logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Sisto Nardinocchi, «l’omicidio sotto la doccia»

Matteo Picconi

«Io sono convinto che Antonio Mancini sia colpevole, ma non ho uno straccio di prova per chiedere la condanna. Posso solo augurargli di fare la stessa fine di Sisto Nardinocchi».

Di esecuzioni, spedizioni punitive, morti violente, avvenute all’interno delle carceri italiane se ne sono sempre contate molte. Alcune colpiscono per la loro ferocia, altre per le dinamiche che le hanno precedute. Tra queste non può non citarsi il delitto di Sisto Nardinocchi, verificatosi nel carcere Badia Morronese di Sulmona il 31 agosto 1983. È passato alle cronache come «l’omicidio sotto la doccia», in quanto avvenuto nei bagni del penitenziario abruzzese. L’immaginazione corre subito alla celebre pellicola di Giuseppe Tornatore, «Il camorrista», in particolare alla scena in cui il luogotenente de ’o Professore, Alfredo Canale (ispirato, nella realtà, a Antonino Cuomo, affiliato alla NCO di Raffaele Cutolo) viene trucidato proprio sotto le docce a colpi di coltello. Ma quello che avviene a Sulmona non ha nulla a che fare con la guerra tra cutoliani e Nuova Famiglia, men che meno con le faide interne a Cosa nostra. Seppur avvenuto a oltre 160 km di distanza dalla Capitale, dietro al delitto del carcere di Badia si cela una questione tutta «romana»: da una parte Sisto Nardinocchi, rapinatore dal curriculum criminale di tutto rispetto; dall’altra alcuni esponenti di spicco dell’allora potentissima Banda della Magliana.

«MANO DE PIETRA»

Sisto Nardinocchi in una segnaletica di fine anni Settanta

Sisto Nardinocchi in una segnaletica di fine anni Settanta

«Sisto Nardinocchi», scrive il collaboratore di giustizia Antonio Mancini nel libro Con il sangue agli occhi, realizzato insieme alla giornalista Federica Sciarelli, «era di media statura, robusto e con un braccio menomato a causa di un incidente stradale. Per questo si era beccato l’ironico nomignolo “Mano de Pietra”, preso in prestito dal soprannome del campione del mondo di pugilato Roberto Duran».

Lo conosce bene, Mancini, quel Nardinocchi, tanto da dedicargli un breve capitolo del suo libro. D’altronde l’Accattone (stando alle sue stesse dichiarazioni fornite in veste di pentito) ricopre un ruolo centrale nella vicenda del carcere di Sulmona. Nato a Roma il 28 gennaio 1948, il nome di Sisto Nardinocchi ricorre frequentemente nelle pagine di cronaca nera degli anni Settanta. Sempre il Mancini lo colloca inizialmente nelle due batterie di Centocelle e della Garbatella, a fianco a nomi piuttosto noti della criminalità romana del tempo come Tiberio Cason, Mariano Castellani detto er bavosetto, Massimo Barbieri, Manlio Vitale e Angelo Angelotti. Ma è soprattutto a fianco dei Marsigliesi che Mano de Pietra si fa largo nel mondo della malavita romana. Specialità della casa, ovviamente, le rapine.

«Una carriera», si legge sull’edizione de Il Messaggero del 1 settembre 1983, «già colma di grandi imprese alle spalle, come si addice a un pezzo da novanta. Nardinocchi aveva due doti: la furbizia e l’originalità. Doti che aveva sempre messo a frutto nel suo lavoro ma che, forse, questa volta gli sono costate la vita».

