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L’ultimo gol di Rombo di tuono. Gigi Riva si ritira (1977)

Redazione Spazio70

Un articolo di Gianni Mura per «Epoca»

Giggirrivva. Per i sardi era un po’ tutto, preghiera e grido di vittoria. Poveri da secoli, peggio ancora impoveriti, si arricchivano raddoppiando consonanti. Lui era più di un giocatore di calcio, una via di mezzo tra Nembo Kid e l’Angelo Vendicatore. Anonimi poeti popolari gli dedicavano quartine dialettali di sapore ellenistico: «Bello come Luigi Riva/ non ce n’è nella città di Cagliari/ ha i capelli a boccoli d’oro/ e le labbra a polpa d’arancia». In effetti Gigi Riva non ha mai avuto, se non da bambinetto, boccoli d’oro e men che meno labbra a polpa d’arancia. Una faccia pura e dura, piuttosto, tanto è vero che Franco Zeffirelli gli propose la parte di San Francesco in «Fratello Sole, sorella Luna», parte che lui rifiutò con una motivazione sufficientemente valida: «Recitare non è il mio mestiere, e poi so essere solo quello che sono».

LA «TRATTATIVA IMMORALE» TRA CAGLIARI E JUVENTUS

E’ dei giorni scorsi la notizia che ha chiuso col calcio in via ufficiale. Rivedere una sequenza dei suoi gol, sui teleschermi, a molti ha ridato una specie di scossa: quei gol, quel tipo di calcio, non esistono più. Non esistevano prima di Riva, nemmeno: ha dato la sua impronta a una stagione felice del nostro calcio. Nel 1966 c’era stata la Corea, era il periodo dei cosiddetti abatini. Riva ai mondiali inglesi era andato da turista-accompagnatore, insieme a Bertini: come riserva di Pascutti, il commissario della nazionale Fabbri, gli aveva preferito Barison. Non era la prima volta che Riva era un incompreso: quando giocava nel Legnano, né Helenio HerreraViani lo avevano ritenuto degno di considerazione. Così era finito al Cagliari, lontanissimo da casa, per 200 mila lire al mese. A capire quanto valeva, prima di Manlio Scopigno, allenatore del Cagliari, furono Silvestri e Tognon. Allora non era uno sfondatore, ma un’ala elegante e manovriera, tipo Damiani. A tre minuti dalla fine di una partita col Potenza, in serie B, Silvestri lo spedì avanti per cercare il gol risolutivo e lui lo trovò. L’esperimento fu ripetuto la domenica dopo, andò ugualmente bene e così nacque il Riva attaccante fisso, con l’unico compito di fare gol.

Le grandi società del Nord cercarono di riprenderselo. Nell’estate del 1973, per avere Riva, la Juventus offrì al Cagliari sei giocatori: Bettega, Gentile, Cuccureddu, Musiello, Butti e Ferrara (tre di questi oggi giocano in Nazionale, cinque in serie A). L’affare non fu concluso, anche perché Riva non volle saperne. Disse che era una trattativa immorale, per lui e per questi altri sei valutati un sesto di Riva.

I RAPPORTI CON IL CAGLIARI? SONO TESI. QUELLI CON CAGLIARI SONO OTTIMI

Da Cagliari non si sarebbe più mosso. Era protetto da un’affettuosa omertà, lontano dalle rotte dei cacciatori di notizie vere o false, soddisfatto se non proprio felice. Era, con Rivera, lo scapolo d’oro del calcio italiano. Ogni settimana gli attribuivano un flirt diverso: una studentessa di Arona, una cacciatrice subacquea, Mita Medici, Paola Pitagora. In una intervista aveva detto che il suo tipo di donna era Romy Schneider. La sua donna vera, incontrata nel 1970, era ancora la moglie di un altro anche se il matrimonio stava già andando a rotoli.

Fuori dai campi di calcio, la vita non era stata molto benevola con Riva. Così, molti non si stupirono quando quest’amore vero e non di carta finì in tribunale. Adesso Gianna Tofanari, ottenuto il divorzio, potrà diventare la signora Riva. Nel luglio scorso gli ha dato un figlio, Nicola. «Son contento che sia nato a Cagliari, è la mia seconda terra», dice lui. Continuerà a viverci, ormai è conquistato. E poi lì ha impiantato le sue attività: un distributore di benzina, una concessionaria Alfa Romeo e in società con un suo ex compagno di squadra, Cera, un negozio di articoli sportivi e un’officina nautica. I rapporti con il Cagliari sono tesi («solo a fine campionato dirò certe cose»), quelli con Cagliari sono ottimi.

