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1970, fuga da Berlino: il battesimo della RAF

Matteo Picconi

Alle origini della Rote Armee Fraktion

Se c’è una data che può considerarsi il momento in cui nasce la Rote Armee Fraktion (RAF), più comunemente nota come banda Baader-Meinhof, è certamente quella del 14 maggio 1970. Le ragioni non consistono tanto nella spettacolarità dell’evento stesso, ovvero l’evasione dell’allora ventiseienne Andreas Baader a Berlino Ovest, quanto piuttosto nell’incontro e fusione, in parte anche casuale, di alcune personalità e intenti: l’attivismo del futuro leader della banda e della sua compagna Gudrun Ensslin da una parte, la voce critica e radicale della giornalista Ulrike Meinhof dall’altra. Un mix che in quei primi anni Settanta si rivela esplosivo. Analogamente alla nascita delle BR in Italia, le basi e i presupposti da cui scaturisce la turbolenta parabola della RAF sono da ricercare nel triennio precedente, negli anni della contestazione giovanile e studentesca.

«LORO HANNO LE ARMI E NOI NO. DOBBIAMO ARMARCI!»

L’attivista Benno Ohnesorg a terra, raggiunto e ucciso da un colpo d’arma da fuoco

La maggior parte della storiografia tedesca individua nel 1967 l’anno in cui i movimenti della sinistra extraparlamentare accelerano il loro processo di radicalizzazione. La data in questione è il 2 giugno, giorno in cui l’ultimo Scià di Persia, Mohammad Reza Pahlavi, si reca in visita a Berlino Ovest. Centinaia di giovani e studenti pacifisti scendono in piazza in segno di protesta e nel corso della manifestazione, repressa brutalmente dalla polizia, l’attivista Benno Ohnesorg viene raggiunto e ucciso da un colpo d’arma da fuoco. A sparare è proprio un poliziotto in borghese, Karl-Heinz Kurras, in seguito sospettato di aver agito per conto della Stasi e del Partito Comunista della Germania Est (ipotesi mai dimostrata in sede processuale). In nome del giovane ventisettenne di Hannover prende vita il Movimento 2 Giugno, di stampo anarchico, scioltosi nel 1980 quando alcuni suoi esponenti confluirono nella RAF.

«Ci uccideranno tutti. Sapete bene con quale tipo di maiali stiamo combattendo. Questa è la generazione di Auschwitz. Non si può discutere con le persone responsabili di Auschwitz. Loro hanno le armi e noi no. Dobbiamo armarci!»

Con queste parole, pronunciate poche ore dopo l’omicidio Ohnesorg, la ventisettenne Gudrun Ensslin infiamma l’assemblea straordinaria della Lega degli Studenti Socialisti. Che nella RFT il terreno sia fertile allo scontro è dovuto a tanti altri fattori, su tutti l’opprimente politica anticomunista, inaugurata nell’immediato dopoguerra da Konrad Adenauer, e la mancata denazificazione a livello politico e amministrativo. L’attentato ai danni del leader del movimento studentesco Rudi Dutschke, avvenuto l’11 aprile del 1968, è la goccia che fa traboccare il vaso: i tre colpi di pistola esplosi da Josef Bachmann, ragazzo problematico dalle vaghe idee neonaziste, sono il risultato di un clima politico ormai insostenibile, accompagnato da una violenta repressione da parte delle istituzioni e influenzato da campagne mediatiche fortemente avverse ai movimenti di sinistra, come quelle delle principali testate nazionali (Bild, Die Wield) gestite dal gruppo editoriale Springer.

