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Banda della Magliana: chi era il vero padre di “Renatino” De Pedis?

Tommaso Nelli

Dunque l’intoccabile del crimine romano, uno dei capi della Banda della Magliana, a differenza di quanto raccontato fino a oggi, non era figlio di Antonio De Pedis. A stabilirlo, ormai dieci anni fa, la comparazione tra il suo dna e quello di Luciano e Marco De Pedis effettuata all’indomani della estumulazione del corpo del boss dalla basilica di S. Apollinare

E ora continuate pure a chiamarlo Enrico. Ma non più De Pedis. Perché “Renatino” aveva un altro padre rispetto ai suoi fratelli. La scoperta, che qui vi proponiamo in esclusiva, arriva dalla “Relazione Tecnica di Indagini Biologiche” della Polizia Scientifica di Roma ed è allegata agli atti dell’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. È datata 10 agosto 2012 ed è inequivocabile nel suo verdetto: “Dai risultati ottenuti è possibile stabilire che De Pedis Enrico non condivide una parentela in linea paterna con De Pedis Luciano e De Pedis Marco.

Dunque quell’intoccabile del crimine romano, uno dei capi della Banda della Magliana, a differenza di quello che abbiamo sempre creduto fino a oggi, anche perché così ci è sempre stato raccontato, non era figlio di Antonio De Pedis. Lo stabilì la comparazione tra il suo dna e quello di Luciano e Marco De Pedis effettuata all’indomani della sua estumulazione dalla basilica di S. Apollinare il 14 maggio 2012. Quando i magistrati che si occupavano della sorte di Emanuela Orlandi vollero accertare se all’interno della tomba del boss, fino a quel momento allocata in una cripta del luogo di culto intitolato al santo patrono ravennate, non vi fossero per caso i resti della giovane cittadina vaticana. Un’ipotesi buona per una puntata di “CSI”, visto che lui era morto nel 1990 mentre lei era sparita nel 1983 e dunque non si capisce dove sarebbero state custodite per sette anni le sue spoglie. E infatti di Emanuela, all’interno della bara, non c’era niente. C’era invece, e anche ben conservato nonostante fosse trascorso più di un ventennio da quando era stato freddato a via del Pellegrino, il corpo di “Renatino”. Per sincerarsi che fosse lui, furono acquisite tre unghie – primo e quarto dito destro, primo dito sinistro – e il terzo molare inferiore destro. Ma soltanto da quest’ultimo fu possibile ottenere il profilo genetico da comparare con quello dei due De Pedis, ai quali era stato prelevato tramite tampone buccale il 23 dicembre 2009, quando furono ascoltati a piazzale Clodio sempre in merito al caso Orlandi.

«PERÒ MO’ SE QUESTO NON È MÌ FRATELLO… »

Conclusione della “Relazione Tecnica di Indagini Biologiche” della Polizia Scientifica di Roma allegata agli atti dell’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi (10 agosto 2012)

Il risultato dell’esame, svolto nei laboratori della Scientifica a cura della Sezione di Genetica Forense, fu sorprendente e sconcertante: “Renatino” non aveva lo stesso padre dei fratelli. Lo si deduce dalla tabella relativa all’aplotipo del cromosoma Y (quello che determina il genere maschile), che esplicitò come i valori di Luciano e Marco fossero identici per tutti e sedici i loci genetici analizzati. Un numero più che sufficiente, come ci ha spiegato un illustre esperto del settore, per dimostrare che entrambi erano legati da un vincolo di parentela “padre-figlio” con lo stesso genitore maschile. Questo perché tutti i figli maschi dello stesso padre biologico condividono l’aplotipo Y. Tutt’altra storia invece per “Renatino”, che con i due aveva in comune soltanto il valore di quattro loci e che quindi non poteva condividere la discendenza “padre-figlio”. Per cui: fratello sì, però non dello stesso padre. E nemmeno poteva essere nipote della stessa linea di parentela.

Naturale a questo punto chiedersi: e la madre? Come ci è stato detto dalla nostra fonte, con i dati di questo esame a disposizione non è possibile stabilirlo, perché il numero dei marcatori utilizzati fu insufficiente. Però abbiamo un’intercettazione telefonica che fuga ogni dubbio. Risale al 23 dicembre 2009. Mezzogiorno in punto. Marco De Pedis è appena uscito dalla Procura e chiama Carla Di Giovanni, vedova di “Renatino”. Le racconta del colloquio, si lamenta del dolore avvertito al momento del tampone, gli inquirenti hanno voluto il suo dna perché intendono aprire la tomba per verificare l’effettiva presenza della salma, e a un certo punto fa: «Però mo’ se questo non è mì fratello…». Al che i due ridono come risulta dalla trascrizione della Squadra Mobile, che però non riporta la significativa risposta della donna: «Figlio de’ tù madre è sempre». La conversazione – che chi scrive ha avuto la possibilità di ascoltare – era iniziata da cinquantasette secondi. Durò poco più di sette minuti, ma i due non ritornarono più sull’argomento. Emblematiche però le parole della signora, che fanno capire come fosse a conoscenza di quel segreto. E non soltanto lei, a questo punto.

PERCHÉ LA NOTIZIA È SEMPRE STATA TACIUTA?

