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Omicidio De Pedis, la versione di Vittorio Carnovale

Matteo Picconi

«È stato ammazzato perché sennò ci ammazzava lui»

Nella storia della malavita ci sono tante «cronache di morti annunciate». Non conta se chi resta a terra è una pedina qualunque o un boss della criminalità organizzata. Il 2 febbraio del 1990 la notizia dell’agguato mortale ai danni di Enrico De Pedis non desta molta sorpresa a livello mediatico. Il caso della Magliana è un tema già molto caldo e le ricostruzioni dei quotidiani non sono molto lontane dalla realtà dei fatti: «Un’esecuzione spietata e feroce. L’agguato», si legge su un articolo pubblicato su La Repubblica il 4 marzo 1990, «segna il culmine della guerra tra le due bande in perenne conflitto nella Capitale: quella del Testaccio e quella ormai decimata della Magliana». Ma per capire esattamente le dinamiche che portano all’omicidio di Renatino si rimanda a qualche anno più tardi, quando entrano in scena i collaboratori di giustizia Maurizio Abbatino, Fabiola Moretti, Antonio Mancini e Vittorio Carnovale. È proprio quest’ultimo, il Coniglio, tra i principali artefici della vendetta contro il capo dei Testaccini, ad aver raccontato, non sempre in maniera coerente, i principali retroscena che portarono all’agguato di via del Pellegrino.

IL CONIGLIO, DALLA BATTERIA CON SELIS ALL’EVASIONE DAL TRIBUNALE DI ROMA

Foto segnaletica di Vittorio Carnovale, detto «il Coniglio»

Vittorio Carnovale nasce a Roma l’11 settembre del 1956 ed è uno dei veterani della Banda della Magliana. Intorno alla metà degli anni Settanta milita nella batteria di Acilia e Ostia guidata da Nicolino Selis. «Una banda raccogliticcia», come la definisce Abbatino nel ’92, dove operano Edoardo Toscano, Libero Mancone, Giuseppe Carnovale, detto il Tronco – fratello di Vittorio – Gianni Girlando e Fulvio Lucioli. In seguito al sodalizio tra il Crispino, Giuseppucci e il clan guidato da De Pedis e Danilo Abbruciati, il Coniglio, che all’anagrafe si chiama Carnevale (alterò il suo cognome durante un lungo periodo di latitanza), si ritaglia un ruolo di primo piano nel traffico degli stupefacenti controllando insieme al fratello le principali piazze dei quartieri che dividono Ostia e la Capitale. Legatissimo a Marcello Colafigli e al cognato Edoardo Toscano, sposato con sua sorella Antonietta, Carnovale risulta coinvolto in omicidi eccellenti, tra cui spicca quello del suo stesso ex capo Selis, ucciso presso la villa di Libero Mancone, da Abbatino e compagni, il 3 febbraio del 1981.

C’è un altro episodio, abbastanza noto, che riguarda Vittorio Carnovale: l’incredibile evasione dal tribunale di piazzale Clodio, avvenuta il 26 maggio 1986. Un episodio che, al di là delle surreali dinamiche in cui avviene, segna irreparabilmente le sorti dell’organizzazione, sempre più divisa al suo interno. Una prima spiegazione la fornisce proprio Carnovale in un interrogatorio del 1993: «Durante il processo Lucioli, successivamente all’evasione di Maurizio Abbatino, avvenne tra noi coimputati una discussione. In particolare, la discussione coinvolgeva le scelte processuali di Enrico De Pedis, al quale si contestava, specialmente da parte di Edoardo Toscano e di Antonio Mancini, la nomina dell’avv. Wilfredo Vitalone, ritenuto inadeguato alla bisogna, laddove le sue ampie disponibilità economiche gli avrebbero consentito di scegliersi difensori ben più qualificati». I rancori vanno ben oltre la scelta dei legali. Da qualche tempo i Testaccini conducono in proprio i loro affari, stringendo alleanze con altre organizzazioni criminali (in particolare con Pippo Calò, il cassiere di Cosa Nostra), senza coinvolgere il gruppo storico della Magliana. De Pedis, da parte sua, cerca di dirimere la questione con un colpo da biliardo: dopo l’udienza del 26 maggio uno degli imputati potrà lasciare il tribunale di Roma indisturbato. Il progetto d’evasione, però, non è rivolto a Carnovale bensì a Edoardo Toscano. L’Operaietto declina l’invito, convinto che una volta fuori De Pedis lo avrebbe fatto uccidere. Lascia che a uscire sia il cognato: i conti con Renatino li avrebbe saldati più avanti.

