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«Gli attori-star? Assurdi, patetici e fuori storia». Intervista a Bud Spencer (1972)

Redazione Spazio70

Da una intervista di Lina Coletti, per il settimanale «Epoca»

Dopo aver vestito i panni di Coburn Thompson in «Si può fare… amigo» di Maurizio Lucidi (1972), l’ormai popolarissimo Bud Spencer,  al secolo Carlo Pedersoli, ex campione di nuoto divenuto una nuova stella del cinema grazie alle due fortunate pellicole della saga western di Trinità,  è già uno degli attori più richiesti e pagati d’Italia. Lina Coletti lo incontra e lo intervista per il settimanale Epoca.

— Signor Spencer…

«Pedersoli».

— Già, dimenticavo: l’alter ego di «Trinità», il gigante buono della più fortunata serie western di questi ultimi anni, è italianissimo. Di Napoli, tanto per essere precisi.

«Sì».

— Che storia, Pedersoli: due film girati a quarant’anni e, subito, lei che diventa l’attore più pagato, coccolato, ricercato dall’intero cinema made in Italy.

«Una stramaledetta fortuna, davvero. Però adesso non mi chieda che effetto fa il successo alla mia età: mi obbligherebbe a una risposta troppo ovvia».

— E cioè?

«Che non ne fa proprio nessuno».

— Sincero?

«Assolutamente. E per una ragione molto semplice: il successo l’ho già sperimentato. Quello totale. Quello che inebria, sublima…»

— Un altro lapsus: dimenticavo che l’iconografia natatoria l’ha reso simbolo di potenza ai posteri. Dimenticavo che lei è stato un campione indiscusso, una specie di Tarzan con la scritta «Italia» sul petto. 1949: Carlo Pedersoli eguaglia il record di Celio Brunelleschi sui 100 stile libero. 1950: Carlo Pedersoli si classifica quinto a Vienna superando la barriera del minuto nella velocità in acqua. E poi le Olimpiadi: Helsinki nel ’52, Melbourne nel ’56…

 

«E dopo, il ritiro».

— Volontario?

«Sì. Ho sempre detestato il viale del tramonto, l’aggrapparsi a qualcosa che ti sta sfuggendo, il tentativo patetico di restare a galla a ogni costo. Il mio credo è: se è finita è finita, mettici una pietra sopra e non pensarci più».

— Fu dura?

«Durissima. Uno shock. Ero il campione, capisce? Negli stadi, nei salotti, con le donne: sempre. Adulato, vezzeggiato, ricercato… Carlo di qua, Carlo di là… E poi, ci pensi, da un giorno all’altro il vuoto, quello assoluto, quasi tangibile. Mi crede, adesso? Voglio dire: il successo è come un vestito che può esserti tolto in ogni istante, beh, se è un’esperienza che già hai provato, non ci ricaschi più. È come… come risultarne immune, ecco».

— Nessun rischio divistico, dunque.

«Per l’amor del cielo, no. La presunzione di sentirsi degli eletti la lascio a quelli che, siccome l’esperienza mia non l’hanno avuta, ritrovandosi al rango di attori-star diventano individui assurdi, patetici e fuori storia».

— Intende dire che il mondo del cinema…

«È assurdo, patetico e fuori storia nella misura in cui è composto da gente del genere».

— Però ha scelto di viverci.

«Mi hanno scelto gli altri, non io. E mi hanno scelto per ben due volte: la prima nel ’50, una storiella divertente, io, che oltre a nuotare vendo automobili, mi presento sul set di “Siluri umani” poiché ho in ballo un affare con il regista, e lui che appena mi vede mi tira giù di macchina, mi veste da guardiamarina, mi piazza contro un muro, gira il provino e mi scrittura. Un ruolo piccolissimo, beninteso. Però dopo mi vogliono per altri cinque film, compreso “Addio alle armi”. Particine, robetta. Mi diverte e lo faccio. Ma siccome non sono abbastanza maturo per l’ambiente a un certo momento dico grazie, non mi interessa più, e torno al commercio e allo sport».

— E cosa succede?

«Che passano altri vent’anni quasi, arriva il 1967, io mi sto occupando di pubblicità, slogan, Caroselli, Tic Tac e roba del genere, quando un giorno mi telefona il regista Colizzi. Fa: “Ho un western niente male, mi serve un omone grande e grosso, la ricordo dai tempi del nuoto e ho pensato a lei”. D’accordo, dico io. Essendo estate ho davanti la prospettiva di due mesi abbastanza vuoti e in vita mia non ho mai rifiutato l’occasione di nuove esperienze, così accetto. Però, ci pensi, fu anche un’incoscienza».