Anche perché a Roma, almeno da quindici anni, una delle tante vox populi ha sempre sostenuto, seppur in forma implicita, quanto accertato dalla Scientifica. E, come nelle migliori tradizioni popolari e popolane, si è fatto anche il nome di questo padre naturale con ipotesi all’insegna del massimo cospirazionismo, che non hanno risparmiato nemmeno i più alti ambienti ecclesiastici. Se gli antichi solevano ripetere “vox populi, vox dei” noi crediamo invece che occorra portare riscontri alle proprie affermazioni. Altrimenti sono chiacchiere da bar o da egoriferiti, più o meno consapevoli, in cerca di consensi “bulgari” sui social network per compensare le frustrazioni di una vita reale priva di attenzioni.

Ora però è doveroso chiedersi: “chi” era quell’uomo? E “perché” questa notizia è stata sempre taciuta? Riteniamo necessario, anzi fondamentale, avere le risposte a queste domande. E le ragioni si ritrovano in parte di ciò che avevamo scritto a febbraio nell’approfondimento della figura di quello che fino a ieri era noto come Enrico De Pedis. Un criminale sui generis. Perché da malvivente di strada, dedito alle rapine, in poco tempo balzò alla gestione del traffico di stupefacenti, all’usura, al gioco d’azzardo, al riciclaggio di denaro e al reinvestimento di quei proventi in attività imprenditoriali che gli fruttavano un tenore di vita surreale per uno che, quando veniva fermato dalle forze dell’ordine per un controllo e veniva trovato anche in possesso di cospicue somme di denaro, dichiarava di essere “nullatenente”. E perché, nonostante rapporti degli inquirenti comprovanti le sue attività illecite, spesso e volentieri nei processi era riuscito a cavarsela con un nulla di fatto anche perché riusciva a disporre dei migliori avvocati della Capitale. Dunque: quell’improvvisa escalation delinquenziale dipese in qualche modo dalle origini paterne? E queste ebbero per caso un ruolo nella fulmineità – quattro giorni – con la quale il Vicariato di Roma concesse il suo decisivo benestare alla richiesta di Don Vergari di tumularlo nei sotterranei della basilica di S. Apollinare? Dove, su un lato del suo sarcofago, in oro e zaffiri fu incastonato proprio il soprannome che lo aveva accompagnato per tutta la sua breve esistenza: “Renato”. Un riconoscimento oltremodo ampolloso che spinge a chiedersi anche se per caso il genitore naturale avesse a che fare con quell’appellativo. Tra l’altro insolito per l’ambiente romano, specialmente quello criminale, abituato ad affibbiare nomignoli ironici che riflettevano un difetto, una caratteristica fisica o un’attitudine. Gianfranco Urbani, noto trafficante di stupefacenti in rapporti con la ‘ndrangheta, era Er Pantera per la sua abilità nello sfuggire alla cattura. Giovanni Girlando, uno dei pregiudicati della Magliana ucciso in un regolamento di conti, era Gianni Er Roscio per il colore dei capelli. Quindi: perché Enrico era “Renatino”?

DUE LUSTRI E NESSUN APPROFONDIMENTO

Per provare a sapere qualcosa in più sul contenuto di quella relazione, finora mai pubblicata, abbiamo contattato chi se ne era occupato e che però ha declinato la nostra istanza. Tra il 22 agosto e il 6 settembre 2012 quel documento giunse sulle scrivanie degli inquirenti del caso Orlandi. Però tra gli atti non risultano approfondimenti in merito. Probabile che non sia stato ritenuto funzionale all’oggetto delle indagini. Valutazione comprensibile sul piano metodologico. Perché se si investiga sulla scomparsa di una quindicenne, logico dare la precedenza a quanto le è accaduto quando si sono perdute le sue tracce e non all’individuazione del padre di un individuo sospettato di aver avuto un ruolo in quel misfatto, ma che era già morto da un ventennio e i cui sospetti non avevano avuto riscontri.

Però dai risultati di quell’esame sono trascorsi due lustri. Nei quali l’inchiesta su quell’adolescente non solo è stata archiviata con un nulla di fatto, ma non ha nemmeno ricostruito per filo e per segno i suoi ultimi momenti, chi era con lei e come sparì da corso Rinascimento. Per cui oggi sapere chi fosse il padre di “Renatino” è doveroso anche per sgombrare il più recondito dubbio di un collegamento con il dramma di Emanuela Orlandi. La riteniamo una probabilità con percentuale da prefisso telefonico, anche se comunque maggiore rispetto a quella delle spoglie della giovane nella nota tomba. Ma mai dare niente per scontato.

Sempre nel nostro speciale su “Renatino, sottolineando la sua vita così densa di misteri, avevamo concluso che avrebbero potuto essercene altri sul suo conto. Così è stato. E dovranno essere illuminati per comprendere a pieno la sua figura. Perché a dieci anni da quella scoperta e a oltre trenta dalla sua scomparsa, il suo nome continua a sfornare enigmi. E questo, se da un lato è correlato alla sua storia, dall’altro si spiega con uno degli atavici difetti dell’Italia: l’ignavia. Spesso per superficialità, quieto vivere, paura, carrierismo, ecc., si preferisce scaraventare la palla in tribuna piuttosto che andare all’attacco, approfondendo ciò che non va e “perché”, e consentire a questo Paese un salto di qualità sul piano civile. Ma come scrisse Alessandro Manzoni, “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. E qui da noi, purtroppo, Don Abbondio ha molti seguaci.