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Banda della Magliana. Omicidio Proietti: si consuma la vendetta sul clan dei «pesciaroli»

Matteo Picconi

«Se a morire fosse stato chiunque altro, noi ci saremmo scatenati uguale»

Il periodo che va dal 1980 al 1982 rappresenta senza dubbio una delle fasi più violente nella storia della criminalità capitolina. Un biennio di sangue in cui si contano morti eccellenti, come Franco Giuseppucci, Domenico Balducci e Nicolino Selis; omicidi dal carattere prettamente punitivo, come quelli di Massimo Barbieri, Claudio Vannicola e Amleto Fabiani; la faida tra l’ormai affermata Banda della Magliana e il clan Proietti, gruppo criminale attivo nelle periferie ovest di Roma, consumatasi in seguito all’omicidio del Giuseppucci stesso, avvenuto il 13 settembre 1980 a pochi passi dal bar Castelletti di piazza San Cosimato, nel cuore del rione Trastevere.

Come è noto, gli autori materiali dell’agguato ai danni de er negro verranno riconosciuti in Maurizio e Fernando Proietti, esponenti di spicco del clan dei pesciaroli. Entrambi cadranno sotto i colpi dei sicari della Magliana nel giro di pochissimo tempo. Maurizio Proietti, detto il pescetto, muore nel famoso episodio di via di Donna Olimpia, il 16 marzo 1981, quando, sorpreso sotto casa del padre in compagnia del fratello Mario (sopravvissuto all’agguato), viene freddato da Marcello Colafigli e Antonio Mancini. Fernando Proietti, detto er pugile, viene invece ucciso nella notte del 30 giugno 1982 in viale Marconi, poco tempo dopo la sua scarcerazione.

Un omicidio «pesante» quello del pugile, il fratello maggiore di Proietti, che di fatto sancisce la definitiva vendetta per la morte di Giuseppucci e stabilisce il predominio territoriale della banda sulla Capitale; tuttavia la sua eliminazione non avrà largo spazio nelle cronache di quei giorni e nelle successive ricostruzioni. Una morte, forse, fin troppo annunciata; un’esecuzione capace di destare meno clamore di quella avvenuta nel quartiere Monteverde, eclissata a livello mediatico dall’entusiasmo di un’intera Nazione intorno all’Italia di Bearzot – che appena il giorno prima aveva sconfitto a gran sorpresa l’Argentina di Diego Armando Maradona – ma anche dall’ultimo grande sciopero generale dei lavoratori che coinvolse i principali organi di stampa. L’ennesimo agguato ai danni di un «pezzo grosso» della mala romana passa così in secondo piano.

L’IDOLO DI DONNA OLIMPIA

Il pugile Fernando Proietti in un match del 1960

Nella Capitale il cognome Proietti è parecchio diffuso. Fin dal tardo Medioevo, nei territori dell’ex Stato Pontificio, si usava assegnare agli infanti abbandonati il secondo nome di projectus (proiettato, gettato). Di lì la massiccia diffusione e ramificazione di questi ceppi familiari. A Roma, se si esclude il grande e compianto attore Gigi Proietti, i più conosciuti sono stati senz’altro i Proietti del quartiere Monteverde. Soprannominati pesciaroli per via della loro attività, un banco del pesce situato presso il mercato di piazza San Giovanni di Dio, i Proietti sono una famiglia di estrazione popolare e, soprattutto, numerosa: undici figli e altrettanti cugini. Un piccolo esercito, un vero e proprio clan, che, negli anni Sessanta e Settanta, oltre alla vendita all’ingrosso del pesce, mette le mani in una attività che da decenni contraddistinguevano il malaffare della città: scommesse, usura, gioco d’azzardo.