«AL PAESE NON SAPEVO DI ESSER POVERO. IN COLLEGIO ME LO FECERO SUBITO CAPIRE»

Come fanno i sardi a dimenticare lo scudetto del 1970, conquistato a dispetto dei santi, primo e probabilmente unico scudetto, a finire su un’isola? E come può lui dimenticare l’amicizia della gente, la discrezione, la serietà così simile alla sua?

Ci venne solo perché si sentiva professionista, ma gli sembrava di partire per l’Africa. Professionista, in un certo senso, lo era già a quattordici anni, quando giocava nei tornei da bar, anche tre partite per sera, e l’ingaggio era un chilo di burro, un pezzo di fesa. Di suo padre ricorda poco. Gli hanno detto che quando nacque lui, alle due di notte, primo maschio dopo tre femmine, suo padre Ugo andò a svegliare il parroco perché suonasse le campane. Faceva il sarto e il barbiere, nella prima guerra mondiale gli avevano dato una medaglia di bronzo al valor militare. Durante la seconda andò a lavorare in officina e ci rimase fino al 10 febbraio 1953, quando un pezzo di ferro uscito dalla pressa gli sfondò lo stomaco. Una sorella, Candida, era già all’ospedale. Sarebbe morta il 19 gennaio 1955. Mentre andava a visitarla in bicicletta, un’altra sorella, Fausta, venne travolta da un’auto: frattura della base cranica, tre anni a letto di cui uno in coma. Quando guarì, sembrò un miracolo. Ma allora non era guarita. L’unica presenza maschile in casa era uno zio cieco, che impagliava seggiole.

A Leggiuno mi dissero tanti anni fa che la famiglia Riva era la più povera del paese. Sua madre si logorava, turno di notte in filanda a Laveno, e di giorno tanti altri lavori per mettere assieme qualche lira. Gigi era un bambino anche troppo irrequieto, al buio si divertiva a bloccare le corriere alzando mucchi di cavoli oltre le curve, fracassava i lampioni con la fionda. Passò le tre medie in tre collegi diversi, a Viaggiù a Varese e a Milano, e c’era sempre un preside che scriveva alla signora Edis Riva di venire a riprendersi quello scatenato di suo figlio.

Se Riva ha degli incubi notturni, riguardano il collegio: gli orari pazzeschi, le ingiustizie, gli ordini da non discutere, la libertà negata. «Al paese, non sapevo di essere povero, si tirava avanti. In collegio, me lo fecero subito capire».

LE ESULTANZE COI PUGNI CHIUSI RIVOLTI VERSO TERRA

Uscito definitivamente dal collegio, andò a lavorare. Montava bottoniere per ascensori, ma il suo vero lavoro era il calcio. Nell’estate del 1962, morì sua madre. Pochi giorni prima il presidente del Legnano, Caccia, gli aveva dato il primo ingaggio, un assegno da 100 mila lire. Fu quella volta una delle poche in cui qualcuno lo vide piangere. Anche se a Riva non piace che se ne parli, nella sua terribile adolescenza è una delle chiavi di comprensione del suo diventare ed essere campione. In modo schivo, quasi cupo. Ci sono molte foto (ma chi lo ha visto in azione se lo ricorderà ugualmente bene) che lo ritraggono dopo un gol non esultante, a braccia alzate, ma coi pugni chiusi verso terra, come a scaricare una tensione tutta sua, una forte corrente misteriosa.

Elevato a «Rombo di Tuono», cavaliere senza macchia e senza paura, ha saputo rinascere agonisticamente dopo due fratture. Ricorda di aver pianto di rabbia dopo la seconda: «Io avevo visto le lastre, sapevo che sarei tornato a giocare. Sull’ambulanza che mi portava in Italia avevo acceso la radio e la spensi vergognandomi come un cane. Stavano raccontandola come un lutto nazionale, invece era solo un incidente sul lavoro, il minimo che può succedere a chi giochi a calcio». Come lavoratore del pallone, mancino, specializzato in gol, si è imposto alla stima di tutti, anche di quelli che vanno in brodo di giuggiole per i giocolieri. Il periodo migliore del calcio italiano del dopoguerra è stato propiziato da lui, e chi non se n’è accorto allora se ne sta accorgendo adesso.

Com’era bravo… Il discorso suona un po’ ovvio e un po’ funereo. Ho conosciuto Riva negli anni d’oro del Cagliari, mi colpivano i suoi gol e la sua solitudine. Ora, né gol né solitudine. Sceso da un monumento mai voluto, adesso può cominciare a vivere.