— Perché?

«Perché si può dire che non avevo mai visto un cavallo se non al cinema. Perché ero destinato al ruolo di gigante buono con licenza di spaccare la faccia al prossimo ma se c’era una cosa che non mi garbava era proprio quella di tirar pugni. Perché per esigenze di produzione il film andava girato in inglese e l’inglese era una delle poche lingue che non m’era mai riuscito di digerire. Ma soprattutto perché mi ritrovavo già orbo come una talpa. Sa, il cloro delle piscine è micidiale. E dodici diottrie sono tante. Specie per chi fa film come i miei, cocktail di scazzottate, cavalcate, salti da record-man…».

«I FAGIOLI? DETESTO QUELLE PICCOLE, SCHIFOSE, PALLINE VEGETALI»

— E pure quel western ebbe un successo enorme. S’intitolava «Dio perdona, io no». Dopo vennero «I quattro dell’Ave Maria» e fu un altro boom. E dopo ancora, la serie di «Trinità», coi suoi basta alla violenza, il suo umorismo, le sue gags da film comico miste agli ingredienti più tradizionali, l’arrivo dei «nostri», la ballerina tutte cosce, il vecchietto che suona l’honky tonk nel saloon, quello che mastica tabacco e parla con voce chioccia…

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«E i fagioli. Direi che Trinità ha introdotto nel genere un’ennesima scena obbligata: quella del piatto di fagioli. Ormai non c’è western che ci rinunci. Che tocchino al buono o al cattivo non importa, basta che ci siano. Una padella in una mano, un cucchiaio di legno nell’altro e l’eroe che li mangia mentre pensa, si concentra, chiacchiera, litiga, ascolta, dà ordini, fa piani. E dire che se c’è una cosa che detesto son proprio quelle piccole, schifose palline vegetali».

— Trinità comunque…

«Trinità è una favola. Una bella favola pulita, ambientata nel west».

— E mentre Terence Hill, per l’anagrafe l’italianissimo Mario Girotti, vi incarna l’eroe, lei fa «Bambino», centoventi chili di grasso e un cuore grande così. «Il gigante spaccatutto dal pugno che rintrona», come spiegano i depliant. Una specie di Robin Hood della prateria pronto a risolvere le situazioni più disparate a suon di pugni. Un personaggio, comunque, che hanno amato, che amano in blocco, lattanti, casalinghe e pensionati.

«Perché i primi vi identificano la forza, la lealtà e il coraggio che vorrebbero scoprire nel padre. E i padri vi scoprono un’inconscia rivendicazione dei propri drammi quotidiani, la mia difesa del più debole diventa inconscia, desiderata difesa dalle angherie del capufficio, capofficina e caporeparto, capisce? Poi ci sono le donne. Fisicamente è chiaro che mi ignorano. Il mio partner è troppo bello e amano lui. Diciamo che mi amano di riflesso, ecco».

— Comunque l’amano. Una bella fortuna, Pedersoli. Cinque anni di questo mestiere e quasi subito due film che hanno guadagnato miliardi in tutto il mondo. Due film che rappresentano ormai un fatto di costume, fanno ormai parte della storia del cinema e hanno alzato il suo cachet in maniera vertiginosa.

«Due film che hanno riacceso le speranze di un’industria sempre più boccheggiante, direi».

— È vero, pare che ormai non si possa fare più un western se non sotto forma di parodia della violenza. Ci si sono provati tutti, buttandosi con notevole cattivo gusto su eroi che portano nomi incredibili. Camposanto, Spirito Santo, Alleluja…

«Ma nessuno ha avuto il nostro successo, perché nessuno era sostenuto dalla franchezza e dalla genuinità dei nostri copioni».

«IL TERZO TRINITÀ È IN PROGRAMMA»

— Il rovescio della medaglia, però, è che lei rischia il cliché del grassone un po’ cretino

«Nient’affatto. I miei “a solo” io li ho già avuti. E ne avrò ancora. Ho girato “Gott mit uns” con Montaldo, “Quattro mosche di velluto grigio” con Argento ed erano ruoli moderni, attualissimi. Adesso girerò con Lizzani una storia di immigrati meridionali. E in seguito sarò un gangster anni ’30 e, dopo, un commissario. Come vede, niente fossilizzazioni. Neppure in questo “Una ragione per vivere e una per morire”, che, all’apparenza, essendoci cavalli, le sparatorie, gli assalti, può sembrare un western, e invece è una vicenda drammatica di guerra di secessione, con un personaggio, per me, rozzo e incolto ma anche estremamente furbo e intelligente».

