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Tra vecchia e nuova mala: l’omicidio di Sergio Maccarelli, «er pugile» di Tor Marancia

Matteo Picconi

Considerato dalla stampa dell’epoca un piccolo boss della zona di Tor Marancia, Maccarelli è lo specchio di quello che è stato il mondo criminale fino a quel momento: controllo delle bische clandestine, estorsioni, furti e rapine

C’era una volta Roma, le sue borgate, la sua malavita. Una città in cui gli uomini di malaffare erano ancora quelli di antica tradizione che rimandavano al vecchio prototipo di capo, «er più». Alcuni di loro si affermavano per le singole capacità personali, per la forza, a volte pure per il fascino e per il proprio curriculum criminale. Ladri, rapinatori – non certo dei benefattori – fino all’alba degli anni Settanta questi ras di quartiere erano tutto sommato ben radicati nel loro territorio, temuti ma al tempo stesso rispettati e, dopo qualche anno, da taluni addirittura rimpianti se confrontati con la nuova e spietata criminalità organizzata che prese poi il sopravvento tanto a Roma quanto nelle principali città della Penisola.

Per molti l’omicidio dell’ex pugile Sergio Maccarelli, avvenuto nell’ottobre del 1972, rappresenta appieno questo momento di rottura. Considerato dalla stampa dell’epoca un piccolo boss della zona di Tor Marancia, borgata situata sul versante Sud della Capitale, Maccarelli è lo specchio di quello che è stato il mondo criminale fino a quel momento: controllo delle bische clandestine, estorsioni, furti e rapine. Niente sequestri di persona eclatanti e, soprattutto, niente traffico di stupefacenti, almeno non nelle proporzioni palesatesi pochissimi anni dopo.

La stessa dinamica dell’omicidio Maccarelli rappresenta una peculiarità di tutta la vicenda. Di morti ammazzati Roma ne ha contati sempre molti, ma per la prima volta si realizza un agguato in stile mafioso. «Sembrava di stare in America», dirà un testimone presente al fattaccio di viale Tor Marancia. In quei primi anni Settanta i tempi cambiano velocemente e così anche il mondo della malavita. Roma, inoltre, è una piazza che comincia a far gola: da Nord si presentano la mala francese e milanese, che vedrà nei Marsigliesi e in Francis Turatello i protagonisti principali; da Sud, ovviamente, si affacciano le mafie siciliane e calabresi (il super latitante Pippo Calò si stabilisce nella Capitale proprio nel 1971). Le coltellate da osteria, o le rivoltellate fuori dalla bisca, diventano ormai un ricordo lontano.

IL «TORELLO DI ROMA SUD»

Maccarelli 1957

Segnaletica di Sergio Maccarelli riportata su L’Unità nell’aprile del 1957

Classe 1940, Sergio Maccarelli è senza dubbio un personaggio da film, tanto da ispirarne uno girato poco più di un decennio fa, «Roma Nuda» del regista Ferrara, che però non ha mai conosciuto le sale cinematografiche. Anche l’ambiente in cui è cresciuto, la borgata di Tor Marancia, ben si predispone per un set cinematografico. Denominata all’epoca Shangai per i continui allagamenti che tormentavano gli abitanti delle baracche, nei due decenni del secondo dopoguerra la borgata che affianca la via Cristoforo Colombo versa ancora in situazioni critiche e per molti giovani shangaini la via del crimine resta spesso l’unica strada da percorrere.

Il nome di Maccarelli arriva alle cronache molto presto. Una precoce traccia si trova nei primi mesi del 1957, quando, appena diciassettenne, viene arrestato per furto d’auto e poi accusato di far parte di una banda di giovani («la banda dei 9», titola L’Unità) dediti agli scippi dei turisti e, appunto, al furto di automobili. Ma non è solo un ladro Maccarelli. Giovane dal fisico prestante e dal carattere spavaldo, gli piace usare le mani e, come molti avanzi di periferia, inizia presto a tirare pugni nelle palestre, avvicinandosi così al mondo della boxe. Non un talento di tecnica, ma combattente coraggioso, diviene ben presto un peso welter di buone speranze, bruciando le tappe a suon di vittorie nella sua breve carriera da dilettante. Inizia a farsi un nome nella sua borgata, tanto da avere un largo seguito di sostenitori ai suoi incontri. È il «Torello di Roma sud», come lo definisce il giornalista e scrittore Claudio D’Aguanno, e nel 1965 il pugile shangaino viene lanciato nel mondo dei professionisti.

