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Caso Orlandi: da Antonio Mancini nessuna rivelazione

Tommaso Nelli

Tutto ebbe inizio il 20 febbraio 2006. Quella sera, durante un noto programma sulla Tv pubblica, fu mandato in onda un filmato di Mancini intento ad ascoltare la telefonata del fantomatico «Mario» giunta a casa Orlandi il 28 giugno 1983

Prima qualcuno l’aveva fatto morire, quando invece è ancora in salute. Poi, forse per rimediare alla macabra confusione con Luciano Mancini (detto, er Principe, morto il 2 gennaio), qualcun altro gli ha dato di nuovo spazio e visibilità. Così Antonio Mancini, settantacinque anni compiuti da poco, è ritornato a parlare. E tra gli argomenti toccati nelle scorse settimane in un’intervista alla testata telematica Fanpage, non poteva mancare la scomparsa di Emanuela Orlandi per la quale ha nuovamente chiamato in causa la Banda della Magliana. Secondo Mancini, il sodalizio criminale romano avrebbe sequestrato la ragazza per il mancato rientro di un presunto prestito di denaro allo IOR, la banca del Vaticano: «I soldi. Segui i soldi, gli stessi soldi che sono partiti dalla Banda della Magliana, in questo caso De Pedis e non so quant’altri, perché io non c’ero e non gli avrei dato manco du’ centesimi al Vaticano […] Quelli avevano fatto rapine, omicidi… avevano rischiato ergastoli per prendere i soldi e a questi glieli devi ridare. Tu dici: “Ma che c’entra la ragazza?”. Giusto. Sparano a Rosone e non tornano i soldi. Impiccano Calvi e i soldi non ritornano. Allora avevano solo una chance: o fare una strage di cappelletti rossi per le strade di Roma, o prendere una cosa che facesse risonanza».

«LA MAGISTRATURA? FACESSE QUELLO CHE GLI PARE»

Ma al pari della pista del ricatto politico anche questa del ricatto economico si è rivelata un bluff. Fumosa nella sua presentazione agli inquirenti da parte di Sabrina Minardi (amante di Enrico De Pedis, uno dei capi della Banda), sostenuta solo da un altro esponente della Magliana, Maurizio Abbatino, è stata respinta dagli altri superstiti. «Non ho mai sentito dire che la scomparsa della Orlandi fosse addebitabile a Enrico De Pedis o a qualcuno del suo gruppo […] Se ciò fosse stato vero, si sarebbe saputo nell’ambito dei vertici della Banda», disse Vittorio Carnovale. Una tesi mai beneficiaria di riscontri nonostante un’inchiesta giudiziaria lunga sette anni. Il verdetto non ha però intaccato le convinzioni di Mancini, che sempre a Fanpage ha aggiunto: «Della Orlandi l’ho detto e ridetto e non succede niente, perché ogni tanto si inserisce un’altra voce. Io ho fatto il verbale, ho dato le mie informazioni, si sono inserite ancora chiacchiere, chiacchiere… la magistratura facesse quello che gli pare».

Il suo risentimento non trova però corrispondenza nei fatti. Intanto perché Accattone, soprannome di Mancini ai tempi della Banda per la sua passione verso i film di Pier Paolo Pasolini, era in carcere da due anni quando si persero le tracce della giovane cittadina vaticana (22 giugno 1983). Ma soprattutto perché le sue dichiarazioni sulla vicenda sono risultate inattendibili.

«C’È LA MAGLIANA DENTRO»

Tutto ebbe inizio il 20 febbraio 2006. Quella sera, durante il programma televisivo Chi l’ha visto? fu mandato in onda un filmato nel quale Mancini, intento ad ascoltare la telefonata del fantomatico Mario giunta a casa Orlandi il 28 giugno 1983, a un certo punto si tolse le cuffie e sbottò: «C’è la Magliana dentro, Magliana, Magliana. Basta! Non li voglio vedè più! Non li voglio sentì più! Me sta a veni ‘a cosa…». Poi aggiunse: «Fatte carpisce la voce e mettela a confronto». L’osservazione suscitò la curiosità del giornalista Fiore De Rienzo, che gli chiese se l’avesse riconosciuta. Un assist formidabile per Accattone, che proruppe in un’affermazione clamorosa: quella voce era «del killer personale di De Pedis, uno dei killer più spietati che ci sono a Roma». E poi, come si legge nel decreto di archiviazione sul caso Orlandi emesso dal Tribunale di Roma nel 2015, fece «il nome di un certo “Rufetto”». Si riferiva a Libero Giulioli, personaggio orbitante attorno al microcosmo della Magliana, così ribattezzato perché figlio di tale Rufo.