DE PEDIS INTOCCABILE, L’ELIMINAZIONE DI TOSCANO

L’Unità sull’omicidio di Edoardo Toscano

Tra gli esponenti della vecchia guardia della Banda della Magliana, Carnovale è tra gli ultimi a essere tratto in arresto, nell’aprile del 1993, dopo una lunga latitanza. Dopo aver scelto di collaborare con la giustizia, diviene testimone chiave in diversi processi di rilievo, tra cui quello riguardante l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, dov’è tra i primi a fare i nomi di Carminati e La Barbera come esecutori materiali dell’uccisione del fondatore di OP. Viene sentito come imputato anche per l’omicidio di Renatino, perlopiù travisando fatti e coinvolgendo personaggi estranei agli eventi. Ma è in un altro processo, quello riguardante Angelo Angelotti, che Vittorio Carnovale, esaminato come imputato di reato connesso, rivela con puntualità le dinamiche e i protagonisti dell’agguato avvenuto a due passi da Campo de’ Fiori. È il 28 novembre del 1995, 1° Sezione di Corte d’Assise del Tribunale di Roma. L’esordio con il PM De Gasperis non è certo dei migliori:

P.M.: La prima domanda è quella se lei è responsabile dell’omicidio di De Pedis Enrico.

V.C.: Si.

P.M.: Per questo fatto è già stato giudicato?

V.C.: No.

P.M.: Come no? Ha avuto un processo lei, per l’omicidio di De Pedis.

V.C.: Ah, si…

La seconda metà degli anni Ottanta segna la supremazia dei Testaccini negli affari, illeciti e non, della Capitale. De Pedis viene ormai soprannominato il Presidente: si è fatto molti amici influenti nel mondo dell’alta finanza, dei servizi segreti e del Vaticano ma, al contempo, qualche nemico tra le sue vecchie conoscenze. Nel 1989 Vittorio Carnovale, Libero Mancone ed Edoardo Toscano rappresentano l’unico fronte della vecchia Magliana, quella dei «perdenti» come titolano i giornali di quei giorni. È soprattutto l’Operaietto, scarcerato il 13 febbraio, ad alimentare propositi di vendetta nei confronti di Renatino; propositi identici, a detta di Carnovale, anche sul fronte opposto: «Durante un processo d’appello sempre del fatto della Magliana, un giorno Toscano e Mancone hanno visto Ciletto… s’erano un po’, diciamo, agitati, perché hanno avuto l’impressione che Ciletto veniva a vedé noi, pe’ farci ammazzà…».

Non tutti gli esponenti della vecchia banda condividono il loro desiderio di vendetta. De Pedis per molti è un intoccabile. Tra i contrari c’è per esempio Antonio Mancini, detenuto dal 1980 per i fatti di via di Donna Olimpia, che dal carcere continua a ricevere la «stecca» proprio grazie al boss dei Testaccini, così come Fabiola Moretti. Di fronte all’insistenza di Carnovale e Mancone, alla fine è proprio il Toscano a fare un passo indietro. Così la racconta il Coniglio nel processo Angelotti: «Litighiamo, io il Toscano e… Perché io insistevo per ammazzare De Pedis, io e Mancone. Non se ne fa niente. Edoardo il giorno dopo mi dice… stavamo un po’ a litigà, come insomma… chiaramente eravamo cognati e più che altro amici, mi dice che decideva di andà a parlare con loro, con Renato. Quando l’ho rincontrato io, mi disse che c’era stato, ma aveva incontrato solo i fratelli di queste persone, per cui pensava che quando gli veniva riferito ai fratelli, ragionavano un attimo, che non c’era da parte nostra nessuna intenzione di ammazzare nessuno. Invece, dopo due giorni, hanno ammazzato Edoardo».