«Cominciò sul ring», scrive il giornalista Sergio Valentini sul Corriere della Sera nel 1994, «un peso welter che tra i dilettanti ha fatto benino anche se nella squadra nazionale non ce l’hanno voluto mai, per la cattiva fama che s’era fatto. Poi, tra i professionisti, ha fallito. Quelli, i pugili di professione, sanno gestire la violenza, la sofferenza, i rischi del ring: e lui è rimasto uno “scazzottatore” senza ingegno e senza malizia».

In realtà l’esordio nei professionisti non è poi così fallimentare: cinque incontri tra il 1965 e il 1967, quattro vittorie e un pareggio. Combatte nei sottoclou delle grandi riunioni del Palazzetto dello Sport e nel giro di poco tempo il suo nome comincia a circolare. Ma non solo per meriti sportivi. Come riporta il giudice Otello Lupacchini nel suo libro dedicato alla Banda della Magliana, Maccarelli è «il pugile che va in palestra con la pistola»; neanche la boxe riuscirà a distoglierlo dal richiamo della malavita. Il 27 ottobre 1967 combatte il suo ultimo incontro a Roma, ottenendo una fulminante vittoria per KO tecnico alla prima ripresa contro il brindisino Ciro Patronelli. Poi esce di scena, nessuno punta più su di lui. Ad allontanarlo dalla boxe è proprio quella cattiva fama e alcune denunce per aggressione e rissa sopraggiunte proprio nel 1967. Poco tempo dopo il suo nome tornerà di nuovo sui giornali, ma non sulle pagine sportive.

LA «BANDA MACCARELLI», IL CASO SCIRÈ

Sergio Maccarelli

Maccarelli alla fine degli anni ’60

Nel 1969 scoppia lo scandalo delle bische clandestine, una maxi inchiesta che fa scalpore in quanto crea un piccolo terremoto all’interno dei vertici romani della polizia. Nicola Scirè, commissario e vicequestore, viene accusato di coprire il giro del gioco clandestino, in particolare di essere il protettore, dietro pagamento, di una bisca, situata lungo la via Flaminia Vecchia, gestita da Maria Pia Naccarato, soprannominata dalla stampa come «la Contessa». Sembrano i personaggi di un foto-romanzo dell’epoca: il commissario, la contessa, gli altri protagonisti della vicenda sono invece i gorilla, uomini di malaffare che esercitano direttamente la protezione nelle bische, fanno pagare i debitori, mantengono l’ordine. Qui entra in gioco il pugile di Tor Marancia.

«Maccarelli è un uomo di malavita», scrivono Lanfranco Caminiti e Claudio D’Aguanno in un articolo pubblicato sul sito Ambaradam nell’aprile del 1997, «per quel che, almeno fino a quel momento, è la malavita della città. Ruba negli appartamenti, bazzica le bische dove si gioca d’azzardo e chiede il pizzo, fa il buttafuori nei night ogni volta che esce di galera e deve ricominciare, ed esercita qualche protezione, spesso limitandosi a cercare rispetto se invita qualcuno al bar o al ristorante, giusto per far vedere che lui conta qualcosa. In un paio di occasioni ha cacciato fuori la rivoltella per sparare in aria e sedare i casini, ma in genere gli basta muovere le mani per farsi sentire, qualche schiaffo e qualche pugno tranquillizzano il baccano, che poi è qualche cliente ubriaco e frodato che la sta menando contro le entraineuses o il croupier».

