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Il Gattopardo vaticano: la scomparsa di Emanuela Orlandi (seconda parte)

Tommaso Nelli

Dal 22 giugno 1983 si sono succeduti tre Papi, sei Presidenti della Repubblica, ventisei governi e sedici presidenti del Consiglio. Ma per Emanuela Orlandi siamo rimasti fermi a quella sera su corso Rinascimento, pieno centro storico di Roma

Il nome della giovane flautista ritorna sotto i riflettori il 12 luglio 2005, quando alla redazione del programma televisivo Chi l’ha visto? arriva una telefonata anonima: «Riguardo al caso di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di S. Apollinare e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca…». In quei sotterranei era tumulato Enrico De Pedis, per gli amici «Renatino», uno dei boss della Banda della Magliana, la principale organizzazione criminale romana, attiva dalla seconda metà degli anni Settanta all’inizio dei Novanta. Prende il via la pista che vuole il malvagio sodalizio artefice del sequestro della ragazza. Per primo parla Antonio Mancini, detto «Accattone», collaboratore di giustizia ed ex appartenente alla Banda. Afferma come la voce del telefonista «Mario» sia di Libero Giuglioli, detto «Rufetto», da lui indicato come uno dei killer di fiducia di De Pedis. Ma le comparazioni dei periti effettuata il 5 giugno 2006 smentisce l’associazione, rilevando «un modesto grado di compatibilità fra le due voci, scarsamente significativo».

LE DICHIARAZIONI DI SABRINA MINARDI

Sabrina Minardi

Due anni dopo la pista però decolla. Grazie a Sabrina Minardi, trascorsi da commessa e da escort, amante per un breve periodo nella prima metà degli anni Ottanta di De Pedis (i due saranno arrestati il 26 novembre 1984 in un blitz della polizia in un appartamento di viale Vittorini nel quartiere dell’EUR). Racconta agli inquirenti che Emanuela Orlandi sarebbe stata sequestrata da De Pedis per un movente vagheggiato giusto nel primo colloquio, 4 giugno 2008, con l’allora procuratore aggiunto Italo Ormanni e il pubblico ministero Andrea De Gasperis: «Io la motivazione esatta non la so, però posso dire che con De Pedis conobbi monsignor Marcinkus. Lui era molto ammanicato con il Vaticano, però i motivi… Posso immaginarli che erano quelli di riciclare il denaro che Marcinkus, che allora mi sembra che era il Presidente dello IOR, però so’ ricordi così eh…».

Le sommarie e generiche parole di una signora purtroppo affetta da problemi di salute per l’eccessivo consumo di stupefacenti al punto da obbligarla al ricovero in una clinica specializzata, furono tramutate, tipo acqua in vino alle nozze di Cana, in un ricatto economico al Vaticano da parte della Banda della Magliana, che avrebbe rapito Emanuela Orlandi per la mancata restituzione di un’ingente somma di denaro prestata allo IOR, la banca del Vaticano con a capo Marcinkus. La Minardi rivendica anche un ruolo attivo nell’operazione con la consegna dell’ostaggio a un sacerdote e con la partecipazione alla distruzione del corpo, a suo dire chiuso in un sacco e gettato da De Pedis in una betoniera a Torvajanica a inizio 1984. Insieme a un altro sacco con il cadavere di un altro bambino, Domenico Nicitra, figlio di Salvatore, boss legato al giro della Magliana e operante nella borgata romana di Primavalle.

LE PAROLE DI «SERGIONE» DE TOMASI

I magistrati la prendono in parola e si mettono alla ricerca di riscontri. Ma non salta fuori niente. Nessuna traccia del dna di Emanuela Orlandi nei sotterranei della casa sulla Gianicolense dove, secondo la Minardi, sarebbe stata tenuta prigioniera per qualche tempo. Accompagnata a Torvajanica per l’individuazione del luogo della betoniera, la Minardi indica una zona che all’epoca era già stata edificata. Nelle successive audizioni in Procura (28 ottobre 2008, 18 novembre 2009, 18 marzo e 27 maggio 2010) cambia a più riprese la versione su chi avrebbe preso Emanuela all’uscita dalla scuola di musica e ne modifica anche la fine. Dopo la betoniera di Torvajanica la fa resuscitare per imbarcarla su un aereo diretto in un paese arabo e poi la fa nuovamente morire col suo corpo gettato in mare da un gommone al largo del litorale laziale. Infine, in una conversazione telefonica con la sorella del 2 marzo 2010, dice: «Ma che ne so… non lo sapemo se è morta o non c’è più». Addirittura fa mettere a verbale che, siccome la Orlandi sarebbe stata tenuta prigioniera anche in una casa di Torvajanica abitata da lei e De Pedis, un giorno vi si sarebbe recato Marcinkus che l’avrebbe costretta a un rapporto sessuale. D’accordo che questo è un Paese strano, ma non si è mai visto il destinatario di un ricatto diventare complice del ricattatore. Infine, si scopre che il piccolo Nicitra era stato vittima di lupara bianca, ma nel 1993. Quando De Pedis era già defunto da tre anni (2 febbraio 1990, via del Pellegrino, Roma). Nessuna meraviglia quindi nella lettura del decreto di archiviazione dell’inchiesta del 19 ottobre 2015: «Emergono dunque in tutta evidenza le contraddizioni e le inverosimiglianze che hanno caratterizzato le dichiarazioni della Minardi».