Classe 1936, primo di undici figli, Ferdinando Proietti, da tutti chiamato Fernando, è un personaggio piuttosto noto già alla fine degli anni Cinquanta quando giovanissimo intraprende la carriera di pugile. Considerato un giovane di belle speranze, il peso welter di Monteverde esordisce tra i professionisti nel 1957 e colleziona una lunga serie di vittorie e ottime prestazioni (ancora vengono ricordati i tre incontri contro il ceccanese Domenico Tiberia), arrivando a combattere nelle grandi riunioni organizzate presso il Palazzetto dello Sport all’EUR. Come riportano le cronache di quegli anni, Proietti è l’idolo di Donna Olimpia, con centinaia di sostenitori al seguito e un discreto favore da parte dei media sportivi romani. Nel 1962, con uno score di tutto rispetto (23 vittorie, 3 sconfitte e 3 pareggi), per Proietti arriva la grande occasione: il vacante titolo italiano dei pesi welter. Sul ring del Palazzetto, Fernando er pugile gioca in casa ma non parte favorito: all’angolo opposto trova uno dei migliori pesi welter del momento, il sardo Fortunato Manca, reduce da una sconfitta per il titolo europeo contro il leggendario Duilio Loi. Proietti non riesce nell’impresa e perde ai punti in un match dominato dal campione di Monserrato. Continuerà a combattere per altri nove anni, tanto da conquistarsi una nuova chance per la cintura tricolore in età più matura, nel 1970, contro un altro pugile romano, Giovanni Zampieri. Perde prima del limite per KO tecnico, una sconfitta che segna la fine della sua discreta carriera pugilistica, conclusasi con 28 vittorie, 14 sconfitte e 6 pareggi.

Nel 1962, due mesi prima di giocarsi il titolo italiano con Fortunato Manca, il nome di Fernando compare per la prima volta in cronaca nera. Per l’esattezza ci finisce un fratello minore, Renato Proietti, anche lui conosciuto fino a quel momento solo per meriti sportivi (è il centravanti del Latina Calcio), accusato di omicidio preterintenzionale in seguito a un litigio scaturito per futili motivi. La sera del 3 ottobre, in via di Monteverde 58, un commerciante di trentacinque anni, Aquilino Carrara, chiede a due giovani di spostare la loro auto parcheggiata davanti alla saracinesca della sua tintoria, in modo da poter effettuare uno scarico della merce. I due giovani non la prendono bene, ne nasce un diverbio in seguito al quale il commerciante viene colpito con un pugno al volto. Ricoverato in osservazione al Policlinico, il Carrara muore tre giorni dopo per una grave emorragia cerebrale. Auto accusatosi di aver malmenato il commerciante, Renato Proietti viene tratto in arresto. Eppure, stando a quanto riporta il Corriere della Sera il 7 ottobre 1962, potrebbe non essere stato il ventiquattrenne ad aver aggredito il commerciante:

«La madre di Proietti avrebbe detto ai cronisti di un quotidiano romano che non sarebbe stato il figlio Renato il protagonista della rissa, ma suo fratello Nando: Renato si sarebbe accusato per scagionarlo».

In assenza di altri testimoni, tali rivelazioni non vengono prese in considerazione dalla polizia e il pugile viene subito scagionato. Nell’aprile dell’anno seguente, a fronte di una richiesta di otto anni di reclusione da parte del PM, Renato Proietti viene assolto per insufficienza di prove. L’episodio di via di Monteverde può considerarsi un piccolo fatto di cronaca finito in tragedia, eppure rende bene l’idea di come si muova il clan a livello territoriale. Come si è detto, il giro d’affari dei Proietti si allarga nel corso degli anni Settanta, vista la loro vicinanza a un altro pezzo grosso nel giro delle scommesse clandestine come Franco Nicolini, che in piazza San Giovanni di Dio possiede una delle sue abitazioni, e Bebo Belardinelli, ras del quartiere Primavalle, zona in cui i pesciaroli risultano essere molto attivi. Ma l’eliminazione di Franchino il criminale, trucidato la notte del 25 luglio 1978 presso l’ippodromo di Tor di Valle da un commando guidato da Nicolino Selis e Maurizio Abbatino, sconvolge il panorama malavitoso capitolino. Per i Proietti, come per altri piccoli criminali disseminati nelle periferie romane, la nuova banda guidata da Giuseppucci rappresenta un pericolo per i loro affari. La reazione non si farà attendere.

