logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Giovanni Fiorillo detto Tzigano, il «killer dell’Olimpico»

Matteo Picconi

«Sono disgraziato anch'io che continuo a vivere con questo peso sulla coscienza»

È il 30 ottobre 1979, sono passate quasi quarantotto ore dalla tragedia che ha avvolto lo stadio Olimpico in occasione del derby capitolino quando, a sorpresa, su tutti i giornali viene annunciato il nome del presunto omicida, ovvero colui che ha esploso il razzo che è costato fatalmente la vita a Vincenzo Paparelli, giovane meccanico e padre di famiglia: è Giovanni Fiorillo, diciotto anni, conosciuto nella Curva Sud col soprannome di Tzigano.

Quarantotto ore, all’incirca, quelle che occorrono agli investigatori per passare al setaccio un ambiente e una realtà, quella degli ultras, da pochi anni entrata prepotentemente nel mondo del tifo organizzato (tanto a Roma quanto in altre città italiane, soprattutto al Nord) sotto la veste di una nuova sottocultura giovanile capace di rivoluzionare il modo di stare allo stadio: cori, striscioni, coreografie, tamburi, forte senso di appartenenza, ma anche rivalità, violenza, posizioni antagoniste. Un nuovo fenomeno generazionale, insomma, perfettamente in linea col clima turbolento dell’ultimo scorcio degli anni Settanta. All’indomani di quel 28 ottobre 1979, infatti, i principali quotidiani nazionali condannano senza mezzi termini le giovani tifoserie organizzate, ponendo l’accento sulla dilagante violenza che da qualche anno accompagna le manifestazioni calcistiche. Non solo Roma in quella drammatica domenica autunnale: a Milano si sono verificati scontri in occasione del derby della Madonnina; a Brescia i tifosi del Como sparano razzi in direzione dei tifosi avversari; tafferugli anche tra le tifoserie di Ascoli e Bologna. Roma, però, ha toccato il fondo, e il giacchetto di Paparelli, disteso sui gradoni della curva Nord, diviene il simbolo di un punto di non ritorno: è il primo morto per mano di un altro tifoso, una storia che, purtroppo, tornerà a ripetersi.

«MORTE ALL’OLIMPICO», LE PRIME INDAGINI

Curva Nord, il luogo dove fu colpito mortalmente Paparelli

Quarantotto ore, dunque, e il nome e il volto di Tzigano è su tutte le prime pagine. Ovunque, dal Corriere della Sera al Messaggero, si legge più o meno lo stesso titolo: «Morte all’Olimpico» e cominciano a prendere forma le prime ricostruzioni dei fatti. A uccidere il trentatreenne tifoso biancoceleste è stato un razzo esploso per mezzo di una pistola lanciarazzi antigrandine (di quelle in dotazione alla Marina militare) che ha raggiunto in pieno viso Paparelli, proprio sotto gli occhi di sua moglie, causandone la morte pochi minuti dopo. Il colpo viene esploso intorno alle 13 e 25 dalla curva Sud; pochi minuti prima i tifosi laziali avevano esposto alcuni striscioni provocatori come «Rocca bavoso, i morti non risuscitano» e «Olocausto giallorosso». Non certo semplici messaggi di sfottò, sicuramente di cattivo gusto, che tuttavia non possono essere considerati la causa di quanto accade pochi minuti dopo.

Mentre i riflettori si concentrano sul gruppo trascinatore della curva giallorossa, il Commando Ultrà Curva Sud (anche detto CUCS), nato nel 1977 con l’intento di unire sotto un’unica sigla tutte le frange più calde della tifoseria, spuntano i nomi di tre possibili responsabili della morte del tifoso laziale. Sono giovanissimi: Enrico Marcioni, diciassettenne, viene tratto subito in arresto, mentre Giovanni Fiorillo, appena maggiorenne, e Marco Angelini, vent’anni, si rendono irreperibili. Ma è proprio sullo Tzigano che i media concentrano la maggiore attenzione, considerato (secondo le prime testimonianze raccolte tra decine di tifosi) l’esecutore materiale del gesto omicida.