In qualità di rapinatore il suo nome sale per la prima volta alle cronache nel 1972 per un tentato colpo a un furgone postale. Ma è a metà degli anni Settanta che fa il vero salto di qualità, partecipando a delle azioni orchestrate dalla banda guidata da Albert Bergamelli e dai sudamericani. Si parla, in particolare, di una serie di rapine compiute con un escamotage piuttosto particolare, quello del «versa e raddoppia»: un complice si recava in una banca a versare una cospicua somma di denaro, facendosi rilasciare degli assegni circolari; mentre lo stesso individuo si recava in un’altra filiale del medesimo istituto di credito riscuotendo tutta la somma versata poche ore prima, i suoi complici rapinavano la prima filiale, recuperando la somma iniziale più, ovviamente, il resto del denaro disponibile. L’astuto stratagemma viene scoperto nel febbraio del 1975, ossia dopo la nota e sanguinosa rapina presso l’ufficio postale di piazza dei Caprettari. Nel giro di poche settimane la banda, composta da circa una ventina di persone, viene falcidiata dagli arresti. Tra questi spunta il nome del ventisettenne Nardinocchi, considerato molto vicino al Bergamelli nonché a Laudavino De Sanctis, detto Lallo lo Zoppo, uno dei più spietati banditi della storia della malavita romana.

Il passaggio dalle rapine ai sequestri di persona è breve e Sisto Nardinocchi entra a pieno titolo nella Anonima Sequestri romana, come venne rinominata dai giornali dell’epoca. E con la fine della parabola marsigliese e gli arresti di Bergamelli, Bellicini e Berenguer, Mano de Pietra diviene il braccio destro proprio di Laudavino De Sanctis. Dopo un breve periodo di detenzione, nel 1979 viene tratto in arresto insieme a un altro pregiudicato romano, Massimo Speranza, mentre effettua alcuni appostamenti nei pressi della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano. A fianco di Lallo lo Zoppo, Nardinocchi partecipa ai tragici sequestri dell’imprenditore Valerio Ciocchetti, ritrovato senza vita nel Tevere, presso Ponte Galeria, il 4 marzo del 1981 dopo quattro mesi di prigionia, e del «re del caffè» Giovanni Palombini, rapito il 17 aprile 1981 e ritrovato sepolto in un campo dopo essere stato «conservato» per mesi in un congelatore, al fine di ottenere più soldi per il riscatto. Due sequestri senza ritorno degli ostaggi, che in parte ricordano il sequestro del duca Grazioli del 1977. «Una brutta banda, feroce, inutilmente crudele», è il parere del Mancini nel già citato libro scritto con la Sciarelli. Nel 1981 le forze dell’ordine, guidate dal giudice Ferdinando Imposimato, si mettono sulle tracce di Lallo lo Zoppo e compagni; tra questi, come riporta L’Unità in un articolo del 10 novembre 1981, spunta nuovamente fuori il nome di Nardinocchi:

«Nella banda di Laudavino De Santis, uno staff efficiente formato da una trentina di persone, sono confluiti banditi scampati alle ondate di arresti che hanno decretato la fine dei Marsigliesi, personaggi marginali e secondari che sono cresciuti col tempo, cani sciolti della mala romana e qualche calabrese. Non sono certo finiti tutti dentro con la recente fortunata operazione di polizia. Ci sono numerosi latitanti, fra gli altri un certo Sisto Nardinocchi, titolare di un autosalone, esercizio commerciale e investimento preferito dalla anonima sequestri, comodo e insospettabile».

Vero e proprio punto di non ritorno, sia per quanto riguarda le sorti del Nardinocchi che per lo stesso Laudavino De Sanctis, è la vicenda riguardante l’ultimo dei sequestri messi in atto dalla banda delle belve, ossia quello della tredicenne Mirta Corsetti. Figlia di un noto titolare di ristoranti della Capitale, la ragazzina viene rapita il 17 luglio 1981. Anche per la giovane Mirta sembra profilarsi il tragico destino dei precedenti ostaggi, in special modo dopo che i suoi familiari, all’insaputa del giudice Imposimato, avevano già versato la somma di un miliardo di lire. Sembra ripetersi il dramma di Giovanni Palombini ma non è così. I sequestratori chiedono un altro miliardo e i familiari della ragazza non possono tenere nascosta la richiesta: insieme alla borsa con i soldi, presso una villa di Lavinio, si presentano anche gli uomini guidati dal commissario De Sena, capo della mobile. Ne segue un conflitto a fuoco, la liberazione dell’ostaggio e l’arresto di Lallo lo Zoppo che, quattro anni dopo, verrà condannato a ben sette ergastoli. Per Nardinocchi, invece, le manette scattano nel marzo dell’anno seguente quando viene arrestato per una rapina compiuta ad Arezzo. Condannato a cinque anni, oltre che indagato per i suddetti sequestri, per lui si aprono le porte del carcere di Sulmona.