— Dimentica «Si può fare, amigo», la sua ultima fatica, un ruolo che pareva ricalcato dall’altro con la carta carbone.

«Solo perché intendevo riscontrare la resa da protagonista assoluto e ho scelto il modo più facile».

— Da protagonista, ha detto. Significa che della coppia Bud Spencer/Terence Hill ne ha abbastanza? Significa che esser comprimario non la soddisfa più?

Il tesoro di Bud Spencer e Terence Hill - Indiscreto«No. Il terzo Trinità è già in programma e, sempre con Terence Hill, è in programma un film su due aviatori un po’ svitati. Questo però, non vuol dire che l’abbia sposato, che siamo i Franchi e Ingrassia del West. Guardi, io del comprimario ho il fisico e mi va benissimo. Anche perché, se ne renderà conto, l’epoca del divo tutto bello, slanciato, asciutto, è tramontata da un pezzo. Pensi a Lee Marvin, James Coburn, lo stesso Steve McQueen, cos’erano? Caratteristi nei quali l’immediatezza dell’espressione suppliva alla mancanza del volto perfetto e del fisico da statua. Eppure son diventati delle star indiscusse forse proprio perché la bellezza può anche risultare una limitazione alla fine».

— In che senso?

«Nel senso che le possibilità di resa vengono imbastardite da altre preoccupazioni: come ti truccano, come ti vestono, come ti inquadrano…».

— Insomma, è soddisfatto.

«Sì. Ho successo e sono soddisfatto. Io le vie di mezzo non le ammetto, gliel’ho detto. Ripensi a quando ero un “grande” nello sport e mi sono ritirato. Il mio credo è sempre stato: se non ce la fai, smettila e ricomincia da capo».

«UN UOMO SENZA VALORI È UNA BESTIA»

— Ma ammetterà che ricominciare a ventisette è un conto e ricominciare a quarantadue un altro.

«No, l’età non c’entra, c’entrano la forza, il coraggio, la determinazione, la maturità. C’entra avere le idee chiare. Personalmente, sa, ho ricominciato da capo un sacco di volte e la prima avevo solo sedici anni. Stia a sentire: nato a Napoli, figlio di un industriale andato in malora con la guerra e ormai diventato semplice impiegato di concetto, ho un’infanzia che va via liscia, serena, atmosfera meravigliosa in casa, studi pieni di soddisfazione, amici sempre pronti a far cagnare, un mucchio di belle ragazze attorno. Eppure, a sedici anni, dico basta. Apparentemente ho tutto: persino una precocissima entrata all’università, facoltà di chimica, grazie a una memoria da mostro che mi ha consentito di saltare quinta elementare, quinta ginnasio e terzo liceo. Anche il nuoto, nonostante il parere di quel tecnico ungherese che quattro anni prima mi aveva cacciato di piscina pronosticando che non sarei mai riuscito a fare qualcosa di buono, mi sta dando parecchie soddisfazioni. E dico basta anche al nuoto. Quello per il Brasile doveva essere un viaggio di pochi mesi… E invece durò sei anni. Lavorai al porto di Buenos Aires, lavorai nei laboratori della Du Pont a Rio de Janeiro, lavorai come bagnino e bibliotecario. E, intanto, studiavo: al punto che ridiedi la licenza liceale in portoghese e mi iscrissi all’università: facoltà di legge, questa volta. Finché un giorno, par caso, incontro Binetti, ex presidente generale della Lazio. Mi fa: ma tu sei matto, ragazzo, a lasciar perdere il nuoto; torna in Italia con me. Ci tornai. E le assicuro che fu ancora un ricominciare da capo abbastanza duro».

— Però il successo le arrise quasi subito. A Salsomaggiore, se non sbaglio, c’è una targa a memoria di uno di quei primi record.

«Già: il successo. E col successo le donne, i viaggi, gli alberghi migliori, gli osanna… E l’invidia. È strano, ripensandoci m’accorgo che non c’è molta differenza tra quel mondo e il mondo del cinema. Voglio dire: in tutti e due l’agonismo è pazzesco, tutti e due son formati da un drappello di gente pronta a sbranarsi per arrivare in cima. Comunque, è vero: dai venti ai ventisette anni io condussi una vita da trance. Sa: l’entusiasmo, l’esaltazione… così il vuoto, dopo, fu proprio assoluto».