Insomma, alla fine degli anni Sessanta Maccarelli prova a fare il salto di qualità inserendosi nel giro delle case da gioco più prestigiose della città, come appunto quella gestita dalla Naccarato, frequentata da personaggi altolocati col vizietto del gioco, prede perfette per il taglieggio. Questo era il modus operandi dell’ex pugile: imporre la protezione ai gestori delle bische e ricavare degli extra con le estorsioni. Un gioco pericoloso, che dà fastidio a molti. Er più di Tor Marancia non si muove da solo. La «banda Maccarelli», come la chiamarono i giornali, era composta da altri personaggi già noti negli ambienti delle bische. Su tutti spicca il nome di Ettore Tabarrani, soprannominato la Mente, noto biscazziere che verrà ucciso in un agguato nel 1975 da sicari rimasti ignoti. Altri personaggi che recitano un ruolo chiave nella vicenda sono Roberto de Conciliis, detto er Bracciodestro, Otello Viola e er Bolero Ernesto Cicconi. L’accusa nei loro confronti è di estorsione continuata e aggravata e porto abusivo di arma da fuoco. Da quanto si evince dalla stampa di allora, vittime dei ricatti della banda sono Augusto Liuzzi, gestore di una bisca di via Macerata (nel quartiere Pigneto) e un tale Tranquillini, proprietario di una casa da gioco della via Casilina. In merito a quest’ultima Il Corriere della Sera, nell’edizione del 10 giugno 1969, descrive nei particolari come agivano Maccarelli e i suoi compagni:

«Entrarono nel locale e, pistola alla mano, costrinsero i presenti a mettersi con le spalle al muro e le mani in alto. Mentre Cicconi li teneva a bada, l’altro li pestava. Alcuni frequentatori del locale furono ustionati con mozziconi di sigarette spenti sulla loro faccia; poi Cicconi e Maccarelli spaccarono tutto quello che c’era da spaccare, spararono alcuni colpi di pistola in aria e fuggirono. Fuori ad attenderli c’erano Tabarrani e tale Pulcinelli».

Ventiquattro ore dopo la cattura di Cicconi, il 10 giugno 1969 Maccarelli si consegna alle forze dell’ordine. «Sono in un bar di Tor Marancia, venite a prendermi. Non è uno scherzo», dice ai carabinieri al telefono. Con il suo arresto tutti i protagonisti della vicenda delle bische clandestine sono a disposizione degli inquirenti. Accusato di essere il capo dei taglieggiatori, l’ex pugile è considerato anche un testimone potenzialmente scomodo per quanto riguarda le sorti del vicequestore Scirè. L’iter processuale va per le lunghe e tutti gli imputati, gorilla compresi, dopo qualche mese vengono rimessi in libertà, in attesa di giudizio. Il processo viene fissato il 4 novembre del 1972, ma Maccarelli non farà in tempo a comparire in aula.

TOR MARANCIA COME CHIGAGO

Omicidio Maccarelli

Una ricostruzione dell’omicidio Maccarelli riportata sul Messaggero il 20 ottobre 1972

18 ottobre 1972, ore 18. In viale Tor Marancia è ancora pieno di gente. Sergio Maccarelli ha appena parcheggiato una BMW rossa a breve distanza dal bar latteria Maurizi, presso il Lotto 1 delle case popolari; poco più avanti, su una collinetta, c’è la Torre delle Vigne, una vedetta medievale risalente al 1200, che troneggia sul muro di cinta della vecchia Fiera di Roma; nei parcheggi che dividono il viale, decine di bambini stanno giocando a pallone. Maccarelli si è recato sul posto con un vecchio amico d’infanzia, il venticinquenne Italo Pasquale, giovane incensurato residente nel quartiere Monteverde che fa il cameriere da Corsetti presso il litorale di Torvajanica. Sullo stesso marciapiede ci sono altre persone, tra cui il fratello dell’ex pugile, Fernando. Maccarelli si sente sicuro nel cuore della sua borgata. Non dovrebbe esserlo. A poche settimane dal processo Scirè le forze dell’ordine lo cercano in quanto ha eluso il soggiorno obbligatorio presso Longobucco, in provincia di Cosenza. Passano pochi minuti e davanti a quel marciapiede sbuca una macchina: non è una volante della polizia. Succede tutto nel giro di pochi secondi.