Andreas Baader e Gudrun Ensslin non prendono parte alle manifestazioni di protesta successive all’attentato di Rudi «il rosso». Una settimana prima, il 4 aprile, vengono arrestati insieme a Thorwald Proll e Horst Söhnlein per l’incendio che provoca la distruzione dei grandi magazzini Kaufhaus & M.Schneider a Francoforte, causando danni per circa 75 mila dollari. Riconosciuto come l’autore materiale dell’attacco incendiario (rivendicato come segno di protesta alla guerra in Vietnam), Baader viene condannato a tre anni di reclusione. L’anno seguente, tuttavia, esce per un’amnistia di cui beneficiano i detenuti politici ma, una volta in libertà, l’ordine di scarcerazione viene annullato. Baader non rientra in prigione e la sua latitanza termina nell’aprile del 1970 quando viene tratto nuovamente in arresto e rinchiuso nel carcere di Berlino Tegel. La sua spettacolare evasione, avvenuta un mese più tardi, non sarebbe stata possibile senza l’entrata in scena della giornalista Ulrike Meinhof.

LA GIORNALISTA «GUERRIGLIERA»

Ulrike Meinhof nella redazione di Konkret

Nonostante si tenda generalmente a non riconoscerne il ruolo di leader all’interno dell’organizzazione, è indubbio che la Meinhof abbia contribuito alla formazione dell’impianto teorico e ideologico della prima generazione della RAF. «Ulrike Meinhof fu tra i critici più lucidi del capitalismo nella Repubblica federale» scrive Klaus Wagenbach in La libertà dell’editore. Nata nel 1934 a Oldenburg, una tranquilla cittadina della Bassa Sassonia, cresce con la zia materna Renate Riemeck, psicologa, lesbica, fervente attivista per la pace. Dopo la laurea in sociologia presso l’università di Marburg, la giovane Ulrike si dedica alla politica e al giornalismo. Nel 1960 diviene la punta di diamante della rivista di sinistra Konkret, diretta da Rainer Roehl. I due si sposano nel 1962 e hanno due gemelle.

«I suoi editoriali», si legge in un articolo del L’Unità del 17 giugno 1972, «acquistarono un prestigio sempre più grande fra gli intellettuali di sinistra e restano ancora oggi fra i più acuti lavori giornalistici degli anni ’60». Antimilitarista, attenta osservatrice in ambito politico e sociologico, iscritta al Partito Comunista clandestino dai primi anni Sessanta, dopo il divorzio con Roehl la giornalista si trasferisce con le figlie in una Berlino in pieno fermento. È il 1968, ha trentaquattro anni. Il giorno dopo l’attentato a Dutschke prende la parola nel corso di un’assemblea alla Technische Universitat: «Se si lancia una pietra, il fatto costituisce un reato. Se invece si lanciano migliaia di pietre, questa è un’azione politica. Se si dà alle fiamme una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si danno alle fiamme centinaia di macchine, questa è un’azione politica».

Nel 1969 la Meinhof mette in discussione tutto: autoritarismo, consumismo, il ruolo della donna all’interno della famiglia e, soprattutto, il significato e la funzione del giornalismo. Nello stesso anno arriva la rottura con la rivista Konkret. Emblematico il lavoro svolto in un carcere femminile per sole ragazze, che nei primi mesi del 1970 diventa un libro e una sceneggiatura di una serie di documentari a puntate, intitolata «Bambule, storia di adolescenti in una casa di correzione femminile, tra solitudine e rivolta». È l’ultimo prodotto editoriale della Meinhof che in quei mesi ha già conosciuto Baader e la Ensslin. Qualche settimana dopo diventa la terrorista più ricercata della Repubblica Federale.

«ORGANISATION RANDSTANDIGER JUGENDLICHER»

La prima generazione della RAF

Quando nella primavera del 1970 Baader viene nuovamente arrestato il progetto della RAF è ancora in stato embrionale e la sua liberazione diviene condizione necessaria. «Perché Andreas era un capo, un insostituibile in quel momento, un kader» spiega la stessa Meinhof in un’intervista rilasciata alla giornalista Michèle Ray, pubblicata su Der Spiegel nel giugno dello stesso anno. Effettivamente a Baader non restava molto tempo da scontare, dai tre ai nove mesi, ma la Ensslin e l’avvocato Horst Mahler credono che dal punto di vista politico e simbolico non ci sia battesimo migliore che la liberazione di un detenuto. Il piano di evasione, escogitato dalla Meinhof e dai compagni dell’allora ventisettenne bavarese, è astuto e geniale.