«Si chiama Giovanni Fiorillo», si legge sul Corriere della Sera nell’edizione del 30 ottobre 1979, «e abita in piazza Vittorio 144. Il nome di quest’ultimo è già noto agli archivi della questura. Nel settembre del ’75 fu arrestato per furto aggravato; nell’ottobre del ’76 finì in carcere per scippo; nel maggio di quest’anno fu fermato, nei pressi di Milano, mentre si trovava in compagnia di alcuni extraparlamentari di sinistra».

Quanto viene riportato a caldo dalle cronache basta a tracciare la figura del ricercato, ormai ribattezzato il «killer dell’Olimpico», braccato dalla polizia di tutta la Penisola con l’accusa di omicidio sulle spalle. La sua latitanza, che terminerà dopo oltre un anno, costituisce per mesi l’elemento centrale della vicenda, mentre la repressione negli stadi si abbatte senza mezze misure su tutto il movimento ultras non solo di fede giallorossa.

«CACCIA AL KILLER», PROFILO DI UN LATITANTE

Fiorillo sulla prima pagina del Corriere della Sera

«È un ragazzo, è un bambinone», sono le parole di Giacomo Fiorillo, il padre del latitante, in un’intervista pubblicata da L’Unità il 30 marzo 1979, «con la passione delle mode e dello sport, come tanti: di politica non si occupa, anzi non ne capisce proprio nulla».

Fiorillo padre è un ambulante tutto fare, conosciuto e rispettato da tutti gli abitanti di una ancora popolarissima Piazza Vittorio, nel rione Esquilino. Anche il figlio lo conoscono tutti, un residente ne traccia un breve profilo all’inviato del Corriere della Sera: «Un tipo al quale piace vestire alla moda dei giovani d’oggi, con un orecchino al lobo sinistro, capelli lunghi spettinati, l’aria un po’ spavalda».

Tzigano ha mollato la scuola, ha la licenza media e lavora fin da giovanissimo. Imbianchino, idraulico, commesso; secondo quanto racconta il padre la vita del figlio si divide tra i lavori occasionali e la sua grande passione per la Roma. La sera del 28 ottobre Fiorillo non torna a casa e per telefono avverte i suoi genitori di volersi recare a Pescara per lavorare. «No. Non è vero che sia scappato», dichiara il padre nel già citato articolo de L’Unità, «altre volte è andato così, all’improvviso. Per guadagnare qualche soldo in più».

Una difesa disperata, di una famiglia sconvolta. Sulla colpevolezza di Fiorillo gravano innanzitutto la sua fuga e le presunte ammissioni di Marcioni, nonché le dichiarazioni di altri tifosi presenti sulle gradinate al momento dello sparo. Il Corriere della Sera il 1° novembre pubblica una testimonianza di un tifoso, senza però riportarne l’identità: «Quando lo Tzigano ha sparato il primo razzo erano in molti a incitarlo (…). In mezzo, a pochi metri, c’erano anche quelli con la fascia rossa al braccio, che Tzigano lo conoscevano molto bene. Nessuno gli ha detto niente, né quando stava montando il bazooka, e gli ci è voluto più di un quarto d’ora, né dopo che ha sparato».

Lavori saltuari, qualche precedente penale e una vera e propria mania per i colori giallorossi. Fiorillo non è un tifoso qualunque, ma è vicino a quello che poi negli anni diverrà il nucleo storico del CUCS. Ne costituisce una prova l’intervista rilasciata al Messaggero nel marzo dello stesso 1979 insieme a un altro personaggio storico della curva, ovvero Giuseppe Pucci, meglio conosciuto come Geppo, grande trascinatore del neonato Commando. L’intervista, realizzata alla vigilia di un altro derby del campionato precedente, non venne pubblicata per i toni troppo accesi e provocatori, ma viene prontamente riproposta dal giornale di via del Tritone il 31 marzo, non appena il nome di Fiorillo è apparso su tutte le testate nazionali.

