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Enrico De Pedis: misfatti e misteri di un intoccabile

Tommaso Nelli

Quella di «Renatino» è una storia all’insegna di arresti, detenzioni e assoluzioni inaspettate; di rapporti con principi del foro, uomini dei Servizi, neofascisti, mafiosi e prelati più o meno alti

«Anvedi questi due. Anche senza targa!». Non appena sentì queste parole da un passante di via del Pellegrino – centro storico di Roma – la dottoressa Ersilia Calvanese, giovane magistrata e prossima mamma, distolse lo sguardo dai suoi pensieri per indirizzarlo verso una motocicletta che, a velocità sostenuta, procedeva verso il vicino vicolo della Moretta. A bordo, due uomini. Senza casco. Ma a calamitare la sua attenzione, all’ora di pranzo di quel venerdì 2 febbraio 1990 dal cielo d’alluminio, fu ben altro. E cioè una pistola. Nera, lucida, a canna lunga e ben stretta nella mano sinistra dell’uomo seduto dietro il guidatore.

Aveva sparato da pochi secondi. Un colpo solo, calibro 38 come accertarono le perizie. Più che sufficiente per atterrare esanime, sotto il peso del suo scooter (un Honda Vision bianco), un uomo. Ben vestito, occhiali da sole Cartier, Rolex Daytona al polso e mezzo milione di lire nel portafoglio. Che un agente di polizia estrasse per leggerne le generalità: Enrico De Pedis. Per tutti, Renatino. Ma soprattutto, come disse Paolo Frajese nella edizione del TG1, «il capo della cosiddetta Banda della Magliana». Cioè l’organizzazione criminale più potente di Roma.

LE ORIGINI DI «RENATINO» E QUALCHE DOMANDA

In realtà sarebbe stato più preciso parlare di Banda del Testaccio. Il rione dove germogliò la storia di De Pedis. All’insegna del malaffare e di rapide scalate economiche; di arresti, detenzioni e assoluzioni inaspettate; di rapporti con principi del foro, uomini dei Servizi, neofascisti, mafiosi e prelati più o meno alti. Una morte non certo digiuna di interrogativi, una sepoltura principesca e il coinvolgimento in enigmi italo-vaticani completano il ritratto di un personaggio che fiction, film e il giornasensazionalismo hanno molto romanzato e molto poco chiarificato. Perché se si guardano i fatti scevri da finalità suggestive, ci troviamo al cospetto di un intoccabile del crimine della Roma degli anni Ottanta. Dalla vita densa di misteri.

A cominciare dal nome. Meglio, dal soprannome: Renatino. Un appellativo strano. Perché l’abitudine romana di affibbiare nomignoli è di solito vezzeggiativa – uno dei suoi sodali, Paolo Frau, era Paoletto – oppure ironica se non derisiva. Basti pensare a un altro suo fedelissimo, Raffaele Pernasetti, che per la sua familiarità con la tavola divenne Er Palletta. Antonio Mancini, invece, Accattone per l’espressione del viso che ricordava il protagonista del film di pasoliniana memoria. Maurizio Abbatino lo chiamavano Crispino per i folti capelli ricci. Dunque, perché Renatino? Da dove arrivava?

Anche le sue origini inducono qualche domanda. Nato a Roma il 15 maggio 1954, De Pedis crebbe nel rione Trastevere. Fabiola Moretti, sua amica d’infanzia nonché pluripregiudicata e compagna per un periodo di Danilo Abbruciati, raccontò che da piccoli andavano a caccia di vipere al Gianicolo per rivenderne il veleno in farmacia e ricavare qualche soldo. Sennonché quando iniziò a delinquere – il 29 settembre 1973 fu arrestato per furto aggravato insieme a Er Bavosetto, al secolo Mariano CastellaniRenatino risultava già residente in piazza Certaldo, alla Magliana. Una zona dove finirono molte famiglie sfrattate in quegli anni da Testaccio e Trastevere. Ma a destare più interesse è il padre che, secondo una verifica anagrafica al Comune di Roma durante le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, avrebbe risieduto fin dalla nascita nel quartiere Aurelio. Mentre per il Corriere della Sera, quando nel 1977 ne raccontò l’arresto come membro della Banda della lancia termica, avrebbe abitato in via Tirso, quartiere Salario, e sarebbe stato addirittura proprietario di un attico dietro via Po. Tutti luoghi dal tenore socioeconomico ben diverso dalla Magliana. Ma allora, perché risiederci?