«Quel mattino, a attendere Baader nella biblioteca dell’istituto universitario berlinese», scrive, in Anatomia di una rivolta, la scrittrice Agnese Grieco, «c’è Ulrike Meinhof. Ragione del permesso d’uscita e scopo dell’incontro è la consultazione comune di testi scientifici e materiale vario. Un incontro di lavoro. Ufficialmente la giornalista e il giovane ribelle stanno scrivendo insieme un libro sui gruppi giovanili marginali. Il titolo del volume suona: Organisation randstandiger Jugendlicher. L’editore Klaus Wagembach aveva firmato il contratto fittizio per il libro su esplicita richiesta della giornalista».

Insomma, la famosa e insospettabile giornalista è la pedina fondamentale del piano. Il suo progetto sulla «gioventù emarginata» viene considerato credibile e la richiesta avanzata dall’avvocato Mahler viene accolta dal direttore del carcere di Tegel. Scortato solo da due guardie carcerarie, la mattina del 14 maggio Baader raggiunge la biblioteca, una villa sita nel quartiere residenziale di Dahlem. Poco dopo essersi messo al tavolo con la giornalista, alla porta bussano due innocue studentesse desiderose di consultare alcuni volumi. Nella ricostruzione della già citata Grieco, le due ragazze sono Ingrid Schubert e la diciannovenne Irene Goergens, conosciuta dalla Meinhof durante le riprese di Bambule. Invitate ad attendere in sala d’attesa, sono proprio le due ragazze ad aprire la porta ad altri due complici, la cui identità è rimasta ignota. Ad attenderli fuori in automobile c’è un’altra ragazza, Astrid Proll.

«Alle 12 e 30 dinanzi all’edificio», si legge su La Stampa del 15 maggio 1970, «si è fermata un’auto sportiva targata Roma. Ne sono balzati quattro giovani mascherati. Prima che i custodi del Baader potessero muoversi, i quattro avevano spalancato le porte della biblioteca e avevano lanciato nella sala due bombe lacrimogene. I quattro giovani mascherati hanno aperto il fuoco contro i due poliziotti: un agente è stato colpito da due proiettili al ventre ed è in condizioni disperate, l’altro è rimasto ferito di striscio alla testa e al collo».

Secondo tali ricostruzioni (che sembrano escludere un coinvolgimento diretto della Ensslin nell’operazione), dopo la sparatoria, gli assalitori e Baader escono dalla finestra che si affaccia sul piccolo giardino della villa. La Meinhof, che secondo il piano doveva restare nella sala e fingersi sorpresa rispetto all’accaduto, esce da quella finestra e fugge insieme a loro. È una decisione cruciale, forse dettata più dall’istinto che dalla razionalità. Nel giro di pochi istanti la giornalista rompe definitivamente col suo passato: non vedrà più le sue figlie, che manda presso una comune di hippy accampati in Sicilia (Roehl, l’ex marito, le ripoterà in Germania qualche settimana dopo). Entrata in clandestinità, il volto noto dell’ex editorialista di Konkret viene sbattuta in prima pagina: accusata di tentato omicidio, su di lei pende una taglia di undicimila marchi.

ASCESA E CADUTA DEI «TUPAMAROS» TEDESCHI

Baader sulla copertina di Der Spiegel nel 1972

L’episodio della biblioteca desta talmente tanto scalpore che la stampa tedesca affibbia alla neonata banda il nome di Baader-Meinhof. Si tratta di una trovata sensazionalistica: il bandito e la giornalista, infatti, indirizzano l’opinione pubblica verso un’immagine più simile al duo Bonnie & Clyde piuttosto che a una formazione di tipo rivoluzionario. La denominazione RAF, in effetti, compare solo il 15 giugno successivo, in occasione della già citata intervista rilasciata alla giornalista francese Ray. Su Der Spiegel viene pubblicato uno stralcio del comunicato (molto probabilmente redatto dalla Meinhof) in cui il gruppo rivendica l’evasione del suo leader e fa le dovute presentazioni: «A loro, a quelli che non ce la fanno, a quelli che non fanno parte di niente… A loro dovete dire che bisogna costruire la Rote Armee Fraktion, che questa è la loro armata! A loro dovete dire che adesso si incomincia…».