«UN GIOVANE CON LA PARRUCCA BIONDA E OCCHIALI DA SOLE»

Il bar Castelletti di piazza San Cosimato dove avvenne l’omicidio di Giuseppucci

Il 13 settembre 1980 è un sabato, sono le 20 e 30 ed è da poco calata la sera. Giuseppucci ha appena lasciato il bar Castelletti di piazza San Cosimato e molto probabilmente si sta dirigendo verso l’ippodromo di Tor di Valle. Dopo l’eliminazione di Nicolini ormai è lui il «signore delle corse», ha trasformato la sua passione per il gioco (una vera e propria fissazione stando a quanto riportato da Abbatino e compagni) in un affare milionario. Una presenza ostile lo raggiunge appena salito a bordo della sua R4. Questa la ricostruzione ufficiale dell’agguato: er negro viene avvicinato da un giovane con la parrucca bionda e occhiali da sole; quest’ultimo inizialmente gli punta un fucile all’interno dell’abitacolo che Giuseppucci riesce a bloccare, disarmandolo; l’aggressore mascherato impugna allora una pistola sparando alla vittima un solo colpo, all’addome, per poi raggiungere il suo complice a bordo di una Honda 500 con il solito borsello aperto sul portapacchi per coprire la targa. Sembra anche che i due abbiano vanamente provato a inseguire il Giuseppucci che, una volta ingranata la retromarcia, si è diretto al vicino ospedale Nuovo Regina Margherita di viale Trastevere. Il leader della banda, «l’armiere nero» come lo chiamano i giornali dell’epoca, muore tra le braccia degli infermieri prima ancora di raggiungere la sala operatoria.

Se c’è un elemento comune fra i tanti omicidi collegati alla Banda della Magliana è che gli inquirenti hanno quasi sempre brancolato nel buio; alcuni fatti di sangue sono rimasti senza colpevoli, altri sono stati chiariti a distanza di anni dai pentiti. Ma nel 1980 Giuseppucci è un personaggio piuttosto noto alle forze dell’ordine, le quali, nelle ore che seguono l’agguato di piazza San Cosimato, imboccano subito la pista giusta, arrivando anche a intercettare i presunti responsabili.

«In Questura», riporta su Ragazzi di malavita Giovanni Bianconi, «decisero di cominciare le indagini dall’ippodromo di Tor di Valle. E verso le dieci e mezza di quel sabato sera ancora estivo il brigadiere di P.S. Emilio Verrillo girava per le tribune e i bar in cerca di notizie sul morto e di indizi sugli assassini. “Mentre mi trovavo all’interno dell’ippodromo”, scriverà il brigadiere nella sua relazione di servizio, dalla prosa tipica quanto incerta, “notavo il noto pregiudicato Proietti Fernando parlare con alcuni giocatori clandestini e dopo poco si allontanava con fare sospetto, e cioè guardando a destra e a sinistra in mezzo alla folla dei giocatori. Nel mentre si allontanava lo scrivente non lo perdeva mai di vista e nel contempo chiedevo a un mio confidente che cosa stava cercando il Proietti, il confidente mi faceva presente che stava cercando una persona soprannominata Mimmo il biondo, amico intimo del Giuseppucci, non trovandolo stava andando via”. Verrillo, insieme ad altri due poliziotti, decise di bloccare quei due tipi sospetti».

Trovati in possesso di armi automatiche, due 7.65, Maurizio e Fernando Proietti vengono tratti in arresto per porto abusivo di arma da fuoco. Per la polizia quel «Mimmo il biondo», ossia Domenico Zumpano, personaggio legatissimo a Giuseppucci nonché frequentatore del bar di via Enrico Fermi, doveva essere la loro prossima vittima. Iniziano così le indagini intorno a una morte che fin da subito ha il sapore di una faida tra due clan rivali. I sospetti si concentrano tutti su Fernando Proietti, incastrato dalla prova del guanto di paraffina, dal fatto di possedere una moto Honda molto simile a quella descritta dai testimoni di piazza San Cosimato e, infine, dal rinvenimento di alcune parrucche. Pur avendo sparato di recente, le pistole trovate addosso ai Proietti non risultano attinenti al colpo fatale esploso in piazza San Cosimato. Nel corso delle indagini vengono coinvolti altri due fratelli: Mario (si è ipotizzato fosse lui e, non Maurizio, alla guida della moto) ed Enrico. Verranno tutti scagionati, eccetto il fratello maggiore, Fernando, unico grave indiziato per la morte di Giuseppucci.

Come riporta sempre Bianconi, questa volta sono gli uomini guidati da Abbatino a sfruttare alcune confidenze in seno alle forze dell’ordine e la voce che a uccidere l’ex fornaretto di Trastevere siano stati i Proietti appare fin da subito verosimile, se non addirittura scontata. Di lì la decisione di «fare fuoco sui pesciaroli», parenti o affiliati che siano.