UN «VIZIO», CON UN NOME E COGNOME: SABRINA MINARDI

Chiara invece la partecipazione di De Pedis alla rapina, con tanto di sparatoria, alla filiale della B.N.L. di via Tiburtina il 20 maggio 1974 insieme ad Alessandro D’Ortenzi, per gli amici Zanzarone, furfante con mai nascoste simpatie nazifasciste. Un’azione che a Renatino valse un soggiorno a sbarre fino alla seconda metà del 1978. Dove però non perse la predisposizione all’illecito. Perché una volta ritornato a piede libero, si unì alle batterie della Magliana, del Trullo, di Ostia e di Acilia che formarono l’associazione per delinquere passata alla storia come Banda della Magliana. Attività principale? Lo spaccio della droga. Renatino si prese Testaccio e Trastevere. Con lui, tra gli altri, oltre ai già citati Pernasetti e Frau, Ettore Maragnoli, Giorgio Paradisi e, in appoggio esterno, Er Camaleonte Abbruciati, battitore libero nell’agone malavitoso capitolino nonché cerniera con la mafia ed elementi deviati dei Servizi.

In breve tempo De Pedis moltiplicò guadagni e potere. E si dette alla latitanza. Tanto da risultare più volte irreperibile alle forze dell’ordine che, tra l’aprile 1983 e il settembre 1984, andarono nella sua abitazione alla Magliana per arrestarlo come disposto dai mandati di cattura dell’allora giudice istruttore del Tribunale di Roma, Guido Catenacci. Uno dei titolari di un’inchiesta giudiziaria che assemblando una lunga serie di episodi criminosi – delitti, tentati omicidi, traffico di stupefacenti, detenzione illegale di armi (basti pensare al famigerato deposito negli scantinati del Ministero della Sanità), furti, rapine, ricettazione, ecc. – dette vita al primo processo alla Banda, che approdò in aula grazie soprattutto alla collaborazione di uno dei suoi membri, Er Sorcio Fulvio Lucioli.

Ma, come canterà anni dopo Francesco De Gregori, «un bravo poliziotto che sa fare il suo mestiere, sa che ogni uomo ha un vizio che lo farà cadere». E quello di Renatino aveva un nome ben preciso. Anzi, un nome e un cognome: Sabrina Minardi. Una fascinosa ventenne trasteverina già separata dal marito, l’allora centravanti della Lazio Bruno Giordano, che aveva intrapreso la professione più antica del mondo. Dall’intercettazione di alcune sue conversazioni nell’autunno del 1984, la Squadra Mobile apprese della sua relazione sentimentale con un uomo che la chiamava dagli apparecchi pubblici presentandosi come Renato e «alludendo, il più delle volte, alla sua mancanza di libertà e al fatto di essere costretto a vivere in naftalina». Cioè in clandestinità. Ma palesarsi al telefono col soprannome per il quale era noto in questura e in mezzo alla strada, non fu una mossa astuta. Perché gli inquirenti pedinarono la donna e scoprirono la sua meta: un condominio al civico 103 di via Vittorini, quartiere EUR. Dove irruppero all’ora di pranzo del 26 novembre, arrestando entrambi. Lei, indiziata di favoreggiamento, ricevette subito i domiciliari per poi essere definitivamente scarcerata nel febbraio 1985. Lui invece, trovato in possesso di una patente contraffatta, finì prima dietro le sbarre rimanendo in isolamento per un paio di mesi. Poi fu rinviato a giudizio. Non si presentò mai in aula e l’8 maggio 1987, per falso e ricettazione, fu condannato in primo grado a otto mesi di reclusione. Al pari di altri due imputati, Terenzio Vanni e Cesare Tanfanelli, colpevoli di avergli procurato quell’appartamento adibito a garçonniere e il fasullo documento di riconoscimento. Costoro in secondo grado (27 settembre 1993) beneficiarono della prescrizione, mentre per De Pedis si ratificò l’estinzione del reato. Motivo? Il suo decesso.