«Coi laziali non servono bastoni, le pistole o i pugni di ferro. Quelli se cacano sotto! So’ tutti fascisti, fanno bu bu e poi scappano», oppure, «so’ venuti allo stadio co’ li striscioni “Romanisti farete tutti la fine di Taccola”, Gesù Cristo l’ha puniti con Re Cecconi». Dichiarazioni forti (non è dato sapere quanto siano state «adattate» allo scoop del momento) attribuite al solo Fiorillo, principale interlocutore di un’intervista che comunque rende bene l’idea della carica esplosiva che accompagnava ogni stracittadina alla fine degli anni Settanta.

«NON HO SANTI IN PARADISO», FIORILLO SI COSTITUISCE

Lo Tzigano durante la latitanza in Svizzera

Le ricerche condotte dalle forze dell’ordine, tanto nella cittadina abruzzese quanto nella Capitale, non portano ad alcun esito. Come poi ha raccontato in diverse interviste, Fiorillo, con appena duecentomila lire in tasca, prende alla disperata la fuga in direzione del Nord Italia. Prima a Bergamo, poi varca il confine con la Svizzera. La sua è una latitanza misteriosa, non è mai stato chiarito se il giovane ultras abbia beneficiato di appoggi e aiuti economici oppure, come ha sempre dichiarato, abbia invece vissuto di espedienti. Probabilmente è dalla Svizzera che scrive alcune lettere ai giornali. La prima viene pubblicata dal Corriere della Sera il 7 novembre, esattamente dieci giorni dopo la tragedia dell’Olimpico. Si dichiara estraneo ai fatti e, nella conclusione, descrive le difficoltà fino a quel momento vissute nel corso della sua latitanza: «Lontano da tutti, scacciato, braccato come un criminale, la mia vita mi sta mostrando un suo nuovo volto. Evitare di mostrarti in pubblico, non parlare con nessuno, dormire dove capita, mangiare quel che si trova, è un’esperienza che non auguro neppure a un laziale».

Mentre si cerca Fiorillo le indagini vanno avanti. Nel mirino degli inquirenti finiscono non solo alcuni esponenti del CUCS, ma anche alcuni appartenenti a club giallorossi, impiegati del CONI e della stessa società sportiva Roma, inizialmente sospettati di coprire o appoggiare logisticamente azioni illecite dei propri supporters. Viene inoltre processato in direttissima l’armiere accusato di aver procurato a Fiorillo e Angelini la pistola lanciarazzi utilizzata il 28 ottobre. Trattasi di Romolo Piccionetti, titolare dell’Emporio del Cacciatore, sito nel cuore del rione Testaccio. Accusato di vendita abusiva di materiale esplodente, l’armiere viene condannato a sei mesi di reclusione, anche se le successive indagini dimostreranno che non fu lui a vendere il lanciarazzi bensì un altro commerciante, Pericle Gigli, titolare di un negozio di nautica.

Passano i mesi e l’attenzione mediatica nei confronti della latitanza di Fiorillo cala sensibilmente. L’Olimpico viene rimesso a nuovo, ripuliti i muri e rimossi gli striscioni che inneggiano alla violenza durante le competizioni. Per la prima volta si incomincia a parlare seriamente di telecamere allo stadio. Poi, nel novembre del 1980 il colpo di scena: Mario Biasciucci, inviato del quotidiano L’Occhio, e Gian Paolo Rossetti, redattore del settimanale Oggi, intercettano Fiorillo in Svizzera e lo convincono a rilasciare un’intervista nei pressi di Lugano. Scoop giornalistico a parte, l’incontro con i due giornalisti smuove le acque in cui si è impantanata la vicenda giudiziaria riguardante la morte di Vincenzo Paparelli, in quanto il giovane di piazza Vittorio annuncia l’imminente ritorno nella Capitale. Per la prima volta, contrariamente alle precedenti lettere, ammette le sue responsabilità. Di seguito alcuni passaggi dell’intervista.

