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«Squadrista con i santi in paradiso»: Alessandro Alibrandi secondo l’Unità (1979)

Redazione Spazio70

Dal quotidiano l'Unità del 16 maggio 1979

Un altro, al suo posto, sarebbe già andato sicuramente dalla fattucchiera a farsi togliere il «malocchio». Alessandro Alibrandi, invece 19 anni, figlio del giudice Antonio, noto simpatizzante del MSI, amico personale di Almirante, più conosciuto per le sue incredibili iniziative giudiziarie (l’ultima è quella della Banca d’Italia), continua ad aver fede nella giustizia che, a quanto pare, per lui funziona benissimo. È un giovane «sfortunato», e questo si sa, ma in galera i magistrati non ce l’hanno mai tenuto molto, dimostrando una solerzia davvero degna d’encomio. Alessandro Alibrandi, dicevamo, è un ragazzo sfortunato, anzi peggio: «jellato». Pensate: va a vedere un film alla sala parrocchiale di Borgo Pio e appena esce non si trova nel bel mezzo (per caso, s’intende) di un “raid” squadrista a base di rivoltellate che semina il terrore nel quartiere? Si sa che i poliziotti, in casi del genere, non vanno troppo per il sottile e così sul cellulare ci caricano pure lui. La sentenza è di ieri e riconosce “finalmente” la totale innocenza del giovane Alibrandi. Anzi, i giudici fanno di più: non solo lo squadrista per loro era davvero andato al cinema quel 29 marzo del ’77, ma quel giorno a Borgo Pio non successe proprio niente. Una sorta di allucinazione collettiva, insomma. I fascisti accusati, infatti, sono stati tutti assolti. E una.

«DUE PESI E DUE MISURE»

Il giudice Antonio Alibrandi con il figlio Alessandro

Passano pochi mesi e al giovane rampollo del giudice fascista gliene succede un’altra. Sta aspettando la sua ragazza vicino a Ponte Bianco quando lo avvicina un agente di PS: gli viene in mente, figuratevi, che quel tipo lì abbia qualcosa di sospetto. Insomma lo ferma. Il povero giovane allora che fa? Preso dal panico caccia fuori un pistolone e lo punta contro il poliziotto. Normale, no? L’agente lo disarma e lo porta in questura. Interrogato poi dal magistrato, Alessandro Alibrandi, ha finalmente l’occasione di spiegare tutta la faccenda: che ci faceva con una pistola in tasca, non denunciata e per giunta con il numero di matricola limato? Ma è semplicissimo, l’arma l’aveva trovata in una strada della Magliana: prima o poi capita a tutti no? E così anche quella volta riesce a farla franca. Fino all’ultima disavventura: viene fermato a Formello su una macchina rubata. In sua compagnia ci sono due noti ricercati per rapina. Ancora una volta Alessandro Alibrandi “non sa niente”. Né il tipo di personaggi con i quali si era messo in viaggio né la provenienza della vettura. Il processo si fa due giorni dopo e, tanto per cambiare, Alessandro Alibrandi viene prosciolto da ogni accusa. La logica dei “due pesi e due misure”, a questo punto, viene assunta “in toto” dalla magistratura romana che fa di tutto per “coprire” il giovane squadrista. Raramente ha funzionato così bene la solidarietà di «categoria». Avere un padre giudice — e uno dei più in vista — è, per il diciannovenne Alessandro Alibrandi, la chiave che apre tutte le porte, una sorta di scandaloso «lasciapassare» che gli consente una perpetua impunità.

Diceva l’altro giorno l’avvocato di Leandro Di Russo, il giovane sospettato di aver partecipato all’attentato di piazza Nicosia e poi rilasciato perché non c’entrava niente: « In questo paese è più facile entrare in galera che uscirne». Alessandro Alibrandi è l’unico caso, crediamo per cui valga la regola opposta. E poco male se ci si limitasse a questo: il fatto è che anche nel corso delle indagini con lo squadrista ci si è sempre comportati con i guanti di velluto. Per lui, insomma (o per il padre, ma è poi la stessa cosa) non uno ma due gli occhi di riguardo. Ripercorriamo minutamente gli episodi già citati. Il 1° ottobre del ’78 Alessandro Alibrandi viene fermato con un suo amico a Ponte Bianco a bordo di una Vespa: l’agente che lo avvicina sosterrà, durante tutta l’inchiesta, che lo squadrista lo minacciò con la pistola puntandogliela in faccia. A chiunque darebbe toccata la pesantissima accusa di tentato omicidio. Ma Alibrandi non è «chiunque» e per lui c’è solo la contestazione di ricettazione, detenzione di armi e minacce alla forza pubblica. Tutti reati minori per i quali — e come si poteva dubitarne? — se poi condannato a un lievissima pena, 5 mesi con la condizionale, determinata dal fatto che (come dice la motivazione della sentenza) «il giovane ha già sofferto alcuni giorni di carcere preventivo, circostanza di certo traumatizzante per un diciottenne, tale da farlo meditare e spingerlo a un ravvedimento».

«IMPLICATO IN NUOVI STRANI EPISODI»

Ma non basta: in quel caso ad interrogarlo avrebbe dovuto essere il magistrato di turno al quale toccano tutte le indagini sui reati che si compiono nelle 21 ore del turno. Per Alibrandi figlio viene fatta come al solito un’eccezione: ad interrogarlo sarà un altro magistrato, tal Santoloci, noto per essere in ottimi rapporti con il giudice Alibrandi padre, come lui, di un noto fascista. E ancora: quando Alibrandi fu fermato dal poliziotto questi parlò di «mappe stradali tracciate a mano» che gli trovò in tasca. Per il giudice Santoloci, invece, si trattava di semplici appunti: è un fatto clip — mappe o appunti — quelle carte non furono mai trovate. Chi le fece sparire? E si potrebbe andare avanti se non ci si dovesse fermare per dire dello sconcio che seguì a quella farsa di processo: una pioggia di querele per i giornalisti che avevano osato, nientedimeno, criticare la mitezza dei giudici nei confronti di Alessandro Alibrandi. Le querele furono firmate addirittura dal procuratore generale della Repubblica Pascalino, dal procuratore capo De Matteo e perfino dal pubblico ministero Cardone. La carriera dello squadrista, da allora, non ha conosciuto soste: implicato di nuovo in «strani» episodi riuscì sempre a cavarsela.

Come quando, giusto nel febbraio scorso, fu fermato a Formello, su un’auto rubata. I suoi compagni di viaggio erano Cristiano Fioravanti, missino, ricercato per rapina e Franco Giomo, anche lui fascista, latitante, con un mandato di cattura sulle spalle, ricercato dalla procura di Ferrara per rapina. Che faceva questa bella compagnia a bordo di un’ auto rubata a pochi chilometri dai luoghi dove giusto poco tempo prima era andata a fuoco una Camera del Lavoro e diversi mezzi dell’Acotral? Non si saprà mai ed è inutile sottolineare che anche quella volta fu seguita una procedura un po’ «speciale» dell’arresto, infatti, si ebbe notizia solo otto ore dopo, una cosa decisamente insolita. L’ultima vicenda dello squadrista risale al marzo scorso: Alibrandi junior viene indiziato per furto di bombe insieme a due altri fascisti. Avrebbe rubato due casse di bombe a mano. «Fortunatamente» il fatto si svolge a Pordenone e questa volta i giudici friulani ne hanno quanto basta per toccare con mano che il «superprotetto» Alibrandi non ha mai «meditato» né si è «ravveduto».

 

Immagine di Anteprima: Archivio Alessandro Pucci (1978).