LA SCALATA SOCIALE E UN POTERE ORMAI ACQUISITO

Già perché il verdetto fu successivo a quel 2 febbraio a via del Pellegrino, a sua volta giunto dopo un’altra sentenza. Molto discussa. Quella di primo grado della Corte di Assise del Tribunale di Roma che nel gennaio 1988 aveva assolto Renatino anche dalle accuse del «processo Speranza». Nato nel 1985 dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Massimo Speranza, vide il ritorno alla sbarra della Banda della Magliana con i pubblici ministeri che per De Pedis, già uscito indenne dal «processo Lucioli», avevano chiesto l’ergastolo. L’esito di opposto tenore lasciò nuovamente increduli e sconcertati, ma fu la cartina tornasole di una scalata sociale e un potere ormai acquisito. Così forte e ramificato da permettere a De Pedis perizie mediche, che lo volevano vittima di un tumore, rivelatesi poi fasulle a seguito della ispezione necroscopica disposta dopo il decesso: «Del resto le condizioni di nutrizione (peso Kg. 98) del cadavere e la conformazione delle masse muscolari del medesimo, mal si sarebbero conciliate con una patologia neoplastica e specialmente con quella di un carcinoma epidermoidale metastatizzato che sarebbe stato diagnosticato da alcuni anni». Oppure di essere in grado di organizzare la fuga, durante le udienze, di uno dei suoi sodali con la complicità di alcuni agenti delle forze dell’ordine e non solo (ne beneficiò Vittorio Carnovale, Er Coniglio, dopo il rifiuto di Edoardo Toscano, l’Operaietto, che ci lesse una trappola ai suoi danni). Ma soprattutto la forza economica consentiva a Renatino di avvalersi dei migliori avvocati della Capitale. C’erano i loro nomi, e probabilmente non soltanto quelli, nell’agendina che gli sequestrarono a via Vittorini. L’allora pubblico ministero Andrea De Gasperis ne dispose subito il fermo, ma De Pedis, all’indomani della sua assoluzione, vide accolta la sua richiesta di restituzione.

Fra i suoi legali, come ricordò lo stesso Carnovale nell’udienza del 29 ottobre 1993, c’era anche Wilfredo Vitalone. Fratello di Claudio, prima magistrato (indagò sul golpe Borghese) e poi tra i politici democristiani più vicini a Giulio Andreotti. Che era capo del governo quando ricevette il sollecito a spendersi per due polacchi trovati a lavorare senza le necessarie autorizzazioni nel ristorante dei fratelli di Renatino, a Trastevere. «Onorevole, le invio copia della documentazione di cui Le scrissi a suo tempo, con preghiera di trovare il modo di intervenire positivamente, senza che le cose ricevano riflessi dannosi per il signor De Pedis, bravo uomo che per aiutarmi ha accolto i due polacchi nel suo ristorante». Era il 1989. A stretto giro Andreotti rispose che se ne sarebbe interessato «nei limiti del possibile». Dopodiché la pratica passò nelle mani di Vitalone, al tempo Sottosegretario agli Affari Esteri, che però riferì come non ci fosse niente da fare: «Gli organi di Polizia, purtroppo, avendo già trasmesso il relativo verbale non hanno potuto dare alla pratica l’esito desiderato».

Ma questa non va letta soltanto come una breve e italica storia di tentata raccomandazione. Perché, sempre quell’anno, una nota della Squadra Mobile di Roma, riprodotta nel nostro libro Atto di Dolore, aveva descritto De Pedis come soggetto dalle «[…] attività criminali molteplici, essendo i suoi ‘interessi’ rivolti in diverse direzioni, ma la sua attenzione è incentrata sul traffico di droga, che gestisce con maestria non comune […]. La sua riconosciuta abilità fa sì che lo stesso venga contattato dalla mafia siciliana che lo ritiene all’altezza di rappresentarla nel traffico di droga dalla Sicilia a Roma».

Per cui viene da domandarsi: ma come poteva la famiglia del referente di Cosa Nostra nella Capitale per lo spaccio degli stupefacenti avere contatti con Palazzo Chigi? La risposta è nel mittente del sollecito poc’anzi citato. Grazie alla Chiesa. Perché a perorare quella causa fu don Piero Vergari, all’epoca rettore della basilica di S. Apollinare

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