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Il dramma dei fratelli Vitone: il giallo degli ultras

Matteo Picconi

Una tragedia che nel corso degli anni Ottanta si trasforma in un giallo, si allarga ad altri protagonisti e porta ad altre terribili morti

Domenica 21 marzo 1982; non sono passati neanche tre anni dalla tragedia dell’Olimpico, in cui perse la vita il tifoso laziale Vincenzo Paparelli, quando la morte torna nuovamente a sconvolgere il mondo del calcio. Ancora una volta i riflettori sono puntati su Roma e sui tifosi di sponda giallorossa. Poco dopo la stazione ferroviaria di Orte, a circa cento chilometri dalla Capitale, un convoglio delle Ferrovie dello Stato, con a bordo un centinaio di tifosi romanisti, prende fatalmente fuoco: tra le fiamme muore Andrea Vitone, un ragazzino di appena quattordici anni. È lui l’unica vittima di una tragedia dalle cause piuttosto incerte. La notizia sconvolge tutta la Penisola, mentre l’opinione pubblica si scatena in una condanna generalizzata nei confronti del movimento ultras. Ma il dramma non si esaurisce con la scomparsa del giovanissimo tifoso giallorosso: nel corso del decennio la tragedia si trasforma in un giallo, si allarga ad altri protagonisti e porta ad altre terribili morti. Una storia di vite e famiglie distrutte, in cui il mondo ultras fa solo da sfondo; una storia di sofferenza e di vendetta che, alla fine, giunge solo a mezze verità.

«IL TRENO DELLA MORTE»

Andrea Vitone, il piccolo tifoso giallorosso, morto il 21 marzo 1982

Sono da poco passate le 22 quando l’espresso 709 riparte dalla stazione di Orte. A bordo, oltre a comuni pendolari, viaggiano poco più di un centinaio di tifosi della Roma dislocati in diversi vagoni. Tornano dalla trasferta di Bologna, dove la compagine del «Barone» Nils Liedhom ha perso per 2 a 0. Il giovane Andrea ovviamente non è solo, è partito con il fratello maggiore, Giuseppe Vitone, ventun anni, noto in curva Sud col soprannome di Pucci. Lui e Puccino, così viene chiamato affettuosamente dagli amici del fratello, viaggiano in carrozze separate. All’interno degli ultimi vagoni c’è molto trambusto. Dai semplici cori si passa a episodi di vandalismo: secondo alcuni testimoni si scatena anche una rissa con i controllori e due agenti della Polfer che stentano a contenere la situazione. Presso la già citata stazione di Orte alcuni tifosi iniziano a tirare bottiglie di vetro dai finestrini della vettura.

Intorno alle 22,35 succede l’impensabile. Qualcuno tira il freno d’emergenza: presso la terzultima carrozza inizia a divampare un incendio, forse a causa di un fumogeno acceso all’interno dello scompartimento. Tra tifosi e passeggeri comuni si crea il panico e nel giro di pochi minuti il treno viene evacuato. Giuseppe Vitone si mette subito alla ricerca del fratellino senza trovarlo ma, ottimisticamente, lo crede in salvo, e confida di ritrovarlo una volta giunto a destinazione alla stazione Termini. L’incendio viene domato, con discreto ritardo, intorno alle 23. Solo allora, quando uno dei Vigili del Fuoco entra nella vettura ormai ridotta a un cumulo di lamiere, viene fatta la macabra scoperta. Disteso a pochi centimetri dalla porta d’uscita il corpo del giovane Vitone viene trovato semi carbonizzato, tanto da renderne difficile un primo riconoscimento. La sua identità viene confermata solo alle prime luci dell’alba, una volta sopraggiunti sul posto i suoi genitori e il fratello Giuseppe.

Nei giorni seguenti, mentre la città inorridisce di fronte alla scomparsa di un giovane studente di terza media, gli inquirenti stringono il cerchio intorno ai possibili responsabili dell’incendio. Le indagini non sono semplici. Se da una parte (come poi verrà dimostrato dalle perizie) viene escluso un possibile corto circuito all’interno dalla vettura, dall’altra le numerose testimonianze di chi viaggiava a bordo del terzultimo vagone non contribuiscono a fare chiarezza sulla sequenza degli eventi. Risulta difficile stabilire anche se l’origine del rogo sia di natura dolosa o possa invece parlarsi di incendio colposo, in sostanza di un tragico incidente finito in tragedia.