Secondo le dichiarazioni di Fabiola Moretti, l’ordine di uccidere Toscano, freddato a Ostia il 16 marzo del 1989, viene impartito dal De Pedis proprio a Ciletto e Rufetto (rispettivamente Angelo Cassani e Libero Angelico). Con l’eliminazione dell’Operaietto, Carnovale e Mancone non sono più al sicuro, mentre l’ipotesi di una tregua con i Testaccini si fa sempre più remota. Si mettono loro stessi sulle tracce di De Pedis ma, come spiega lo stesso Carnovale al giudice Francesco Amato, con poca convinzione, «i primi giorni, quando è morto Edoardo, abbiamo pure cercato, così, di trovà Renato, ma era più ’na cosa istintiva che ragionata, perché chiaramente lui ci ammazzava, era più forte, diciamo… perché non so, c’aveva soldi, c’aveva appoggi, e quel periodo noi stavamo un po’ così». Ma non sono soli. Se da un lato il principale antagonista dei Testaccini, Abbatino, ha scelto da anni la via della latitanza rifugiandosi in Venezuela, un altro personaggio entra in gioco per vendicare l’Operaietto e chiudere definitivamente i conti col Presidente: è Marcello Colafigli, che il l’8 luglio del 1989, approfittando di un permesso premio, evade dal manicomio giudiziario di Reggio Emilia.

L’EVASIONE DI «MARCELLONE», LA MAGLIANA TORNA IN GIOCO

Foto segnaletica di Marcello Colafigli, detto «Marcellone»

Con Colafigli a piede libero si sposta leggermente l’ago della bilancia. Eppure Marcellone, il vendicatore di Giuseppucci, prende tempo: eliminare De Pedis non è un’operazione semplice. «Quando è uscito Colafigli», spiega Carnovale nel corso dell’udienza del 1995, «io so andato a prenderlo al manicomio, a Reggio Emilia, credo che era. Se ne parlò, ma così, perché non è che voleva… cioè Colafigli voleva capire un attimo, più che altro ero io che insistevo su questa cosa. Poi siamo stati in Grecia, anche perché lui era un po’ provato dal manicomio, insomma si vedeva che era un po’ abbattuto…».

Il viaggio con le rispettive famiglie in Grecia, servito più che altro per lasciare Roma ed eludere pedinamenti ed eventuali agguati dei killer assoldati da Renatino, non è l’unico in quella seconda metà del 1989. I tre veterani della Magliana mettono in piedi un nuovo giro di droga, principalmente eroina, al fine di raccogliere risorse e, soprattutto, stringere nuove alleanze. Negli anni trascorsi presso gli OPG di Aversa e Reggio Emilia, infatti, Colafigli ha fatto nuove conoscenze. Tra queste c’è Giuseppe Pino Marchese, affiliato ai corleonesi e cognato di Leoluca Bagarella. È proprio da Marchese che si recano Carnovale e Colafigli, a Palermo, per un rifornimento di eroina. Ed è in occasione di questo viaggio nel capoluogo siciliano (i due hanno ben tre incidenti stradali lungo il tragitto!) che il Marchese commissiona, per conto di Totò Riina, l’omicidio dell’allora capo del Servizio Centrale Operativo Gianni De Gennaro.

«Il Colafigli», dichiara lo stesso Marchese in un interrogatorio del luglio 1993 (ordinanza di rinvio a giudizio di Otello Lupacchini), «si impegnò a soddisfare la nostra richiesta promettendo che avrebbe provveduto all’eliminazione di De Gennaro attraverso la sua organizzazione romana. Trascorsero alcuni mesi, nel corso dei quali il Colafigli si faceva sentire per ribadire il suo impegno e per far presente che se ancora non aveva provveduto era soltanto perché era incasinato». Oltre che riluttante a mettere in atto tale omicidio, Marcellone in quei mesi ha ben altro a cui pensare. I «casini» di cui parla Pino altro non sono che la pianificazione dell’omicidio De Pedis.