UNA «FIBBIA» PER NARDINOCCHI

Antonio Mancini nel marzo 1981

Antonio Mancini nel marzo 1981

Il sequestro Corsetti, dunque, pone fine alla stagione della banda delle belve che tanto sdegno e terrore aveva causato nell’opinione pubblica per oltre un lustro. Segna, almeno sulla carta, la fine della carriera criminale di Lallo lo Zoppo che comunque continuerà a far parlare di sé e dei suoi continui tentativi di evasione dai penitenziari italiani. Ma è proprio lui, nella vicenda Nardinocchi, ad assumere tuttavia un ruolo centrale. Cosa succede in quei mesi che precedono il suo arresto e quello di Mano de Pietra? Si legge spesso che il De Sanctis non abbia mai stretto legami con la Banda della Magliana; lo si considera una sorta di cane sciolto ma, al contempo, molto rispettato (da taluni, temuto) nell’ambiente criminale. Eppure qualcosa va storto, qualche attrito con i bravi ragazzi della Magliana si verifica in quei primissimi anni Ottanta. Riprendendo il libro «Con il sangue agli occhi», una prima spiegazione la fornisce proprio Antonio Mancini:

«Si ritenevano così forti da decidere di attaccare la Banda della Magliana, pur di impossessarsi del territorio. Ma non ci riuscirono, anche perché furono arrestati prima di mettere in atto il loro piano».

Dunque non solo rapine e sequestri. Stando alle dichiarazioni dell’Accattone, il disegno criminale di De Sanctis era molto più ampio. Una spiegazione, per molti discutibile e che stride un po’ con la figura malavitosa di Lallo lo Zoppo, a cui però si accompagnano due verità certamente incontestabili. In primis, nel periodo che segue l’omicidio di Franco Giuseppucci, gli uomini della Banda della Magliana fanno terra bruciata di tutti coloro che intralciano la loro ascesa criminale; basti pensare, fra i tanti casi, alla sanguinosa faida contro il clan Proietti, oppure agli omicidi di Nicolino Selis e di Amleto Fabiani, detto er voto. In secondo luogo, tra il 1982 e il 1983 c’è chi, tra i sodali di De Sanctis, si adopera per colpire i vertici della banda ed è proprio qui che entrano in gioco i due antagonisti di questa storia, ossia Antonio Mancini e Sisto Nardinocchi. Tutto nasce all’interno del carcere romano di Regina Coeli.

«Mi trovavo al passeggio con il Mancini», dichiara il pentito Claudio Sicilia nel corso di un interrogatorio avvenuto l’11 novembre 1986, riportato nell’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice Otello Lupacchini, «quando questi venne chiamato dalle finestre della terza sezione da un suo conoscente che seppi poi chiamarsi Fulvio Lucioli (…). Ricordo che nell’occasione il Lucioli disse al Mancini che alla terza sezione vi era un ragazzo che voleva parlargli in quanto aveva molto timore perché sapeva che nel carcere era arrivato il Mancini. Questo ragazzo voleva avere un colloquio di chiarimento con il Mancini. Questo ragazzo venne indicato con il nome di Tummolo Altomonte o Altomare».

Stefano Tummolo Altomare, anche lui romano, in quegli anni è un sodale della banda De Sanctis. Il suo nome compare nei procedimenti giudiziari relativi ai sequestri Palombini e Corsetti, per i quali è scampato all’ergastolo con una condanna a venticinque anni. Recentemente, è tornato a far parlare di sé lontano dalla Capitale, nel vicentino, arrestato nel 2019 per reati connessi allo spaccio di stupefacenti. In quei primi mesi del 1983, secondo la ricostruzione del Vesuviano, con l’arrivo di Antonio Mancini nel carcere trasteverino di Regina Coeli, il Tummolo forse teme per la sua incolumità, a riprova del fatto che i rapporti tra la banda di Lallo lo Zoppo e gli uomini di Abbatino ed Enrico De Pedis non fossero molto distesi. E probabilmente corre ai ripari. Riprendendo l’interrogatorio di Sicilia:

«Il Tummolo dopo i convenevoli disse che egli nulla aveva contro il Mancini e che coloro che volevano uccidere il Mancini durante la latitanza dello stesso erano tale “Bavoso”, cioè Mariano Castellani, e Sisto Nardinocchi. Il Nardinocchi conviveva durante la latitanza con la moglie del “Fettuccina”, Gaetano Sideri, dalla quale aveva avuto un figlio, e aveva saputo che il Mancini era, durante un periodo di latitanza, frequentatore di Elena Porcacchia. Il Nardinocchi e il “Bavoso” volevano sequestrare il fratello del Mancini, Giancarlo, prendergli le chiavi di casa e penetrare nell’appartamento del Mancini e della Porcacchia per ucciderlo. L’intento non venne portato a buon fine per l’arresto del Mancini».

Vera o presunta tale, la confessione di Tummolo smuove certamente qualche meccanismo ai vertici della Banda della Magliana. Come spiega Maurizio Abbatino in un interrogatorio del novembre 1992: «La banda si sentiva obbligata a far tutto il possibile per la tutela dei detenuti e dei familiari». Il piano dell’Accattone è astuto: non cerca lo scontro col suo rivale, ci familiarizza (probabilmente per corrispondenza), arriva addirittura a prestare dei soldi alla moglie di Nardinocchi, circa trenta milioni di lire; insomma, allontana da sé eventuali futuri sospetti. Poi, nell’estate del 1983, Mancini predispone alcune «fibbie» per Mano de Pietra. Nel gergo carcerario la «fibbia» sta ad indicare una comunicazione o una consegna tra detenuti, per mezzo della quale può palesarsi una protezione ma anche, come si presume in questo caso, una sentenza di morte. Riprendendo ancora l’interrogatorio di Claudio Sicilia:

«Il Mancini nella cella fece un elenco di venti persone tra le quali parecchie erano nel carcere di Sulmona, vicino ad ogni nome vi era scritta una cifra, 300.000 lire (…). Il Mancini mi disse che quella lista doveva passarla alla madre al colloquio e doveva essere consegnata a Gianfranco Sestili per far fare dei vaglia da vari posti di Roma per ogni detenuto indicato nella lista. Agli stessi detenuti era stata mandata la c.d. “fibbia” con riferimento al Nardinocchi (…). Preciso che come mittente su tutti i vaglia era indicato “Nino Romano”, pseudonimo o parola d’ordine del Mancini».

SALUTI DA «NINO ROMANO»

Mario Di Curzio, riconosciuto come l'autore materiale del delitto Nardinocchi

Mario Di Curzio, riconosciuto come l’autore materiale del delitto Nardinocchi

Lo scenario in cui si svolge il delitto Nardinocchi è il carcere della Badia, che prende il nome dalla località sita nell’immediata periferia di Sulmona, Badia Morronese. Trattasi dell’abbazia di Santo Spirito al Morrone, un vecchio monastero tardomedievale che ha avuto la funzione di casa penale dal 1868 al 1993, anno in cui entra in funzione l’attuale supercarcere di Sulmona, edificato a pochissimi chilometri di distanza. È nel corso di una calda mattinata di fine estate, ossia il 31 agosto 1983, che si realizza questo inaspettato regolamento di conti.

«Erano circa le 10,30», scrive il giorno seguente l’inviato de Il Messaggero Fabio Maiorano, «e come di consueto i detenuti, a gruppi di quattro o cinque, quanti sono i vani delle docce disponibili nel carcere, venivano accompagnati nei locali riservati all’igiene quotidiana. Il Nardinocchi, assieme agli altri compagni di cella, era da qualche minuto sotto l’acqua quando è stato aggredito e ferito a morte».