«I laziali si davano un gran daffare e così abbiamo pensato di controbatterli. Mi sono ritrovato in mano il primo razzo e l’ho acceso, ma ho dovuto agitarlo perché non partiva. A forza di muoverlo mi è sfuggito di mano, era la prima volta che lanciavo un ordigno simile. Subito dopo ho cercato di accenderne un altro, ma si è sprigionato un fumo densissimo. Nella nebbia ho visto la folla ondeggiare dalla parte dei laziali, nient’altro». Fiorillo poi prosegue il racconto e descrive il momento in cui apprende dagli altoparlanti dello stadio la morte del tifoso biancoceleste: «Sono rimasto al mio posto a vedere la partita. Speravo che non fosse il mio, quel razzo maledetto. Verso la fine del primo tempo, però ho notato che i compagni mi guardavano in modo strano e ho cominciato ad allarmarmi. Appena hanno aperto i cancelli dello stadio me la sono squagliata. Mica potevo restare lì con scritto assassino in fronte». Lo Tzigano (nella medesima intervista ammette di essere chiamato così perché era solito vestirsi come uno «straccione» quando si recava allo stadio) nega di aver ricevuto aiuti durante la sua latitanza: «No, io so’ disgraziato, non ho santi in paradiso. Per mantenermi ho dovuto lavorare a giornata. Ho fatto il lavapiatti, l’idraulico, il meccanico (…). Ho deciso di farla finita. Tra venti giorni, un mese al massimo, mi costituirò, tornerò in Italia e affronterò il processo. Non ce la faccio più a tirare avanti così, sono a tocchi. Ho già contattato i miei avvocati».

Fiorillo si costituisce il 25 gennaio del 1981, dopo quasi quindici mesi di latitanza. Le immagini che lo ritraggono in questura insieme ai genitori restituiscono un’immagine diversa da quella dello Tzigano di qualche mese prima. Ora è un reo confesso, dall’aria sommessa, deciso ad affrontare un processo che in fase istruttoria ha già visto mutare l’accusa da omicidio volontario a concorso in omicidio preterintenzionale. Nonostante il tutto avvenga nel più assoluto riserbo, continuano a far discutere alcune dichiarazioni del giovane: «Ho saputo che il giudice Santiapichi è siciliano», sono le parole di Fiorillo riportate dal Corriere della Sera due giorni dopo essersi consegnato, «questo mi ha consolato molto perché ho sempre avuto paura di venir giudicato da un magistrato tifoso della Lazio».

A completare il puzzle contribuisce il ritorno nella Capitale del terzo sospettato, Marco Angelini, che si costituisce il 28 maggio dello stesso anno, a breve distanza dall’apertura del processo. La sua è stata una latitanza molto curiosa: pur essendo ricercato in tutta Italia, negli ultimi mesi Angelini stava prestando regolare servizio di leva militare. Il ventenne (figlio, secondo quanto riportato dal Messaggero, di un maggiore dell’aeronautica) si spiega così al Corriere della Sera poco dopo essersi consegnato: «Dopo il tragico episodio accaduto allo stadio, pur ritenendomi innocente, decisi di fuggire per evitare le lungaggini del processo. Quando poi i miei genitori mi fecero sapere che era arrivata la cartolina-precetto, decisi di presentarmi regolarmente per non incorrere davvero in un reato». Anomalie e polemiche a parte, finalmente il 15 giugno 1981 si può celebrare il tanto atteso processo Paparelli.

IL PROCESSO, UNA FERITA ANCORA APERTA

Fiorillo e Angelini in aula nel 1981

Nel corso delle prime due udienze presso la Corte d’Assise di Roma i tre imputati raccontano le loro versioni dei fatti. Il primo a essere ascoltato è Enrico Marcioni, che intanto ha ottenuto la libertà provvisoria. Il giovane ultras viene ritenuto responsabile di aver custodito e introdotto nei magazzini sotto le gradinate della Curva Sud il materiale acquistato il giorno prima da Fiorillo e Angelini. Ne emerge l’estrema facilità per i tifosi di eludere la sorveglianza e i controlli ai cancelli dello stadio. Davanti ai giudici Marcioni afferma che i razzi sono stati acquistati al solo fine di «sbalordire i tifosi della squadra avversaria» e che non ci fosse nessun intento di ferire o uccidere nessuno, ribadendo che, al momento dell’acquisto dei razzi, né lui né i suoi amici si preoccuparono di «capire quale fosse la loro gittata».