«I due», riporta il Corriere della Sera il giorno seguente, «stavano conversando quando accanto a loro si è fermata un’auto, una Fiat 125 targata Firenze, dalla quale sono scesi due individui i quali, senza dire una parola, hanno scaricato sul Maccarelli e sul Pasquale i caricatori delle pistole che impugnavano. Mentre i due, colpiti da diversi proiettili, cadevano sull’asfalto, gli sconosciuti risalivano sull’auto e fuggivano».

Pur essendoci decine di testimoni, polizia e carabinieri fanno fatica a ricostruire l’accaduto. Secondo i primi resoconti, Maccarelli era disarmato e avrebbe gridato a tutti i presenti «a terra!» per poi cadere raggiunto da sei colpi di pistola. Due proiettili, di cui uno fatale, raggiungono anche Italo Pasquale che stramazza al suolo dopo essersi trascinato fino all’uscio di una vicina macelleria. La 125, che risulterà rubata, viene ritrovata poco distante, parcheggiata su una laterale della via Cristoforo Colombo, poco dopo Piazza dei Navigatori. Soccorso dal fratello Fernando (che, anche lui ricercato, fa perdere le sue tracce), Maccarelli muore nel tragitto che da Tor Marancia porta all’ospedale San Giovanni. Stessa sorte per il venticinquenne di Monteverde.

«Regolamento di conti», scrive senza indugi l’inviato del Messaggero il 19 ottobre. Il caso desta molto clamore nell’opinione pubblica e trova ampio spazio sulle prime pagine dei principali quotidiani nazionali. Il primo dato che emerge con certezza è che Italo Pasquale non fosse l’obiettivo dell’agguato di viale Tor Marancia, trovatosi quindi casualmente al posto giusto nel momento sbagliato. Successivamente si tenterà invano di addebitargli una rapina avvenuta pochi giorni prima dalle parti di Camerino, per una presunta sua somiglianza con un identikit dei due assalitori (l’altro, ovviamente, si è ipotizzato fosse proprio il Maccarelli) fornito dalla polizia marchigiana, con la quale i due rapinatori rimasti ignoti hanno ingaggiato uno scontro a fuoco durante la fuga.

A destare scalpore è proprio la freddezza e la determinazione con cui i killer, quattro in tutto se si considera l’uomo alla guida, hanno agito nel giro di pochi istanti, sparando tra la folla. L’Unità, il 20 ottobre 1972, solleva dei dubbi circa la mancata reazione del pugile alla vista dei suoi aggressori: «A questo punto, qualcuno ha avanzato l’ipotesi che Sergio Maccarelli abbia estratto a sua volta la pistola ed abbia tentato una disperata difesa. È solo un’ipotesi. Anche perché in terra e addosso alla vittima non sono state trovate armi. Ma come escludere che il fratello di Maccarelli, Fernando, dopo aver accompagnato il parente al San Giovanni, non abbia preso la pistola e, fuggendo, non l’abbia portata con sé?»

Ipotesi, questa, mai dimostrata. L’attenzione dei media circa il delitto Maccarelli scema col passare dei giorni e la vicenda viene ridotta a piccola cronaca rionale. A essere ridimensionata è proprio la figura dell’ex pugile che, riprendendo una dichiarazione fornita a caldo dal capo della mobile, viene definito «un bandito di mezza tacca, un balordo senza specializzazione». Di fatto Maccarelli può essere rappresentato come un piccolo criminale che si atteggiava a boss e che aveva fatto il passo più lungo della gamba: con le sue estorsioni aveva dato fastidio a personaggi più in alto di lui e, per questo, era stato eleminato. Una conclusione un po’ superficiale, magari possibile, ma che in sostanza limita il raggio d’azione delle indagini. Due settimane dopo il delitto si apre finalmente il processo Scirè. Il vicequestore ne uscirà assolto l’anno seguente: riuscirà a dimostrare che la protezione fornita alla bisca della Naccarato faceva parte di un piano investigativo volto a smantellare una banda di taglieggiatori con a capo proprio Maccarelli, ormai uscito di scena senza diritto di replica.