Nel frattempo i magistrati avevano anche aperto la tomba di De Pedis per verificare eventuali tracce di Emanuela Orlandi al suo interno. Una vox populi da «X-Files» perché dove sarebbe stato conservato il suo corpo visto che Renatino era morto nel 1990 e che prima di arrivare in S. Apollinare con un’operazione ancora oggi avvolta dal mistero era stato tumulato nel cimitero comunale del Verano? Il 15 maggio 2012 si prendeva atto di quanto già presupposto dalla logica: dentro al sarcofago nemmeno l’ombra di Emanuela Orlandi. È il capolinea della pista della Banda della Magliana, che perde progressivamente quota. Con lei anche le indagini, che però hanno trascurato un particolare molto interessante e molto più consistente delle dichiarazioni della Minardi: l’intercettazione ambientale a casa di Giuseppe De Tomasi, per gli amici «Sergione», pezzo da novanta del crimine capitolino e socio in affari con De Pedis, che alla moglie, alla fine dell’aprile 2010, disse: «Lo raccontava Renato… mica è ‘na barzelletta […] C’era solo “Il Principe” (Luciano Mancini, un altro del giro Magliana, nda). A Torvajanica so’ annati e l’hanno seppellita». Perché De Tomasi non è mai stato interrogato per queste parole? Mistero. Uno dei tanti.

LA VERSIONE DI MARCO FASSONI ACCETTI

Marco Fassoni Accetti

Dietro l’angolo intanto si profila la chiusura dell’inchiesta quando ecco irrompere sulla scena Marco Fassoni Accetti. Allora cinquantottenne, cineasta amatoriale romano, ottima famiglia alle spalle e una condanna per omicidio colposo a carico perché nel dicembre 1983 aveva ucciso, investendolo col suo furgone nella pineta di Castelporziano, Josè Garramon, dodicenne figlio di un diplomatico uruguagio. È la fine di marzo 2013 e da un paio di settimane il cardinale argentino José Bergoglio è asceso al soglio pontificio, quando il regista si materializza in Procura per raccontare che Emanuela Orlandi sarebbe stata sequestrata nell’ottica di una guerra di potere all’ombra del Cupolone tra due fazioni cardinalizie dalle opposte vedute sulla Ostpolitik, la politica di distensione della Santa Sede nei confronti dei Paesi dell’Europa dell’Est durante gli anni della guerra fredda. L’istrionico narratore afferma addirittura che la stessa Emanuela avrebbe acconsentito al suo sequestro, avvenuto per mano di Enrico De Pedis, che l’avrebbe caricata a bordo di una vettura su un punto di corso Rinascimento precedentemente contrassegnato con una «ics» bianca dallo stesso Accetti che, appostato in una via limitrofa, avrebbe ripreso la scena con una telecamera.

Non pago di un copione già ottimo per un corto di fantascienza, Accetti aggiunge altri particolari che lo rendono un kolossal. Lui ed Emanuela Orlandi, mascherata con una parrucca, avrebbero passeggiato più di una volta per le strade del Ghetto (quartiere centrale di Roma che ritorna nel caso Moro), disquisendo anche sulla realizzazione di un film sulla sua sparizione una volta terminato il sequestro. E per non tralasciare gli effetti speciali eccolo presentarsi in Procura con un flauto, sostenendo che fosse quello di Emanuela. Ma la perizia sullo strumento non rileva alcuna traccia di dna per una comparazione con quello precedentemente acquisito da alcuni indumenti della giovane.

5 MAGGIO 2015: LA PROCURA CHIEDE L’ARCHIVIAZIONE

Giuseppe Pignatone

A smontare la credibilità delle sue fluviali deposizioni, al di là del loro intrinseco surrealismo, la mancanza di riscontri oggettivi. Accetti non riesce a dimostrare dove Emanuela Orlandi sarebbe stata tenuta prigioniera, né quale sarebbe stata la sua sorte. Addirittura s’intesta la telefonata di «Mario» (28 giugno 1983), ma quando i magistrati gli sottopongono la trascrizione chiedendogli spiegazioni (18 aprile 2013), sembra lo studente impreparato al momento dell’interrogazione: esita, rimane stupito dalle domande, non sa da che parte cominciare. Poi, per uscire dall’imbarazzo, tenta un colpo indubbiamente coerente con la sua eccentricità: chiede di poter portare il testo a casa per poi inviare le risposte al pm tramite email l’indomani! I diretti interessati respingono l’ennesima stravaganza di un soggetto al quale hanno dato credito, ma che lui ha dimostrato di non saper meritare.

