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Il passaggio dall’università di élite a quella di massa

Redazione Spazio70

P.Ginsborg, «Storia d'Italia dal dopoguerra a oggi», Einaudi, 1989, pag. 405

«Le basi materiali dell’esplosione della protesta nelle università italiane devono essere rintracciate nelle riforme scolastiche degli anni Sessanta. Con l’introduzione della scuola media dell’obbligo – estesa fino ai 14 anni nel 1962 – per la prima volta si era creato un sistema d’istruzione di massa oltre la scuola primaria. Esso mostrava gravi lacune, ma aprì nuovi orizzonti a migliaia di ragazzi dei ceti medi e della classe operaia. Molti di loro decisero di continuare gli studi fino all’università. Alcuni provvedimenti legislativi presi durante gli anni Sessanta avevano reso più concreta questa possibilità: nel 1961, per esempio, l’accesso alle facoltà scientifiche era stato aperto anche agli studenti provenienti dagli istituti tecnici. Nell’anno accademico 1967-68, gli studenti universitari erano già 500 mila contro i 268 mila del 1960-61. Nello stesso periodo si era raddoppiato il numero delle studentesse, le quali rappresentavano, però, nel 1968, ancora meno di un terzo dei nuovi iscritti.

«LA LIBERALIZZAZIONE DELL’ACCESSO ALL’UNIVERSITÀ COME UNA BOMBA A OROLOGERIA»

Questa nuova generazione di universitari entrò in un sistema che era già in stato avanzato di disfunzione. L’ultima seria riforma universitaria risaliva al 1923 e da allora si era fatto ben poco per rispondere ai bisogni di un numero quasi decuplicato di studenti. Nel 1968 le università di Roma, Napoli e Bari avevano rispettivamente 60 mila, 50 mila e 30 mila studenti, mentre ognuna era stata costruita per accogliere poco più di cinquemila studenti.

Vi erano pochi insegnanti universitari e, peggio ancora, quasi tutti solo raramente erano presenti in facoltà: il loro obbligo lavorativo ammontava a sole 52 ore di lezione all’anno, dopodiché erano liberi di fare quello che volevano. La situazione era leggermente migliore per le facoltà scientifiche, ma anche lì la maggior parte dei piani di studio era rimasta immutata da anni. 


Quasi tutti gli esami erano orali, con un livello alto, di valutazione soggettiva e non controllata. La decisione di liberalizzare l’accesso a un sistema universitario così pesantemente inadeguato significò semplicemente immettere in esso una bomba a orologeria. La condizione dei cosiddetti “studenti lavoratori”, poi, era particolarmente intollerabile. Lo Stato non dava alcun sussidio, tranne qualche borsa di studio ai più meritevoli. I genitori benestanti mantenevano i loro figli che frequentavano l’università, ma nel 1968 più della metà degli studenti doveva lavorare per poter continuare gli studi. Alcuni trovavano supplenza nelle scuole, altri facevano i commessi o le baby-sitter, oppure lavoravano nei bar e nei ristoranti. Per loro era quindi quasi impossibile frequentare le lezioni con una certa continuità e in assenza di altri tipi di insegnamento erano costretti a studiare a casa sui libri di testo. Non bisogna meravigliarsi se il numero degli studenti lavoratori che non superavano gli esami orali fosse particolarmente alto. Essere bocciati non significava però dover lasciare l’università, visto che non esisteva un limite di tempo entro cui lo studente doveva laurearsi. Interveniva comunque un processo di demoralizzazione e molti erano coloro che si ritiravano.

Nel 1966, l’81 per cento di quanti avevano un diploma di scuola media superiore entrava all’università e solo il 44 per cento riusciva a laurearsi. Il sistema educativo operava quindi una forma di selezione di tipo classista: l’università era sì formalmente aperta a tutti, ma le probabilità che gli studenti più poveri riuscissero a ottenere la laurea erano esigue».