In quel periodo, sulla sparizione della cittadina vaticana, la Procura di Roma (17 gennaio 2006) aveva aperto un fascicolo contro ignoti a seguito di altri servizi di Chi l’ha visto? che avevano nuovamente acceso i riflettori sulla vicenda coinvolgendo la cosiddetta Banda della Magliana, potente organizzazione criminale che imperversò su Roma dalla fine degli anni Settanta a inizio degli anni Novanta. Una pista scaturita dalla telefonata giunta al centralino della trasmissione l’11 luglio 2005, nella quale si faceva per la prima volta il nome di Enrico De Pedis, sostenendo che la sua sepoltura nella basilica di S. Apollinare fosse la chiave per la risoluzione del mistero.

LE CERTEZZE TELEVISIVE DIVENTATE «PROBABILITÀ» INVESTIGATIVE

Le parole di Mancini puntellarono quell’ipotesi e suscitarono l’immediato interesse dei magistrati, che lo convocarono per il successivo 1 marzo. L’occasione era quanto mai propizia per individuare dopo tanto tempo un primo soggetto coinvolto nel misfatto e squarciarne la spessa coltre di omertà. Aspettative che però si squagliarono come neve al sole. Perché Accattone sfoderò sicurezza non appena i magistrati vollero approfondire la sua conoscenza di Rufetto. Disse che aveva più o meno la sua età (tre anni fra i due); che lo conosceva da prima dei fatti di via Donna Olimpia, causa del suo arresto (16 marzo 1981); che lo aveva rivisto nel 1993-1994, una volta scarcerato, perché compagno di un’amica di Fabiola Moretti (con la quale Mancini aveva una relazione). Ma soprattutto disse che si trattava del telefonista Mario. «Perché c’ho parlato cinquecento volte!», rispose deciso e sicuro al compianto sostituto procuratore Andrea De Gasperis, memoria storica della Banda, che gli aveva chiesto: «Per lei quella voce è nota?».

Ma quando l’interrogatorio fu in procinto di entrare nel momento-clou, a sorpresa Accattone ingranò la retromarcia: «Io non ho dato per scontato che quello è “Rufetto”; se voi ascoltate l’intervista, io dico: “A me me ricorda quello!”» affermò all’improvviso, lasciando a metà l’osservazione di De Gasperis: «Ecco perché volevo sapere…». L’indietreggiamento proseguì: «Ma non è una voce che conosco! Io so per certezza che la Banda c’è dentro questo episodio — perché non si possono raccontare barzellette tra noi, Procuratore — e allora dico: “Trovatelo voi”, chiamatelo, sentite la voce […] Io ribadisco quello che ho detto e insisto su “Rufetto”, ma non do per scontato che è “Rufetto’[…] comunque è qualcuno della Banda».

Nel giro di pochi minuti, le sue certezze televisive erano diventate probabilità investigative. E l’identificazione di Mario in Rufetto era scolorita in una sua possibile appartenenza all’ambiente della Magliana, la cui individuazione sarebbe stata però compito dei giudici.

«DIVENTO POCO CREDIBILE? NON CI POSSO FA’ NIENTE»

Davanti a tali e repentine contraddizioni, l’allora procuratore aggiunto Italo Ormanni gli chiese se stesse rettificando quanto dichiarato a Chi l’ha visto? e Mancini non batté ciglio: «Sì». L’interrogatorio prese una piega inaspettata, che proseguì anche quando esaminò un altro aspetto della vicenda Orlandi: l’auto sulla quale sarebbe salita Emanuela la sera della scomparsa. «Lei sa, per caso, a chi apparteneva?», gli chiese l’altrettanto compianta dottoressa Simona Maisto. Fu la domanda davanti alla quale Mancini alzò le mani. Non lo ricordava e non volle più proseguire nonostante le insistenze dei suoi interlocutori: «Io la stoppo qui, non voglio fa’ nessun sforzo mentale, Procuratore». Ormanni ribatté pronto: «Così diventa poco credibile». Ma senza successo: «E non ci posso fa’ niente», concluse Accattone.