«I PROIETTI NON LO SAPEVANO, HANNO FATTO UN AZZARDO»

Un ritaglio del Corriere della Sera sull’arresto dei fratelli Proietti

Nonostante l’arresto dei Proietti, le indagini sono tutt’altro che semplici. Scartata fin da subito la pista politica dell’eversione nera, dietro all’omicidio di Giuseppucci i media cavalcano l’ipotesi di uno sgarro commesso nel giro della droga. Poche ore dopo l’agguato di Trastevere, infatti, le forze dell’ordine irrompono in un appartamento di via Bompiani, nel quartiere Ardeatino, dove vive un giovane incensurato di ventiquattro anni, Roberto Gilardi. Mentre la polizia bussa alla sua porta, il ragazzo getta dalla finestra un sacchetto contenente quasi tre chili di cocaina. Tratto in arresto, il Gilardi dichiarerà di aver preso in consegna lo stupefacente proprio da Franco Giuseppucci. Nell’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice Otello Lupacchini viene precisato anche il luogo e la data in cui sarebbe avvenuta la consegna, ossia al bar Fermi l’11 settembre, due giorni prima l’omicidio de er negro. Il blitz all’Ardeatino sembra inizialmente spiegare il delitto, ovvero che Giuseppucci si sia rifiutato di pagare i fornitori consegnando la cocaina a un personaggio fuori dal giro. Ipotesi fin troppo semplicistica che, di fatto, non porta a nulla di concreto in fase di indagine. Come ha spiegato Abbatino in un interrogatorio reso nell’ottobre del 1992, il ventiquattrenne non era nuovo a questo genere di servizio: «Ricordo, per quanto attiene a questo periodo, che per la custodia dello stupefacente ci si avvaleva della collaborazione di Roberto Gilardi, il quale non faceva però parte della banda».

Se si esclude la pista della droga non può escludersi quella dello «sgarro», termine molto caro ai cronisti dell’epoca. Il tutto ovviamente va contestualizzato intorno ai nuovi equilibri di potere nell’ambiente criminale romano seguiti al delitto Nicolini. Piuttosto che rifarsi alle cronache di allora, vale la pena soffermarsi sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Antonio Mancini, nel corso di un interrogatorio risalente al 1993, riportato in La Banda della Magliana di Gianni Flamini, ha sostenuto che «la morte di Giuseppucci trova la sua ragion d’essere nell’esigenza, da parte dei Proietti, di affrancarsi dalla situazione nella quale lo stesso Giuseppucci, il quale aveva imposto una sorta di racket sulle corse dei cavalli e sugli ippodromi, li aveva costretti: inizialmente i Proietti avevano accettato le condizioni di Giuseppucci ma, successivamente, si erano ribellati e non appena si presentò l’occasione lo ammazzarono».

L’Accattone ha sempre sostenuto che l’agguato di piazza San Cosimato non doveva culminare nell’omicidio ma doveva essere un avvertimento. In un’intervista rilasciata a Giuliano Benincasa nel 2014, Mancini spiega anche che i Proietti mai si sarebbero sognati una reazione del genere, in quanto ignoravano il nuovo sodalizio criminale che si era stretto tra le batterie di Acilia, Magliana e Testaccio. «I Proietti non lo sapevano, hanno fatto un azzardo (…) sennò neanche lo avrebbero fatto. Loro pensavano che con un colpo di pistola avevano risolto il problema» concludendo che «se a morire fosse stato chiunque altro (…) noi ci saremmo scatenati uguale».

Stando quindi alla versione di Antonio Mancini, i Proietti pensavano di risolvere gli attriti con Giuseppucci alla vecchia maniera. Una svista che pagheranno cara. Ma non c’è solo un tentativo di affrancamento dei pesciaroli dietro l’omicidio Giuseppucci. C’è un preciso episodio, un antefatto, che precede di qualche giorno l’agguato davanti al bar Castelletti, in cui i due capi si promettono battaglia. A raccontarlo è stato Maurizio Abbatino in un interrogatorio del 1992, anche questo riproposto nel già citato volume di Flamini:

«Franco Giuseppucci scommetteva regolarmente sui cavalli, sia agli ippodromi che nelle sale corse, pagando sempre puntualmente i propri debiti, quale che fosse l’ammontare. Accadde una volta che Giuseppucci perse una somma di circa trenta milioni che, per mancanza di contanti, non aveva pagato subito, ma che aveva intenzione di pagare e che non aveva difficoltà a farlo. La sera successiva, però, mentre era al bar di via Enrico Fermi, gli si presentò Fernando Proietti, pretendendo il denaro. Franco Giuseppucci se ne ebbe a male e si rifiutò di pagare, dicendo che non gli facevano nessuna paura. Una quindicina di giorni dopo, Franco Giuseppucci veniva fatto oggetto di colpi d’arma da fuoco in piazza San Cosimato».