Nel corso della seconda udienza i tre giovani vengono messi a confronto. Ne emergono parecchie contraddizioni, riportate prontamente dal Corriere della Sera il 17 giugno: «Marcioni, scuro in volto e con aria preoccupata, ha detto che Angelini, l’altro ieri, all’inizio del processo, lo ha minacciato dicendogli in pratica di stare attento a non contraddirlo» oppure «Fiorillo ha invece ricostruito quanto avvenne il giorno precedente: “Passai da Marcioni per capire come si metteva per il derby e lui mi propose di acquistare una pistola vera”. Marcioni è balzato in piedi gridando “Non è vero, non è vero!” (…)».

Contrasti, testimonianze contraddittorie, tensioni; fin dalle prime battute del processo, però, si comprende che il nodo cruciale della vicenda sono gli esiti delle perizie, in base alle quali può venire o meno ridefinito il capo d’accusa. Il perito d’ufficio, Ugolini, sostiene che la traiettoria del razzo sparato da Fiorillo poteva essere parzialmente controllato e la sua condotta proverebbe l’intenzionalità di colpire tra la folla. Secondo invece le perizie dei consulenti di parte, Vacchiaioni e Vagnozzi, tale traiettoria non poteva essere né controllata, né prevedibile, ribadendo inoltre che il colpo sia partito inavvertitamente al loro assistito, in seguito a un guasto del marchingegno stesso. Tale involontarietà sarebbe provata dal fatto che il primo razzo lanciato dal Fiorillo sia stato direzionato molto più in alto del secondo, oltre gli spalti della Nord.

Una perizia che esclude l’altra. Il Pubblico Ministero Giacomo Paoloni insiste per la ridefinizione del capo d’imputazione in omicidio volontario e il 26 giugno chiede quindici anni e sei mesi per Fiorillo e Angelini, dodici anni e due mesi per Enrico Marcioni. Le pene richieste dal PM, che tengono conto di tutte le attenuanti per i tre ultras (come la giovane età e l’essere incensurati), secondo quanto riporta sempre il Corriere della Sera il 27 giugno, si fondano sulla «sicura idoneità dell’ordigno a causare l’evento mortale; le modalità dell’impiego del razzo; il movente psicologico e le condizioni ambientali; l’elevata potenzialità offensiva dell’ordigno».

La Corte d’Assise, invece, il 3 luglio 1981, dopo cinque ore di camera di consiglio, condanna gli imputati a pene molto più miti: cinque anni e sei mesi per Fiorillo e Angelini, quattro anni e sei mesi per Marcioni. Condanna a due anni e quattro mesi anche per Pericle Gigli, il titolare del negozio di nautica. La sentenza di I° grado fa molto discutere in quanto non solo viene esclusa l’ipotesi dell’omicidio volontario, ma viene addirittura sposata l’ipotesi semplice di omicidio colposo piuttosto che preterintenzionale. Tre anni più tardi, la Corte d’Appello d’Assise ridefinisce la condanna per omicidio preterintenzionale, inasprendo lievemente le condanne: a Fiorillo e Angelini la pena aumenta a sei anni e dieci mesi di reclusione. Tali condanne vengono poi confermate in Cassazione ben cinque anni più tardi, nel maggio del 1987, chiudendo definitivamente la vicenda processuale. Ovviamente per la famiglia di Paparelli, così come per migliaia di tifosi biancocelesti, l’esito del processo non ha restituito sufficientemente giustizia e rimane una ferita aperta.

«LA MIA VITA È STATA ROVINATA, MA ANCHE LA SUA»

Uno striscione esposto in Curva Sud negli anni Novanta

La morte di Vincenzo Paparelli viene ricordata come la definitiva perdita dell’innocenza del calcio italiano. «Una tragedia voluta da nessuno» la definisce Antonio Bongi, fondatore dei Boys, in un’intervista rilasciata al sito Contrasti nel novembre del 2017. Una tragedia che segna la vita dei familiari della vittima, ma anche del suo assassino. Perché di Fiorillo, nelle cronache romane e nazionali, si continua a parlare. Non solo la sua storia riemerge nei sempre più frequenti fatti di sangue che accompagnano lo sport più amato dagli italiani: pur avendo riacquistato molto presto la libertà, lo Tzigano torna a delinquere e il suo destino sembra irrimediabilmente compromesso.