In Procura, dove le parole hanno un peso specifico maggiore rispetto alla televisione, Mancini aveva cambiato atteggiamento, compromettendo la bontà del suo racconto davanti alle telecamere. Se fosse stato convinto che Mario era Rufetto, non avrebbe avuto problemi a confermarlo, dimostrandosi attendibile e beneficiando eventualmente del programma previsto per i collaboratori di giustizia. Invece accadde il contrario. Un sentore, per la verità, balenato già in apertura di seduta. Quando Ormanni gli chiese da chi avesse appreso del possibile coinvolgimento della Banda nel caso Orlandi, Mancini aveva messo le mani avanti: «Posso dire “tutti”. Ma non posso citare questo o quell’altro: perché? Perché quelli vivi mi smentiranno». Ma se abbiamo le prove per dimostrare le nostre affermazioni, devono essere gli altri a preoccuparsi, non noi. Quindi, perché non dirle?

«NULLA SO DIRETTAMENTE SULLA VICENDA ORLANDI»

Congedato Accattone, i magistrati vollero comunque andare a fondo sulla storia di Rufetto. E dalla Corte di Appello di Latina acquisirono alcune intercettazioni telefoniche con la voce di Libero Giulioli per confrontarla con quella del telefonista Mario. La comparazione dette esito negativo. Si rilevò infatti solo «un modesto grado di compatibilità fra le due voci, scarsamente significativo, limitato per lo più a eventi di similarità riferibili alla appartenenza delle voci a una stessa classe con elevata probabilità che le stesse appartengano a soggetti diversi». Una valutazione più che sufficiente affinché la Procura chiedesse l’archiviazione (2007), confermata successivamente dal GIP (2011). Chi fosse il Mario che chiamò casa Orlandi, ancora oggi è un mistero.

Nel frattempo, dicembre 2009, Mancini fu nuovamente convocato a piazzale Clodio. Testuale, ammise: «Nulla so direttamente sulla vicenda di Emanuela Orlandi». E in precedenza si era rifatto a voci che «davano per certa la circostanza». Ripeté poi di non sapere se il telefonista Mario fosse Rufetto, di cui sbagliò le generalità associandolo a un certo Libero Angelico, e rilanciò la tesi del ricatto economico: i testaccini, la componente della Banda alla quale apparteneva De Pedis, avrebbero sequestrato Orlandi per il mancato rientro di un prestito di denaro al Vaticano. Parole in rotta di collisione con quelle di Sabrina Minardi, cioè colei che aveva dato il via a quell’inchiesta con le sue affermazioni. Perché le finanze di Oltretevere erano in mano allo IOR (Istituto per le Opere Religiose) guidato al tempo dall’arcivescovo Paul Marcinkus.

Ma secondo la donna il monsignore un giorno sarebbe andato a Torvajanica e avrebbe abusato di Emanuela, nel frattempo segregata da Renatino nella casa dei genitori di lei. Uno scenario inverosimile: se lui avesse davvero sequestrato la giovane per ricattare lo IOR, perché mai Marcinkus avrebbe dovuto beneficiare dell’oggetto del sequestro di cui sarebbe stato il bersaglio? E se avesse compiuto quell’operazione come rivalsa verso la Santa Sede perché inadempiente agli accordi, com’è che questa avrebbe poi esaudito il suo desiderio di essere tumulato in S. Apollinare? Perché senza il decisivo nullaosta del cardinale Ugo Poletti, Vicario su Roma di Giovanni Paolo II, la salma di De Pedis non avrebbe mai riposato in quella basilica. Una sepoltura che oltretutto sarebbe stata concessa come ricompensa proprio per l’operazione Orlandi.

In poche parole, il Vaticano si sarebbe fatto ricattare da un boss della mala romana per una torbida storia di soldi. E poi gli avrebbe tributato un onore principesco come ricompensa per un crimine compiuto contro una sua cittadina. Un teorema nel quale non v’è traccia di logica e intelligenza. Utile soltanto ad ammassare, nella sua ennesima riproposizione mediatica, altro fumo verso i già nebulosi orizzonti dell’enigma di Emanuela Orlandi.