«FINO A SERGIO ER PUGILE C’ERA RISPETTO»

Maccarelli e er Calabrotto

Ritaglio del Corriere della Sera sulle indagini relative al delitto Maccarelli

Nei due mesi che seguono il delitto Maccarelli nella Capitale si verificano altri due analoghi casi di omicidio: la sera del 17 novembre 1972, a pochi passi dal Colosseo, viene ucciso Giuseppe Alfano, noto contrabbandiere di sigarette; nella notte tra il 29 e il 30 dicembre viene rinvenuto cadavere Carlo Faiella, anche lui già noto alle forze dell’ordine in quanto vicino a boss di grosso calibro come Jo Le Maire e Joe Adonis. Il Faiella viene ritrovato senza vita in viale Maresciallo Pilsudski, con tre colpi di pistola in corpo, in una macchina «pulita», una Citroen DS 19, di cui risulta proprietario Ernesto Diotallevi. Quest’ultimo e un giovane Danilo Abbruciati, entrambi esponenti dell’emergente gruppo criminale dell’Alberone, vengono inquisiti per l’omicidio dei Parioli che, però, resta senza colpevoli. Per la stampa romana i due fatti di sangue sono da collegare alla guerra tra clan di cui il caso Maccarelli rappresenta il primo caso.

Le indagini sull’omicidio dell’ex pugile si svolgono in tal contesto. La prima mossa degli investigatori, all’indomani dell’agguato, è quella di interrogare il suo sodale più importante della banda di taglieggiatori, Ettore Tabarrani. Sono proprio le dichiarazioni della Mente, a indirizzare le prime indagini. Si scopre, infatti, che la notte tra l’11 e il 12 ottobre (una settimana prima il delitto di viale Tor Marancia) si era verificata una rapina non denunciata ai danni degli avventori di una bisca controllata da Maccarelli e i suoi, un circolo Monarchico sito in via Valle Corteno, tra i quartieri Africano e Montesacro. I dettagli della rapina li riporta L’Unità in un articolo del 21 ottobre 1972:

«Verso l’una sarebbero entrati un paio di sconosciuti, mentre il gestore del circolo, Amedeo Cimini, ed altri avventori stavano giocando a carte. Tra gli altri c’era anche Ettore Tabarrani, indicato come il braccio destro di Maccarelli. I due, sotto la minaccia delle pistole, si sarebbero fatti consegnare dai presenti un milione di lire. Prima di andare via, uno di loro ha colpito alla bocca, con il calcio della pistola, il Tabarrani».

Ovviamente non si tratta di una semplice rapina, è uno sfregio alla banda del pugile. Nel giro di pochi giorni spuntano fuori i nomi degli autori del raid al circolo di Amedeo Cimini: si tratta di Francesco Costanzo, ventidue anni, originario di Pizzo Calabro e per questo soprannominato er Calabrotto, e di Michele Carella, detto Tony il Siciliano. Nelle settimane successive le forze dell’ordine danno la caccia anche a Paolo Lippera, coetaneo del Costanzo, che verrà arrestato solo nel 1980 dopo una lunga latitanza in Svezia. Tutti e tre gravitano intorno al gruppo dell’Alberone, dove la componente siciliana e calabrese si è fatta sempre più massiccia. Per gli investigatori la batteria di via Appia Nuova si è intromessa negli affari del ras di Tor Marancia al fine di sottrargli il giro delle bische clandestine. L’ex pugile e i suoi, ovviamente, non restano a guardare.