Oltre a Carnovale, Mancone e Colafigli vale la pena menzionare gli altri personaggi che svolgono un ruolo chiave nell’agguato di via del Pellegrino. Innanzitutto ci sono i due toscani, Dante del Santo, detto il Cinghiale, e un tale Alessio Gozzani, uomini di fiducia del clan di Ludovico Tancredi, in quegli anni impegnato in una guerra contro il boss Carmelo Musumeci per il controllo del territorio in Versilia. «Sono dei ragazzi di Massa. Dante», spiega il Coniglio nell’esame del 1995 «credo che era amico di Marcello… erano stati rinchiusi insieme in manicomio, credo». I due si recano spesso nella Capitale per rifornirsi d’eroina ma vengono altresì coinvolti nel disegno omicida di Carnovale e compagni. L’altro personaggio è Antonio D’Inzillo, ex NAR, l’enfant prodige del crimine capitolino, che nel 1979, a soli sedici anni, partecipa insieme a Giusva Fioravanti e Sergio Calore al gruppo di fuoco che uccide per errore il giovane ventiquattrenne Antonio Leandri, scambiato per Giorgio Arcangeli, l’avvocato accusato da Ordine Nuovo di aver denunciato Pierluigi Concutelli per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio. Insomma, per l’eliminazione del capo dei Testaccini viene formato un commando composto da personaggi «esterni» al nucleo storico della banda ma, tuttavia, affidabili, in quanto non compromessi con gli affari di Renatino.

AVEVA TRADITO UNA VOLTA, POTEVA FARLO ANCORA

Foto segnaletica di Angelo Angelotti, detto «il Caprotto»

De Pedis non solo è intoccabile ma è introvabile. Per Colafigli e Carnovale l’unico sistema per avvicinarsi all’obiettivo è trovare qualcuno disposto ad aiutarli. La scelta verte su Enrico Nicoletti, l’ex cassiere della banda, uno che «faceva girare i soldi» per dirlo con le parole di Fabiola Moretti che, nella già citata ordinanza di Lupacchini, spiega: «Era un personaggio pulito, il quale poteva essere mandato alle aste, cosa che noi, ovviamente, non potevamo fare da soli. Inoltre era una persona comoda, cioè presentabile e con le conoscenze giuste». Già uomo di fiducia di Tiberio Cason, Nicoletti ormai «regge» e investe i soldi di Renatino, il quale invade sempre più il suo raggio d’azione. L’intuizione di Colafigli è che quel ruolo cominci a stargli stretto e, verso la fine del 1989, stabilisce con lui un contatto.

«Siccome era abbastanza difficile trovare De Pedis, allora noi facemmo capo a Nicoletti, o meglio, il Colafigli fece capo a Nicoletti… Ma Nicoletti, provò a mettere pace, non voleva che… almeno, quello che diceva, non voleva che succedesse una cosa del genere», racconta nel 1995 Vittorio Carnovale. Sembrerebbe che il cassiere resti fedele al suo boss e invece fornisce la chiave del problema, senza sporcarsi direttamente le mani. Riprendendo Carnovale: «Comunque Nicoletti, l’unica indicazione che ci ha dato, era che Angelotti vedeva quei giorni Renato, perché c’era una storia di oro, brillanti, non lo so, doveva comprare dell’oro, dei preziosi».

Angelo Angelotti, detto il Caprotto, attivo nelle periferie di Roma sud, era diventato ormai una delle tante pedine a disposizione dei Testaccini. Otto anni prima aveva portato «a dama» un suo vecchio amico di batteria, Massimo Barbieri, fatto uccidere poi da Abbruciati nella notte del 18 gennaio 1982. Aveva tradito una volta, poteva farlo ancora. Racconta ancora Carnovale: «Io andai dall’Angelotti, ma lui si rifiutò subito di aiutarci. Lui disse: “Non me mettete in mezzo a queste cose, perché io non ne voglio sapere” (…) poi, dopo un po’ di tempo ci riandammo, io e il Colafigli e lui acconsentì, anche di malavoglia, ma acconsentì… Ci disse quando avrebbe incontrato Renato». Secondo quanto dichiarato dal Carnovale, tale colloquio avviene circa una decina di giorni prima dell’agguato, siamo già a gennaio del 1990.

«TUTTO A POSTO!»