Sulla caccia ai Proietti, dagli attentati falliti a Enrico detto er cane all’esecuzione di Orazio Benedetti, un semplice affiliato, si è detto molto. I fatti di Donna Olimpia svelano a tutta la città il potere esercitato dai ragazzi della Banda della Magliana. A quel punto lo capiscono anche i pesciaroli. Molti vecchi soci in affari del clan, in alcuni casi anche parenti diretti, accorrono dagli uomini di Abbatino per dimostrare la loro estraneità alla faida. Nel carcere di Rebibbia Fernando Proietti prova ad aggredire Marcello Colafigli, responsabile della morte di suo fratello Maurizio. Ormai solo, prova a mandare un’ambasciata anche lui. L’episodio lo racconta ancora Antonio Mancini nella già citata intervista del 2014:

«Quando io e Marcello Colafigli fummo arrestati per l’omicidio del Proietti mi ricordo che dopo qualche giorno venne un signore, si chiamava Giorgio Capece (Giorgio Paradisi detto er capece, ndr), un malavitoso di livello, che mi portò un’ambasciata di uno dei fratelli Proietti. Volevano capire che cosa c’entravamo io e Marcello… Loro pensavano ancora di risolvere la cosa col gruppo di Giuseppucci (…). Gli risposi: “Digli a Proietti Fernando che lui sarà ucciso da un altro Antonio e da un altro Marcello” intendendo dire da gente che lui non si può neanche immaginare».

«FU L’AVIDITÀ A UCCIDERLO»

Ritaglio de L’Unità del 4 luglio 1982 in merito all’omicidio di Fernando Proietti

«Nell’elenco dei Proietti», scrive in Ragazzi di Malavita il già citato Giovanni Bianconi, «da eliminare ce n’era ancora uno, Fernando, che s’era salvato perché arrestato la sera stessa dell’omicidio Giuseppucci. Quelli della Magliana non l’avevano dimenticato. Anzi, tramite alcuni avvocati tentarono più volte di avere notizie sulla data di scarcerazione di “quell’infame”…»

Nonostante i gravi indizi contro di lui, dopo quasi venti mesi di carcere Fernando Proietti viene rimesso in libertà nella primavera del 1982 e gli uomini della Magliana si mettono subito sulle sue tracce. Il fratello maggiore del clan, considerato sia l’ideatore che l’esecutore materiale del delitto del negro, si muove con cautela, e per qualche tempo riesce a sfuggire alla vendetta dei suoi nemici. Fino alla tarda sera del 30 giugno 1982, quando viene avvistato nella zona di viale Marconi. Succede tutto nel giro di pochi minuti ed è un’esecuzione in piena regola.

«A uccidere Fernando Proietti», si legge sul Corriere della Sera del 4 luglio 1982, «sono stati due giovani su una moto di grossa cilindrata i quali, in viale Marconi, hanno affiancato la A-112 su cui l’uomo viaggiava, scaricandogli contro i sei proiettili di una pistola di grosso calibro. Era l’una di notte, una mezz’ora dopo Proietti è stato trovato morto al posto di guida, colpito alla testa e al torace; aveva in tasca un revolver Smith & Wesson 38 special con la matricola limata».

La notizia esce tardivamente, domenica 4 luglio, per via del già citato sciopero nazionale cui aderiscono i giornalisti dal 30 giugno al 3 luglio. Il caso vuole che nella medesima notte dell’esecuzione del Proietti, si consumi un altro omicidio, quello di Costantino Garofalo, considerato il boss della banda dei TIR, ucciso in via Prenestina in circostanze piuttosto analoghe, ovvero da due sicari a bordo di una moto. Pur concludendo fin dall’inizio che i due delitti non siano correlati tra loro, la stampa non dà molto peso all’agguato di viale Marconi, relegandolo all’ennesimo fatto di sangue come tanti altri verificatisi in quei primi anni Ottanta. Per quanto riguarda le dinamiche che portano all’individuazione e all’esecuzione del pugile, ne ha parlato a più riprese Maurizio Abbatino.