In quello stesso mese di giugno il nucleo originario, una dozzina di persone, si reca in Cisgiordania e a Gaza, nei campi di addestramento del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. In quel momento il Medio Oriente è il maggior punto di riferimento per tutte le realtà politiche che scelgono la via della lotta armata. La permanenza della prima generazione della RAF (molto burrascosa e terminata prematuramente ad agosto) coincide con la presenza di un’altra cellula terroristica, l’Armata Rossa Giapponese (Japan Red Army), nata proprio nei primi mesi del 1970, che sceglie invece il Libano come base di appoggio strategico e militare. Molto probabilmente è proprio la JRA guidata da Fusako Shigenobu e Yunzo Okudaira ad aver ispirato il nome Rote Armee Fraktion.

Tornati in Germania, alla fine dell’estate, gli esponenti della RAF mettono a segno numerose rapine e attentati; arrivano anche i primi morti, da una parte e dall’altra. Singolare la vicenda dell’anarchica ventunenne Petra Schelm, abbattuta da una raffica di mitra presso un posto di blocco della polizia ad Amburgo. Secondo un articolo pubblicato da Le Monde il 19 luglio del 1971, intitolato «L’insaisissable bande à Baader», la furia della polizia tedesca fu motivata da un possibile errore di persona: «Il successo dell’operazione, tuttavia, non è stato completo come la polizia aveva sperato. Hanno infatti annunciato per la prima volta che Ulrike Meinhof era stata uccisa in uno scontro a fuoco per le strade di Amburgo, dopo che lei aveva abbandonato la sua macchina. Molto rapidamente, però, abbiamo dovuto affrontare i fatti: la vittima, la ventenne Petra Schelm, la cui somiglianza con Ulrike Meinhof è abbastanza sorprendente, non era la giornalista ricercata ma una parrucchiera berlinese, anche lei facente parte della banda».

Il 1971 è anche l’anno in cui i vertici della RAF stilano il loro primo testo teorico, «Das Konzept Stadtguerilla», ovvero il «Concetto di guerriglia urbana». Più che una sorta di testo programmatico si tratta di una lettera aperta all’universo delle sinistre extraparlamentari; una lunga serie di interrogativi e risposte, spesso arricchite da citazioni di Mao e Lenin, volte a rafforzare la legittimità della scelta della lotta armata nel mondo occidentale. Non mancano ovviamente critiche agli organi di stampa tedeschi e europei. Secondo la già citata Agnese Grieco la mano è sempre la stessa: «In una ventina di pagine Ulrike Meinhof espone le motivazioni, le analisi politiche e la strategia, internazionalista e rivoluzionaria, del gruppo. Tesi e riflessioni rivolte soprattutto ai “compagni”. La RAF, sostiene, non è un gruppo nato dal nulla».

Andreas Baader e Ulrike Meinhof, insieme ad altri dieci esponenti dell’organizzazione, vengono arrestati a distanza di due settimane nel giugno del 1972. Gli organi di stampa conservatori cavalcano il clima di caccia alle streghe e di demonizzazione mentre alla RAF vengono addebitate probabilmente più rapine e azioni terroristiche di quante realmente realizzate. Quasi nessuno della vecchia guardia si offre di collaborare con la giustizia. Le disumane condizioni carcerarie, cui sono sottoposti, vengono a più riprese denunciate da eminenti personalità della letteratura. Tra queste anche il premio Nobel Heinrich Boll che con la celebre frase «sei contro sei milioni» condanna l’accanimento mediatico e il trattamento inumano riservato agli esponenti della RAF nelle carceri tedesche. Ma la vendetta dello stato non si fermerà al rigido isolamento e alla cosiddetta deprivazione sensoriale nelle celle insonorizzate: le immagini dei corpi senza vita di Baader, della Ensslin, della Meinhof e di altri loro compagni, misteriosamente suicidatisi tra il 1976 e il 1977, restano ancora oggi una delle pagine più nere della storia della Germania.