«Versioni ufficiali non ne possiamo ancora dare. Quello che appare certo», dichiara il giudice Labate, sostituto procuratore di Viterbo, al Corriere della Sera il 24 marzo 1982 «è il fatto che le fiamme sono divampate in uno scompartimento e non per cause tecniche. Si tratta di stabilire se vi è stato dolo oppure colpa. In altre parole, se qualcuno ha appiccato il fuoco perché voleva bruciare il treno o se lo ha fatto invece per sbaglio, magari dando fuoco a un petardo solo per fare uno scherzo».

Restano misteriose anche le cause che hanno impedito al giovane Andrea di mettersi in salvo. L’ipotesi più acclarata è che nel momento in cui uno dei passeggeri ha tirato il freno d’emergenza, il ragazzo si sia trovato in bagno e che nel fuggi-fuggi generale qualcosa o qualcuno gli abbia impedito la via di fuga. Al riguardo, la stampa italiana si lascia andare a ricostruzioni piuttosto fantasiose, quali ad esempio che il quattordicenne sia stato addirittura calpestato nella calca e che, successivamente, sia rimasto sopraffatto dal fumo e dalle fiamme.

«La posizione del corpo», si legge su L’Unità nell’edizione del 23 marzo 1981, «fa pensare ad un disperato tentativo di fuga. Evidentemente Andrea è stato l’ultimo, forse perché non è riuscito ad uscire dal bagno. La calca allo sportello che si trova proprio davanti alla toilette deve averlo ricacciato indietro per pochi minuti preziosi».

Sia le perizie tecniche che l’autopsia non fanno chiarezza e le indagini non portano ad alcun risultato concreto circa l’individuazione dei responsabili dell’incendio. Nessuno tra i tifosi presenti, indagati e non, fornisce informazioni rilevanti. Quarantotto ore dopo la disgrazia di Orte, Andrea Vitone viene seppellito nel cimitero di Lucera, nel foggiano, luogo d’origine della sua famiglia. Anni dopo si saprà che Pucci, nell’estremo saluto al fratello, aveva giurato la sua vendetta.

«TE LO GIURO, LA PAGHERANNO CARA»

Stefano La Valle e Luca Viotti, i due ultras scomparsi nel 1982

Le indagini sul «treno della morte» hanno una prima svolta nel maggio del 1985, oltre tre anni dopo i fatti di Orte. Scatta l’ordine di cattura per quattro tifosi: Claudio Camilli, Fabrizio Carroccia, noto come er Mortadella, Luca Viotti, detto er Marmotta, e Stefano La Valle, conosciuto come Geronimo. Per tutti grava l’accusa di danneggiamento, incendio e omicidio colposo. Ma mentre i primi due, che poi risulteranno estranei ai fatti, vengono arrestati, Viotti e La Valle risultano irreperibili. Inizialmente si pensa a una latitanza, ma col passare del tempo i conti non tornano.

«Quella duplice sparizione», si legge sul Corriere della Sera in una ricostruzione del 2 luglio 1989, «non convince Rino Monaco, capo della Mobile: una latitanza gli sembra sproporzionata al reato commesso. In fondo si trattava di un’accusa di omicidio colposo, poca roba con un buon avvocato».

A quel punto la tragedia si tinge di giallo e gli investigatori comprendono che per giungere a qualche verità è necessario indagare tra i tifosi, nei loro punti di ritrovo, nei bar delle periferie e delle borgate romane. Il punto di partenza è la zona di piazza Bologna, dove vive la famiglia Vitone: è proprio Giuseppe, il fratello maggiore di Andrea, la chiave di volta di tutta la vicenda. Un personaggio molto conosciuto, Pucci, residente in via Livorno 1 (dove ha sede una storica sezione del MSI), con amicizie piuttosto controverse. Il giornalista Maurizio Martucci, nel suo libro Cuori Tifosi, ne traccia un profilo interessante, riportando una dichiarazione di Stefano Malfatti, uno dei fondatori del Commando Ultrà Curva Sud.