I mesi scorrono, ma non emergono più novità di rilievo e il 5 maggio 2015 la Procura chiede l’archiviazione. Il provvedimento è fonte di scontro tra l’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, che aveva avocato a sé l’inchiesta a inizio maggio 2012, e il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo che, insieme al pubblico ministero Simona Maisto, ha svolto gli interrogatori e predisposto ogni tipo di accertamento. Capaldo si oppone e non firma l’atto, siglato invece dalla collega e dalla dottoressa Ilaria Calò, il cui nome però mai compare fra gli atti dell’inchiesta. Il successivo 19 ottobre il Gip accoglie la richiesta e l’ingente documentazione finisce nuovamente tra la polvere e l’umido dei sotterranei di piazzale Clodio. Quasi tutti gli iscritti nel registro degli indagati – Sabrina Minardi, l’ex rettore della basilica di S. Apollinare don Piero Vergari e tre ex orbitanti il giro della Magliana (Angelo Cassani detto «Ciletto», Gianfranco Cerboni detto «Gigetto» e Sergio Virtù) – sono prosciolti. Stralciata invece la posizione di Marco Fassoni Accetti, oggetto di un procedimento per calunnia e autocalunnia poi archiviato all’indomani di una perizia psichiatrica che lo aveva definito «soggetto […] pienamente imputabile».

LE NUMEROSE ZONE D’OMBRA

A scrivere la parola «fine» sul caso Orlandi è comunque la Corte di Cassazione, che il 6 maggio 2016 rigetta le memorie oppositive dei famigliari. Un provvedimento amaro sul piano umano, ma inevitabile sul piano giuridico, perché le istanze chiedevano il riesame di elementi già vagliati. Se ne sarebbero invece dovuti presentare di nuovi, che sono sempre stati trascurati e che però rappresentano le numerose zone d’ombra dell’enigma di Emanuela Orlandi.

La prima, la più gigantesca, è la mancata individuazione della compagna della scuola di musica con lei fino agli ultimi istanti, conosciuta dalla famiglia fin dalla sera della scomparsa perché Natalina Orlandi, sorella maggiore di Emanuela, la mattina del 23 giugno 1983 ne parlò nella denuncia all’Ispettorato Generale di Pubblica Sicurezza presso il Vaticano: «Dalla mia abitazione mia sorella Federica ha telefonato a […] Casini Maria Grazia, la quale ha riferito di aver lasciata mia sorella, verso le 19,20, alla predetta fermata dell’autobus in compagnia di altra coetanea della quale non si conosce il nome». Come rivelato nel libro «Atto di Dolore», quella cantora dell’oblio fu identificata da suor Dolores, la direttrice dell’istituto, che ne predispose un confronto tra la stessa e Maria Grazia Casini (che però non ne ricordò il nome), ma non dagli inquirenti. Incredibile è dire poco. Su di lei esiste soltanto un ultimo appunto del SISMI datato 30 luglio 1983: «All’uopo il Reparto Operativo dei CC procederà a una ricognizione fotografica allo scopo di identificarla». Poi però più nulla. Perché?

Un’altra zona d’ombra è la mancata identificazione e/o audizione di tutti i contatti della rubrica telefonica di Emanuela Orlandi, nella quale compaiono nomi estranei ai suoi tre universi sociali (il gruppo delle amiche dell’ACR; la scuola superiore; la scuola di musica). Come una sua amica delle elementari e delle medie, scoperta da chi scrive, che ha raccontato come Emanuela, pochi mesi prima di svanire nel nulla, le avesse confidato di essere stata infastidita pesantemente da un ecclesiastico vicino a Wojtyla mentre passeggiava nei Giardini Vaticani. Altra lacuna da colmare è accertare la ragione delle 71 ore di assenze da scuola di Emanuela Orlandi nel secondo quadrimestre dell’anno scolastico al termine del quale scomparve, alle quali le stesse compagne di classe non riescono a dare una spiegazione concorde. Per non parlare poi, tra le altre, del numero esiguo delle allieve della «Da Victoria» interrogate o delle contraddizioni emerse nella ricostruzione del pomeriggio della scomparsa mentre Emanuela Orlandi andava a lezione di musica.

Se l’assenza di verità è dolorosa, lenirla non è impossibile. Serve però volerla, la verità, non averne paura e scegliere la giusta strategia per ottenerla. Perché il mistero comincia quando non si cerca come si deve. Dal 22 giugno 1983 si sono succeduti tre Papi, sei Presidenti della Repubblica, ventisei governi e sedici presidenti del Consiglio. Ma per Emanuela Orlandi siamo rimasti fermi a quella sera su corso Rinascimento, pieno centro storico di Roma. Dove oggi quell’infausta fermata del bus è stata spostata. Dove però c’è ancora un buco nero. Sempre più grande.

Tutto cambia perché nulla cambi.