«Era il 30 giugno», riprendendo ancora Bianconi, «Paradisi vide Proietti in viale Marconi e corse subito ad avvertire gli amici che stavano lì vicino, al bar Fermi. Trovò Roberto Fittirillo, Edoardo Toscano e Maurizio Abbatino, il quale racconterà al magistrato come morì Fernando Proietti: “Dato che la notizia ci aveva colto di sorpresa, decidemmo di operare immediatamente, utilizzando la moto di Toscano, una Honda 750 rossa, alla cui guida si pose Roberto Fittirillo, con il Toscano a bordo. Sul luogo il Toscano si avvicinò al Proietti, contro il quale esplose sei colpi con una calibro 38, unica arma usata per l’occasione. Sul posto, oltre alla moto che restò in posizione defilata, sull’opposta carreggiata si trovava, a piedi, il Paradisi, mentre io ero rimasto ad attenderli al bar Fermi dove tornarono più tardi. Il Paradisi, tornato prima degli altri, mi informò che anche il Proietti era armato, ma non era riuscito a usare l’arma di cui disponeva».

In anni più recenti il crispino è tornato a parlare su quell’omicidio che per lui, amico fraterno di Giuseppucci, fu di particolare importanza. Fernando Proietti, nonostante fosse chiaro che la Banda della Magliana gli stesse dando la caccia, aveva ripreso i suoi affari. «Fu l’avidità a ucciderlo», sostiene Abbatino in La verità del Freddo, libro-intervista pubblicato nel 2018 da Raffaella Fanelli, «prendeva il pizzo dai negozianti». Nell’aprile del 1983 il commissario Cavaliere, della sezione omicidi, dispone quindici mandati di cattura a cui seguono dieci arresti. Un’operazione che precede di qualche mese il pentimento di Fulvio Lucioli, scaturita dalle indagini relative alle decine di esecuzioni e attentati che, per tre anni, hanno insanguinato la Capitale. Tra i personaggi più noti, spiccano i nomi di Abbatino, De Pedis, Toscano, Paradisi, Danesi e dello stesso Lucioli. Resta fuori dall’elenco degli arrestati, invece, Roberto Fittirillo. Solo nel 2007 verrà processato per la presunta partecipazione in ben cinque omicidi (Giuseppe Magliolo, 1981, Michele D’Alto, Claudio Vannicola e Fernando Proietti, 1982, Angelo De Angelis, 1983) uscendone però assolto per la prescrizione dei reati.

L’omicidio di Fernando Proietti chiude la sanguinosa parentesi seguita alla morte di Giuseppucci. La Banda della Magliana a quel punto non ha più rivali, almeno non «all’esterno». Falcidiata da arresti, pentimenti e rancori interni, nonché dall’emergente potere della fazione testaccina guidata da Enrico De Pedis, la nota holding criminale ideata dal negro pochi anni prima è già prossima all’implosione.

Per concludere, una curiosità: mentre della Banda della Magliana sembra sia rimasto poco o nulla, l’organizzazione dei Proietti è giunta fino ai giorni nostri. A sostenerlo è un recente rapporto sulle Mafie nel Lazio, redatto nel 2015 dall’Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza. Secondo questo rapporto, il clan Proietti-Galletti avrebbe continuato le proprie attività illecite a livello territoriale, nella zona di Monteverde. Questo quanto riportato sul capitolo dedicato alle piazze di spaccio della Capitale: «La stessa famiglia Proietti, pur decimata dalla Banda della Magliana, ha ripreso negli anni una fiorente attività di spaccio e narcotraffico in via di Donna Olimpia: “Galletti Massimo è da anni dedito a traffici di stupefacenti, condivisi con vari gruppi operanti in diversi quartieri della Capitale. Oltre alla sua lunga militanza criminale, Galletti viene accreditato in circuiti di notevole spessore delinquenziale attraverso il suocero Proietti Mario, alias “palle d’oro” (…), indiscusso riferimento criminale del quartiere romano di Monteverde” (Ordinanza di Custodia Cautelare a carico di Galletti Massimo più altri del 5 novembre 2007)».