«Pucci era un abituale della curva Sud. Me lo ricordo ricciolino. Era un camerata un po’ particolare, nel senso che se lo incontravi per strada… dal suo abbigliamento rischiavi di scambiarlo per un compagno (…). Era molto amico di Roberto Rulli dei Fedayn, per questo frequentava anche il loro muretto oltre quello del Commando (…). Aveva la comitiva a piazza Bologna, dove c’erano anche molti tifosi della Lazio come “er Marmotta” e tifosi del Milan come Flavio Dente e i ragazzi delle Brigate Rossonere sezione Roma. Dopo la tragedia del fratello Pucci sparì dagli ambienti dello stadio. Non lo vidi mai più in curva».

Descritto come un ragazzo serio e taciturno, e con alle spalle un solo precedente per rissa, dopo la disgrazia del 1982 Giuseppe Vitone prova a ricostruirsi una nuova vita. Lascia Roma, si sposa e va a vivere a Brescia dove svolge il mestiere di tecnico delle luci. Ma alla fine del 1986, poco dopo che gli inquirenti lo interrogano in merito alle misteriose scomparse dei due tifosi, Pucci muore di infarto, ad appena venticinque anni, forse per abuso di sostanze stupefacenti.

Una disgrazia nella disgrazia, che lascia molti interrogativi. Chi sono e che fine hanno fatto Viotti e La Valle?

Nel 1982 Luca Viotti ha solo quindici anni e un’infanzia difficile alle spalle. Riprendendo Cuori Tifosi di Maurizio Martucci: «Orfano di padre, a dieci anni ha lasciato le scuole elementari perché privato dell’appoggio della mamma, affetta da gravi disturbi mentali e costretta a continui ricoveri in ospedali psichiatrici. Luca vive con la nonna, nella borgata di Tor Bella Monaca, una delle zone più disagiate di Roma (…). Al contrario degli altri protagonisti di questa storia Luca Viotti è un tifoso laziale e gira per la curva Nord con l’appellativo di “er Marmotta”, affibbiatogli per via di un’altezza minuta e di una folta capigliatura riccia. (…). All’epoca non è raro che un acerrimo rivale dei “cugini” sia arruolato in trasferta dagli ultras della Roma (e viceversa) proprio per prendere parte a disordini o ad azioni provocatorie che spesso sconfinavano in atti delinquenziali, come al ritorno da Bologna».

Stefano La Valle sparisce di casa il 7 ottobre 1982, appena tre mesi dopo la scomparsa di Luca Viotti. Diciannove anni, nessun precedente penale, Geronimo abita nella lontana borgata di Tor Lupara, lungo la via Nomentana. «Esco, devo vedere gli amici, ma torno presto» dice al padre prima di uscire. Ma Alfredo La Valle non lo vedrà mai più. Per quattro anni consecutivi è proprio quest’ultimo a mettere in atto delle vere e proprie indagini nell’ambiente degli ultras, nella ricerca disperata di trovare una traccia, una pista che lo porti a capire che fine ha fatto suo figlio Stefano. Nel 1985, dopo aver ascoltato diverse versioni e voci nei principali luoghi di ritrovo dei tifosi, si convince di una drammatica verità: a uccidere suo figlio è stato Giuseppe Vitone, per vendicare la morte del fratello. Sporge anche denuncia a polizia e carabinieri.

«La denuncia» si legge su L’Unità del 4 luglio 1989 «sulla quale fu aperta un’inchiesta, non portò ad alcun risultato. Difficile dire se gli investigatori, all’epoca, considerarono le accuse di Alfredo La Valle solo lo sfogo di un padre disperato, oppure se le indagini risultarono eccessivamente complicate».

Alfredo La Valle non fa in tempo a vedere l’evolversi di tutta la vicenda: muore di crepacuore nell’estate del 1986, nello stesso periodo in cui muore Pucci, il presunto assassino di suo figlio. Le indagini tornano nuovamente a un punto morto; restano sempre quelle voci, che parlano di una vendetta terribile, di ragazzi fatti a pezzi e sepolti chissà dove. Quando sembra ormai che nessuno sia disposto a parlare, e il caso sia inesorabilmente destinato all’archiviazione, ecco che nel 1989 arriva la svolta investigativa che tutti aspettavano.