In quei primi anni Ottanta di morti ammazzati dietro le sbarre se ne contano a decine. Eppure l’omicidio della Badia fa notizia, un po’ per la modalità con cui ha avuto luogo, un po’ perché l’episodio non rientrava nelle quotidiane faide carcerarie della camorra napoletana, le più frequenti in quegli anni. Come si evince dalle cronache, l’agguato al noto pregiudicato romano ha colto tutti di sorpresa. Riprendendo il resoconto di Fabio Maiorano del 1° settembre 1983:

«Richiamati dai rumori della colluttazione e dalle grida dell’aggredito, gli agenti sono accorsi rinvenendo il giovane disteso a terra, bocconi, immerso in una pozza di sangue e con il corpo martoriato da numerose ferite da taglio al collo, all’emitorace sinistro e al basso ventre. Immediatamente è scattato l’allarme in tutto il carcere. Il giovane, che rantolava e respirava a fatica, è stato soccorso e trasportato d’urgenza presso il pronto soccorso dell’ospedale di Sulmona dove, però, è giunto cadavere».

L’arma del delitto, un punteruolo ricavato dal manico di un cucchiaio di metallo, viene rinvenuta a fianco al cadavere. Fin da subito si apprende che l’agguato a Mano de Pietra è stato realizzato da una sola persona ma non si esclude, ovviamente, la complicità di altri detenuti. Gli inquirenti ci mettono poco tempo a trovare l’esecutore materiale, riconosciuto in Mario Di Curzio, pregiudicato romano di ventinove anni, già condannato per l’omicidio di un altro detenuto, avvenuto a Rebibbia nel 1978. Se inizialmente le indagini si indirizzano verso un regolamento di conti tutto interno al carcere, presto gli inquirenti vengono a conoscenza dei legami tra lo stesso omicida e la nota holding criminale romana. Di Curzio, infatti, non può considerarsi un esponente della Banda della Magliana, ma è uomo di fiducia di Antonio Mancini, nonché cugino di Roberto Giusti, a sua volta legato a Maurizio Abbatino. Tra i destinatari delle fibbie (la somma dei vaglia altro non è che il «corrispettivo» da far pervenire al killer del Nardinocchi), inviate dall’Accattone presso il carcere di Sulmona, compare proprio il suo nome. A confermarlo è sempre Claudio Sicilia nel già citato interrogatorio del 1986: «Non ho visto o meglio non ricordo chi fossero i destinatari dei vaglia. Di uno solo ricordo il nome, Mario Di Curzio».

La vicenda processuale relativa al delitto della Badia non è priva di sorprese. Oltre Mario Di Curzio, tra gli imputati figurano Antonio Mancini, in qualità di mandante, ed altri sei detenuti del carcere abruzzese. L’Accattone, che nelle settimane successive ai fatti di Sulmona viene trasferito nel penitenziario dell’isola di Pianosa, ha raccontato in più occasioni di aver goduto di forti protezioni «dall’alto» durante il processo Nardinocchi. In quegli anni, infatti, la Banda della Magliana è all’apice del suo potere criminale. Un potere facilitato anche da presunte connivenze col mondo della magistratura. Nel corso di un’udienza del processo alla Banda della Magliana, celebratosi a Roma nell’aula bunker del Foro Italico il 23 febbraio 1996, interrogato dall’avvocato Naso, Mancini sembra confermare tali circostanze:

Avv. Naso: lei ha dichiarato di avere avuto dei benefici sul piano personale durante la sua detenzione, per intervento di esponenti della magistratura, della polizia, su questo vuole soffermarsi?

Mancini: a me questo è quello che mi mandavano a dire.

Avv. Naso: chi glielo mandava a dire?

Mancini: chi era all’esterno, chi si muoveva per me.

Avv. Naso: e cioè?

Mancini: e cioè… i miei compagni.

Avv. Naso: faccia qualche nome.

Mancini: De Pedis, Carminati stesso è venuto al Tribunale del L’Aquila a dire che si stavano valendo per me.

Avv. Naso: quando è venuto Carminati a trovarla?

Mancini: durante il processo per l’omicidio di Nardinocchi.

Avv. Naso: cioè? L’anno?

Mancini: le date quali sono io non me le ricordo. Ero in aula. Stavo facendo il processo per l’omicidio Nardinocchi ed è venuto Carminati (…).

