze firma – con lo stesso Bene – uno straordinario saggio dedicato all’arte del maestro salentino: Sovrapposizioni, Quodlibet, 2002, viii La Stampa, 14/7/81, ix Bene-Dotto (1998), x Corriere della Sera, 2/8/1980, xi S. Caputo, saggio su Lectura Dantis di C. Bene, in “Dante e l’arte”, 2015, xii Alias de Il Manifesto, 10 luglio 2004, xiii Lectura Dantis, voce recitante Carmelo Bene, musiche di Salvatore Sciarrino, musicista solista David Bellugi; fonici: G. Burroni, M. Contini, B. Bucciarelli; regia mixer: Carmelo Bene; produzione: Rino Maenza. Bologna, Torre degli Asinelli, 31 luglio 1981, xiv Memorabili le pagine di Sono apparso alla Madonna in cui CB parla di quella giornata: usa una lingua arcaica e parzialmente inventata, utile «a spostare l’argomento in un non-luogo e in un non-tempo, per strapparlo allo squallore dell’attuale», xv S. Caputo, saggio su Lectura Dantis di C. Bene, in “Dante e l’arte”, 2015, xvi Jenner Meletti, la Repubblica, 2010, xvii S. Caputo, saggio su Lectura Dantis di C. Bene, in “Dante e l’arte”, 2015, xviii l’Unità 2/8/1981, xix Corriere della Sera, 2/8/1981, xx Carmelo Bene, Opere, Bompiani, 1995, xxi Nei suoi quarant’anni di attività artistica (teatrale, cinematografica, letteraria, radiofonica), quella che definiva come sua «gogna pubblica», Bene aveva cercato sempre di «togliere di scena» contro la “finzione” culturale del mettere in scena: un processo di inesorabile riduzione delle scenografie, dei movimenti, degli attori, nel recupero di «una delle più grandi tensioni che ha l’umanità da quando si produce arte, cioè uscire dall’opera stessa» (Maurizio Grande), xxii Bene-Dotto (1998), xxiii L’Unità, 17/10/81