«QUEL CANE L’HO SEPOLTO LAGGIÙ»

L’Unità sulla vicenda Vitone nel luglio 1989

Nonostante l’accusa di Alfredo La Valle non sia supportata da prove concrete, gli inquirenti continuano a indagare in quella direzione. Se è vero che Giuseppe Vitone si è fatto giustizia da solo, è possibile che qualcuno lo abbia aiutato o, perlomeno, ne sia stato a conoscenza. Indagando sul passato di Pucci, nel 1989 salta fuori il nome di Paolo Dominici, suo coetaneo e amico d’infanzia.

«Vive nella sua stessa strada», racconta sempre il già citato Martucci, «sempre nel quartiere di piazza Bologna, al numero 7 di via Livorno (…). Non segue il calcio, tanto meno tifa Roma, ma come militante del MSI si è reso protagonista di numerose risse con attivisti di estrema sinistra fuori dal liceo classico Giulio Cesare di corso Trieste, prima di cadere nella depressione per un matrimonio fallito e poi infilarsi nel tunnel della droga».

Nell’estate del 1989 Dominici viene rintracciato in Calabria, in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Messo alle strette, il ventottenne romano vuota subito il sacco. Ammette di conoscere Luca Viotti e di aver attirato proprio lui er Marmotta in una fungaia in via dei Monti Tiburtini, una vasta area verde dove l’anno seguente (1990) viene inaugurato l’ospedale intitolato a Sandro Pertini.

«Mi disse che voleva dare una lezione a Luca», ha raccontato lo stesso Dominici al Corriere della Sera nel febbraio del 1994, «che io conoscevo bene perché eravamo amici. Solo un po’ di botte, aveva detto, e su questo anch’io ero d’accordo. Così avevo avvicinato Luca e lo avevo convinto a comprare una radio rubata». Il racconto prosegue fino al tragico epilogo: «Ma quando ho visto la mala parata, cioè Pucci che lo colpiva forte sulla testa, mi sono spaventato e sono scappato via. Ho rivisto Pucci due giorni dopo: “Quel cane l’ho sepolto laggiù” mi disse».

Per la stampa, forse anche per gli inquirenti, dopo sette anni il giallo degli ultras è risolto, almeno per quanto riguarda la scomparsa di Viotti. Dominici, reo confesso di aver concorso all’omicidio della fungaia, non si pronuncia invece su Stefano La Valle: «Luca fui io a tirarlo in trappola, ma di Stefano», racconta nel già citato articolo del Corriere uscito nel 1994, «non so nulla, nemmeno lo conoscevo. Di lui Pucci non mi ha mai detto nulla». Nelle ore che seguono l’incredibile confessione del vecchio amico di Vitone, le forze dell’ordine si precipitano nella grotta di via dei Monti Tiburtini dove vengono rinvenuti alcuni frammenti ossei che potrebbero appartenere al quindicenne di Tor Bella Monaca. Non sono in pochi a scommettere che nell’area intorno alla fungaia possano essere ritrovati anche i resti di La Valle.

Dieci mesi dopo, però, due perizie riaprono il mistero della faida tra tifosi. «Non sono ossa umane, sono resti animali», si legge sulle principali testate nazionali del marzo 1990. Un colpo di scena che cambia inaspettatamente le sorti della vicenda giudiziaria di Dominici, inizialmente accusato di omicidio premeditato. L’impianto accusatorio, senza l’effettivo ritrovamento del Viotti, ne risulta decisamente indebolito, in quanto basato esclusivamente sulla confessione rilasciata dallo stesso imputato l’anno precedente. In primo grado, nel gennaio del 1991, l’amico d’infanzia di Vitone viene condannato a sette anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Sentenza che viene ribaltata in appello nell’ottobre dello stesso anno, quando Paolo Dominici viene assolto perché il fatto non sussiste. È l’ultimo colpo di scena di una vicenda drammatica, ormai dimenticata. L’ultima traccia rimasta è una piccola targa situata al civico 2 di via Livorno, a pochi metri da piazza Bologna, che recita così: «Al piccolo ma grande Andrea Vitone, gli amici della piazza».