Il processo Nardinocchi si apre l’anno seguente presso la Corte d’Assise del L’Aquila e si conclude nel novembre del 1984. Qui il primo colpo di scena: mentre Di Curzio viene riconosciuto colpevole di omicidio volontario e condannato a 21 anni di reclusione, Mancini e gli altri sei imputati vengono assolti con formula piena. La pronuncia della Corte d’Assise aquilana liquida quindi il fatto omicidiario a mero regolamento di conti tra la vittima e il suo carnefice. Ma non finisce qui: nel 1987, in occasione del processo di appello, il caso Nardinocchi diviene anche un primato a livello giudiziario:

«La Corte d’Assise d’Appello del L’Aquila», si legge su Repubblica nell’edizione del 28 maggio 1987, «ha adottato un provvedimento destinato a sollevare polemiche. La Corte, riunita in un processo per omicidio volontario per cui era stato condannato a 21 anni di reclusione nel novembre del 1984 Mario Di Curzio, ha accolto l’eccezione di nullità presentata dai difensori. I dubbi sono stati sciolti dopo più di tre ore di camera di consiglio. Poi, il presidente ha annunciato la nullità della sentenza di primo grado. È la prima volta, in Italia, che una simile eccezione viene accolta dalla corte di rito. Finora, infatti, la decisione di annullare i processi era stata presa soltanto dalla Cassazione».

Una svolta, può dirsi, clamorosa. Tuttavia lo stesso Di Curzio, resosi latitante proprio nei mesi in cui si svolge il processo di secondo grado, non sfuggirà comunque a una condanna per il delitto di Sulmona. Nel marzo del 1988, infatti, la Corte d’Assise del L’Aquila lo condanna nuovamente a 21 anni di reclusione; una «sentenza fotocopia» a quella del 1984 la descrive il cronista del Messaggero Angelo De Nicola. Da quel momento la vicenda sparisce definitivamente dalle cronache nazionali. La cosa sorprendente è che il Mancini non ha mai fatto mistero circa il suo coinvolgimento nell’omicidio del braccio destro di Lallo lo Zoppo. Nel 2006, in un’udienza relativa al processo Calvi, l’Accattone torna a parlare di quell’omicidio e di Mario Di Curzio. Mentre spiega i forti legami che intercorrevano tra Cosa nostra e i testaccini (nel caso specifico, Ernesto Diotallevi), dichiara:

«Quando uccisi, o feci uccidere, Sisto Nardinocchi al carcere di Sulmona, colui che aveva commesso l’omicidio fu trasferito al carcere speciale di Fossombrone. Una volta lì giunto, gli si avvicinò un signore chiamato Vittorio Mangano, il siciliano, che gli fece una serie di domande, se lui conosceva persone della Banda della Magliana (…). Di Curzio mi raccontava, mentre affrontavamo il processo per l’omicidio Nardinocchi, che Mangano si raccomandò di fare avere i suoi saluti a Ernesto Diotallevi (…). A Fossombrone c’era anche Luciano Liggio, il quale proprio per questo suo coraggio, questa sua audacia di aver commesso quell’omicidio, e per il fatto che appartenesse in qualche modo a personaggi della Banda della Magliana, mi diceva Di Curzio, anche il suo piantone aveva messo a sua disposizione».

Si chiude così la vicenda relativa al «delitto sotto la doccia», un omicidio su commissione rimasto senza mandanti. Ma, come si è già detto, la banda di De Pedis e Abbatino era ancora molto forte, per certi aspetti ancora unita nonostante i primi dissapori tra maglianesi e testaccini. Poche settimane dopo i fatti di Sulmona qualcosa sarebbe cambiato. Nell’ottobre del 1983, infatti, il primo grande pentito della banda, Fulvio Lucioli, inizia a parlare: manderà tutti alla sbarra. Fu solo la prima crepa, nulla di più. Per quanto riguarda il processo Nardinocchi, non può escludersi che anche l’Accattone lo vinse «nei corridoi», per dirla con le stesse parole di Renatino De Pedis. Emblematica, a tal riguardo, è la frase pronunciata dal PM in occasione del processo del 1984, testualmente riportata sul libro scritto dallo stesso Mancini e da Federica Sciarelli:

«Io sono convinto che Antonio Mancini sia colpevole, ma non ho uno straccio di prova per chiedere la condanna. Posso solo augurargli di fare la stessa fine di Sisto Nardinocchi».