Il corpo senza vita di Enrico De Pedis, in via del Pellegrino

La mattina del 2 febbraio il gruppo è pronto a muoversi. Se per le armi provvede Libero Mancone, per i mezzi D’Inzillo e Carnovale hanno rubato pochi giorni prima due auto nella zona di viale Marconi. L’appuntamento è nel quartiere popolare di Tor Marancia, dove vive Sante Corsello, legato ai gruppi di Ostia, che l’anno seguente resta ucciso in un agguato sulla via del Mare mentre è alla guida di un’automobile in compagnia del Coniglio e di Emidio Salomone. Riprendendo Carnovale: «Ci vediamo a casa di Corsello perché vicino lì, c’avevamo appunto le macchine con le armi». La compagnia si dispone su due macchine e una moto, quella prevista per l’agguato nella strettissima via del centro storico: Alessio Gozzani e Giuseppe Carnovale, il Tronco, si posizionano più lontano, dall’altra parte di Ponte Mazzini (Regina Coeli); Carnovale, Colafigli e Mancone, invece, sostano all’inizio di via del Pellegrino, presumibilmente sullo slargo di vicolo della Moretta. In sella alla moto, guidata da Antonio D’Inzillo, ci sale Dante Del Santo.

«Io insistevo, perché volevo andare io ad ammazzare… perché il problema non era di Dante…. quelli là c’hanno fatto solo un favore. Comunque all’ultimo, quasi… si può dì all’ultimo momento, si decise che era meglio che ci andavano due persone che De Pedis non conosceva, perché bisognava rimanere qualche minuto su una strada dove arrivava De Pedis», spiega Carnovale, che sottolinea come tale suggerimento sia fornito proprio dal Caprotto, timoroso di un eventuale fallimento del piano che, in tal caso, avrebbe sancito la sua condanna a morte. «Angelotti», continua Carnovale, «disse che era meglio, effettivamente molto meglio, perché rimanendo fermi là, anche qualche minuto solo… a noi a Roma ci conoscono tutti, e poi in particolare, ci conosceva De Pedis…».

Stando alla ricostruzione di Carnovale, i vecchi boss della Magliana partecipano «a distanza». Ma questo comporta un problema: né il CinghialeAntonietto conoscono il De Pedis; in una via stretta e affollata come via del Pellegrino la probabilità di sbagliare bersaglio è molto alta. A tal problema pone rimedio proprio Angelotti che con Renatino ha un appuntamento: «C’era l’accordo che Angelotti gli avrebbe dato la mano, o un gesto affettuoso insomma… la mano o un bacio», racconta Carnovale al PM De Gasperis. Il resto è cronaca piuttosto nota. Dopo il saluto tra il Caprotto e De Pedis, quest’ultimo sale in sella al suo scooter ma, poco prima di partire, la moto con a bordo D’Inzillo e Del Santo gli si affianca. I quotidiani dell’epoca parlano di due colpi d’arma da fuoco. Carnovale, che seppur non presente riporta quanto raccontatogli dal Cinghiale, racconta invece di un solo colpo, in quanto la pistola di Del Santo, poi, si sarebbe inceppata. Questo spiegherebbe il fatto che, almeno nei primi istanti, il colpo non sia stato immediatamente mortale, con il De Pedis in grado di percorrere col suo scooter qualche decina di metri a zig zag prima di cadere al suolo agonizzante.

Tra il fuggi fuggi generale, Mancone, Carnovale e Colafigli capiscono che quantomeno ha avuto luogo l’agguato. Raggiungono gli altri due a Ponte Mazzini e lasciano il centro. L’appuntamento con D’Inzillo e Del Santo è ad Acilia, dove si liberano delle armi e dell’auto rubata. A quel punto la compagnia si divide e Carnovale e Colafigli lasciano Roma. Ed è nella sera dello stesso 2 febbraio che avviene un episodio molto curioso. I due fuggitivi decidono di fare una sosta ad Ancona prima di dirigersi a nord: non è una tappa strategica, si dirigono sotto al carcere di massima sicurezza dove è detenuto Antonio Mancini. È sempre Carnovale a raccontare: «Già era successo che andavamo, si andava, sotto le finestre del carcere, a salutà. Lui a quell’ora aveva sentito già sicuramente il telegiornale. Insomma, con poche parole si è capito che… ci siamo capiti insomma, il fatto era successo… non ricordo bene quello che siamo detti… “Tutto a posto!”…».