— E come reagì?

«Partendo per l’unico paese che non conoscevo: il Venezuela».

— A fare cosa?

«Le strade della giungla sotto Maracaibo. Dodici mesi: il tempo di chiarirmi le idee e scoprire che tutto sommato potevo farcela».

— E poi?

«Poi andai a Caracas, capo ufficio pubblicità di una ditta automobilistica. Un anno più tardi, però, ero di nuovo in Italia».

— Perché?

«Perché ormai quello che cercavo l’avevo trovato».

— E cioè?

«L’arte di saper perdere. Ma soprattutto, la scoperta che un uomo senza valori non è un uomo: è una bestia».

— Non capisco.

«Eppure è semplice. Inconsciamente, avevo girovagato per tre lustri con un unico scopo: scoprire me stesso. E ormai quel che volevo mi era chiaro: realizzarmi attraverso le esperienze, qualsiasi esse fossero. Così, quando mi venne il pallino della musica, mi dedicai alla musica. Scrissi diversi pezzi, anche importanti, anche le parole della colonna sonora di “Cleopatre” e un motivo portato al successo da Ornella Vanoni: “Ogni sera”. Ero sotto contratto con la RCA, stavo benino, e a un certo punto dissi ancora basta. Vede, non avendo studiato musica, non avendo padronanza del mezzo tecnico, non mi riusciva di esprimermi appieno come avrei voluto, e allora, sempre per il perfezionismo che è come una mania, mollai tutto e passai alla pubblicità, restandoci finché non arrivò il cinema a distogliermene».

— Consentendole di affermarsi di colpo, senza gavetta.

«È vero, la gavetta nel cinema io non l’ho fatta: l’ho fatta nella vita».

— Sostenuto sempre da una buona dose di fortuna, però.

«D’accordo, sono un uomo fortunato. Ma non perché ho successo, però».

— E per che cosa, allora?

«Perché ho immagazzinato un mucchio di esperienze. Perché ho imparato a perdere e a ricominciare da capo. E soprattutto perché ho capito quanto siano indispensabili le stangate sulla groppa. Per maturare, scegliere, valutare, soffrire».

— Il solito ritornello, Pedersoli.

«E’ vero: la base della mia esistenza. Però ripensi ai tempi del nuoto, la mia prima lezione di vita. Vede, lo sport di squadra offre già delle attenuanti, perché perdi ma è difficile stabilire “la colpa è di quello piuttosto che di quell’altro”; lo sport individuale no, è di un assolutismo terribile, dà emozioni e delusioni pazzesche proprio perché perdi da solo e perdi nei confronti di un cronometro. Sa, io ho tre figli e son decisissimo: da grandi faranno ciò che vorranno, attori, buffoni, girovaghi: a me non interessa. Però devono imparare a perdere, a soffrire, a essere forti “di dentro” e siccome lo sport è un mezzo, devono fare lo sport. I figli! La cosa più grande che un uomo possa avere. La continuazione di te stesso, esseri che si muovono come te, che ti somigliano… L’unico amore senza ritorno, ecco. Un amore di sola andata. Perché ami una donna e hai bisogno di esser riamato, ami un amico e hai bisogno che ti ricambi…».

— E lei fa parte della schiera? Voglio dire: non sembra uno che questo bisogno lo sente in modo particolare.

«Forse no. E tutto sommato è una fortuna».

— Perché?

«Perché, tanto più basti a te stesso, tanto più sei in grado di dare a chi ti sta vicino».

— Nessuna paura della solitudine, quindi.

«No. E’ solo soltanto chi non ha il coraggio di mostrarsi com’è: timido se è timido, arrogante se è arrogante. Ecco un’altra delle mie massime: grattati di dosso la scorza che ti sei costruito, o che ti hanno costruito e subito ti nascerà attorno amore, simpatia, comprensione… Attento, però: non commettere l’errore di aspettarti troppo dalla gente, non dare alla dimensione umana un valore più grande di quello che ha: l’uomo è un animale puro, ma sempre un animale».

— Che sorpresa, Pedersoli. Scoprire un filosofo sotto la barba arruffata del gigante tutto ciccia, voglio dire.

«E io a questo punto voglio regalarle due proverbi. Se li ricordi: contengono il succo della vita. Il primo è cinese. Dice: “Non puoi amare se hai mal di stomaco”. Il secondo è spagnolo. Dice: “Tutto quello che devi cercare è salute, denaro e tempo per spenderlo”».