«Tabarrani», riporta L’Unità il 19 dicembre 1972, «raccontò subito l’accaduto a Sergio Maccarelli: il giorno dopo. Michele Carella e il De Simone furono sequestrati dalla banda di Maccarelli e pestati a sangue: il boss delle bische fece sapere che rivoleva indietro il denaro rubato».

La polizia passa a setaccio tutto l’ambiente e, nel giro di poche settimane, mette a segno arresti importanti. De Conciliis viene intercettato a Milano il successivo 3 novembre; Carella viene arrestato il 19 dicembre a Foggia. Altri pregiudicati del giro dell’Alberone, come Alfredino De Simone e Renato Malagigi, vengono denunciati a piede libero. Nessuno, però, fornisce alcuna informazione che risulti utile alle indagini. Riesce a sfuggire alla cattura per qualche giorno Francesco Costanzo, il principale indiziato per l’agguato del 18 ottobre. Er Calabrotto si costituisce il 28 dicembre: fornisce un alibi, anzi due, uno per la rapina di via Valle Corteno, l’altro per il delitto di Tor Marancia. Non essendoci sufficienti prove a suo carico, viene scagionato dall’accusa di omicidio. Il delitto del pugile, e del suo amico Italo Pasquale, resta dunque senza colpevoli.

Pur non avendo nessun riscontro in sede giudiziaria, sono in molti a ritenere che la pista dell’Alberone fosse quella giusta. Che ci fossero degli attriti tra le due bande e, in particolare, con il Costanzo, resta un fatto molto probabile. Ma non è solo col Calabrotto che il Maccarelli ha avuto dei problemi. Nel giro dell’Appio Latino, infatti, muove i primi passi anche Danilo Abbruciati, anche lui ex pugile, figlio d’arte di Otello Abbruciati detto il Moro (due volte campione italiano nella categoria dei pesi mosca e leggeri). Potrebbe esserci proprio il futuro leader dei Testaccini, che intanto ha stretto amicizie influenti tra le file dei Marsigliesi, dietro il delitto irrisolto del 1972.

«Qualche tempo prima», scrivono i già citati Caminiti e D’Aguanno nel 1997, «Maccarelli s’era scontrato duramente con Danilo Abbruciati e gliele aveva suonate per bene, senza lasciargli probabilmente molte soluzioni per riconquistare prestigio nell’ambiente».

Ipotesi, anche queste, difficilmente dimostrabili. Eppure la storia regge, è quasi da romanzo, tanto da ispirare un libro, la Peggio Gioventù, pubblicato nel 2016 dallo scrittore Francesco Crispino. Anche quest’ultimo sceglie la via romanzata per raccontare la genesi della Banda della Magliana, soffermandosi principalmente sulla «fauna criminale» che la precede fino alla prima metà degli anni Settanta. Riprendendo la presentazione del libro: «Con piglio antropologico e sociologico, l’autore racconta la storia di una trasformazione. Quella da una criminalità romantica, che non ammette che si spacci per le strade o che si tocchino le donne, il cui emblema risiede in Sergio “er più”, ad una criminalità spietata, affamata, che non guarda in faccia a nessuno e risponde solo a colpi di sangue e piombo, incunabolo di quello che diventerà poi la Banda…».

Una criminalità romantica, ancora rispettosa di certe regole. Per afferrare bene il concetto si può citare uno storico residente di quella borgata in cui crebbe anche Maccarelli, ossia Quinto Gambi, la mitica controfigura di Tomas Milian. Così l’ispiratore del celebre personaggio cinematografico er Monnezza parla della vecchia mala shangaina in un’intervista rilasciata al giornalista Claudio D’Aguanno e uscita sul sito di Dinamo Press nel novembre del 2017, poco tempo dopo la sua scomparsa:

«Erano banditi ma qui si comportavano bene. E dentro il quartiere c’era rispetto. È un po’ una tradizione che è durata fino a Sergio Maccarelli, che è stato il mejo di tutti. Ammazzato lui è arrivata la droga ed è finita. Ma ai tempi del Gobbo, di Ciccio er Bavoso o di altri, fino a Sergio er pugile, c’era rispetto».