Nell’ottobre del 1983, proprio mentre è in corso l’appello per il processo Paparelli, Fiorillo viene tratto in arresto perché trovato in possesso di pochi grammi di hashish. Così riporta L’Unità in un trafiletto pubblicato il 26 ottobre di quell’anno: «Il giovane è stato nuovamente arrestato, dopo il nuovo derby di domenica scorsa. Stavolta non aveva nessun ordigno, ma una buona dose di hashish, droga leggera, per la quale è comunque previsto l’arresto». Nel settembre del 1987 viene arrestato presso l’Isola d’Elba per detenzione e spaccio di droga insieme ad altri due giovani. Secondo quanto riportato sul Corriere della Sera Fiorillo «aveva con sé una notevole quantità di eroina, due pani di hashish e banconote per 42 milioni di lire».

L’arresto del 1987 non solo lo vede tornare in carcere, ma mette in luce un aspetto che fino a quel momento non era emerso sul «personaggio» Tzigano: l’eroina. Secondo Matteo Marani, autore del documentario Roma Violenta, prodotto da SKY due anni fa, già nel 1979 il ragazzo «è un balordo, si trascina lungo le giornate. E ha già una nemica in corpo, l’eroina». Nell’ottobre del 1990, mentre è in libertà provvisoria e sotto l’obbligo di firma, viene arrestato per rapina. Secondo quanto riportato sempre dal Corriere della Sera, Fiorillo «armato di un paletto di ferro, aveva costretto il proprietario di una Fiat Uno a scendere dall’auto e, dopo essersi messo alla guida, era fuggito». Processato per direttissima, verrà condannato a due anni di reclusione.

È l’ultimo atto di una vita sempre più difficile. Fiorillo muore tre anni dopo, alla soglia dei trentatré anni, la stessa età che aveva Vincenzo Paparelli nel 1979. È il 24 marzo 1993. La sua scomparsa non fa notizia come invece era stato per i suoi reati. Sulle cause della sua morte non è stata mai fatta chiarezza, tra chi sostiene si sia trattato di un’overdose da eroina e chi invece parla di male incurabile. Eppure il suo nome è stato frequentemente ricordato dai suoi compagni di gradinate. Nel corso del campionato 1992/93 in Curva Sud appare uno striscione che lo ricorda insieme al già citato Geppo, anche lui prematuramente scomparso in quei primi anni Novanta. «Geppo e Tzigano, una curva che non c’è più».

Col tempo è arrivato il perdono di Gabriele Paparelli, il figlio di Vincenzo, che all’epoca dei fatti aveva solo otto anni. La sua è una lezione di umanità. «Il perdono negli anni è anche arrivato; maturando, pensi, ragioni… sono convinto che lui quel giorno non è uscito per uccidere», dichiara il 6 giugno del 2014 mentre è ospite alla trasmissione L’Arena condotta da Giletti, «la mia vita è stata rovinata, ma anche la sua. Lui senz’altro ha sofferto tantissimo per questa cosa, tanto più che è finito male». Molto più difficile da perdonare è la stupidità con cui per oltre tre decenni la memoria di Paparelli è stata oltraggiata: cori come «ventotto ottobre, giornata storta…», striscioni come «Paparelli ti stai perdendo i tempi belli» e quella tragica scritta, divenuta ormai uno slogan, «10, 100, 1000 Paparelli», che il figlio Gabriele continua ancora a cancellare dai muri della città, restano tutt’oggi una pagina vergognosa, che nulla ha a che fare con la stragrande maggioranza del tifo giallorosso, dal quale la solidarietà non è mai mancata. Perché, come recitava uno striscione esposto qualche anno fa in curva Sud, la memoria non ha bandiere: «Oltre i colori, rispetto per Paparelli».