Si rincontrano tutti a Venezia, presso un hotel in periferia. A raggiungerli è lo stesso Angelotti che si ferma una notte per poi tornare nella Capitale. Le loro strade poi si dividono nuovamente. Vengono fermati alla frontiera con l’Austria, D’Inzillo viene trattenuto, per poi essere nuovamente fermato in Olanda, di lui poi si perderanno le tracce nella seconda metà degli anni Novanta: muore in circostante misteriose in Kenia nel 2008. Del Santo e Gozzani muoiono pochi mesi dopo, il primo ucciso in un autogrill dagli uomini del clan rivale di Musumeci. Colafigli viene arrestato nel luglio dell’anno seguente a due passi da casa sua, nel quartiere San Paolo, in compagnia di un altro ex NAR, Fausto Busato. Il Coniglio, come già detto, viene tratto in arresto solo nella primavera del 1993; pochi mesi dopo diviene collaboratore di giustizia.

«SAPEVA TANTE COSE»

Maurizio Abbatino negli anni Novanta

«Voglio fà ’na premessa, anche se non dovrei dirlo, io non so’ contento de questo passo, de questa cosa che ho fatto, va bene? Non me sento bene, sto a collaborà, ma so che ho fatto ’no sbaglio. Io so che questo me costerà pure qualcosa, ma insomma…». Con questa premessa Carnovale spiega a De Gasperis la sua situazione in qualità di pentito. Soprattutto, nel corso dell’udienza risponde alle numerose contestazioni circa la ricostruzione dei fatti in merito all’agguato di via del Pellegrino. Nel corso del processo De Pedis, infatti, la sua versione è differente: mette in mezzo altri personaggi, tra cui un certo Gaetano Sideri, e non nomina né i toscani di Massa, né D’Inzillo.

«Non ritenevo da metterli in mezzo perché erano del tutto estranei al fatto, quello era un problema nostro, di noi insomma, mio, de Colafigli e de qualcun altro», si giustifica il Carnovale, ma il PM De Gasperis insiste su un altro punto, ovvero che il Coniglio tema la reazione di D’Inzillo, ritenuto pericoloso e imprevedibile, per giunta latitante. Carnovale sembra confermare tale intuizione: «D’Inzillo è uno sbalestrato… un po’ incosciente… Voglio dì, anche io ho ammazzato delle persone, però c’ho dei limiti, anche se è assurdo, no? Non vado a ammazzà né bambini, né donne, né cose del genere… secondo me, D’Inzillo non ci avrebbe pensato due volte, pure a ammazzà un familiare, voglio dì, una donna».

Sulla morte di De Pedis aleggia ancora un alone di mistero. Se grazie ai pentiti si è riusciti a ricostruire la dinamica dei fatti, e a risalire sia ai mandanti che agli esecutori materiali, resta ancora da chiarire come mai un uomo potente come il capo dei Testaccini non sia stato protetto, o prontamente avvertito di quell’agguato. In «La verità del Freddo» della giornalista Raffaella Fanelli, Abbatino sostiene che ai vertici della magistratura fossero al corrente dell’imminente piano omicida di Carnovale e Colafigli e riguardo al De Pedis precisa: «Sapeva tante cose. Così come Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati. Sono stati eliminati da chi non voleva (e non vuole ancora) testimoni».

La Fanelli stessa, nel corso del libro-intervista, rafforza la tesi del Crispino secondo la quale l’omicidio di Renatino non sarebbe stato per niente ostacolato: «Il delitto de Pedis viene ricostruito anche dall’Alto commissariato per il coordinamento alla lotta contro la delinquenza mafiosa. Nella relazione vengono segnalati pedinamenti precedenti e successivi, con particolari sulla preparazione dell’agguato. Viene indicata anche la città in cui si rifugiarono i killer, fino alla loro cattura all’estero. Insomma, si sapeva. Sapevano che De Pedis sarebbe stato ucciso».