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Carlo Rivolta, il cronista degli anni Settanta

Redazione Spazio70

La parabola esistenziale di un cronista simbolo degli anni Settanta italiani

«Eravamo in due, io e la mia ragazza, e in quel fottuto paese calabrese non riuscivamo a venire a capo della situazione. La roba, in un paesino piccolo che vive di vino e gazosa, non sanno manco cos’è. Era il secondo giorno di rota e mentre la ragazza che era con me reggeva, stringendo i denti, spingendosi sempre di più vicino al caminetto nella speranza di sconfiggere i brividi, invincibili, che vengono da dentro, io ero arrivato proprio allo stremo. Mi sembrava assurdo che avendo i soldi, avendo un’automobile, fosse impossibile riuscire a trovare l’ero. Mi sono ricordato di aver letto su un giornale che nelle Puglie c’era un paesino, Fasano appunto, che è una sorta di regno di Bengodi per chi si fa».

Carlo Rivolta

Così attacca, in un pezzo del maggio 1981 pubblicato su Lotta continua, il cronista romano, ma calabrese d’origine, Carlo Rivolta. Classe 1949, una carriera iniziata all’ufficio stampa del Psi – grazie ai buoni auspici del conterraneo Giacomo Mancini – poi proseguita su Paese sera, Repubblica e appunto nell’ultima fase di Lc, a guida Deaglio, anni dopo la dipartita dell’omonima formazione della sinistra extraparlamentare, Rivolta morirà il 16 febbraio 1982 per le conseguenze di una violenta crisi d’astinenza. Il pezzo uscito su Lotta continua, quello sul «ragazzo romano in gita a Fasano», è molto probabilmente autobiografico, secondo quanto raccontato nel bel libro di De Lorenzis e Favale – L’aspra stagione uscito qualche anno fa proprio sulla vita del cronista calabro-romano.

«CHI CAZZO SEI TU PER DIRMI QUELLO CHE DEVO FARE?»

Il suo ultimo giorno da cosciente, Rivolta lo passa in una sofferta coesistenza con due amici che cercano di dissuaderlo dall’usare ancora una volta la siringa. La porta chiusa a chiave, l’estremo tentativo, in bilico sul cornicione, per raggiungere la dose, infine la caduta, forse voluta: un passo falso e poi giù sul cemento dopo un volo di quattro metri. Aveva una spalla malconcia, Rivolta, una fasciatura rigida, conseguenza di un recente incidente in motocicletta: un particolare che forse ha contribuito a rendere ancora più rovinoso l’impatto poi rivelatosi fatale.

«Chi cazzo sei tu per dirmi quello che devo fare?», pare siano state le sue ultime parole, secondo uno stigma che ha caratterizzato tutta l’esistenza di questo eccellente, e inquieto, giornalista. Una ideologia libertaria mai tradita, né sul piano delle scelte politico-professionali (profondamente connesse tra loro) né tanto meno su quello esistenziale.

Se volete immaginare Rivolta, fatelo così: un giovane smilzo – in jeans e maglioncino, guance incavate e occhio un po’ febbrile – spesso a cavallo della sua moto. Insomma, un ragazzo degli anni Settanta – che poco di diverso aveva da tanti suoi coetanei impegnati nel movimento post-sessantottino – anzi «Il cronista degli anni ’70», capace di documentare con rara onestà intellettuale i piccoli e grandi fatti di un decennio che sta alla base di ciò che siamo noi oggi.

UN «DECODIFICATORE» DEI NUOVI LINGUAGGI

Rivolta scriverà moltissimo: dalle sommosse carcerarie – culminate nell’approvazione di una controversa riforma penitenziaria che porterà con sé l’istituzionalizzazione delle carceri di massima sicurezza, in seguito risultate decisive nella repressione della lotta armata – alle gesta della cosiddetta nuova sinistra, coi vividi ritratti dei capi-capetti del periodo sessantottesco sempre in bilico tra la prosecuzione dell’impegno politico e le esigenze carrieristico-alimentari che preannunceranno gli anni del cosiddetto riflusso nel privato. E poi, ancora, il racconto del ’77 romano – con la cacciata di Lama dalla Sapienza e l’assalto alle armerie da parte degli autonomi – e le spregiudicate cronache sul dibattito nell’universo lottarmatista – in primis sulle scissioni all’interno delle Brigate rosse – che varranno al giornalista una condanna a morte ad personam fattagli recapitare direttamente dall’Asinara.

Considerato – e in effetti lo era – vicino al movimento, Rivolta verrà utilizzato da Scalfari nei primi anni di Repubblica nel tentativo di comprendere e «riassorbire» parte della contestazione giovanile, secondo una operazione volta al «recupero» – a vantaggio dello status quo? – di quelli che ai tempi venivano definiti nuovi soggetti.

Nell’autunno del 1975, quando si sta preparando l’avvento del nuovo quotidiano, la grande fiammata del Sessantotto – che aveva colto di sorpresa il mondo politico-istituzionale, ma anche quello della cultura e dell’informazione – è soltanto in apparenza domata. Da una parte si sta vivendo quella fase di transizione che – attraverso il referendum sul divorzio del ’74, le amministrative del ’75 e le politiche del ’76 – porterà ai governi di cosiddetta unità nazionale, dall’altra sta covando sotto la cenere quel minaccioso ritorno di fiamma che porterà al movimento del ’77 e alla stagione più drammatica e acuta del terrorismo.

Questa volta la società degli anziani, dei garantiti, non si farà cogliere alla sprovvista. Scalfari e gli altri che, a vario titolo collaboreranno all’impostazione del nuovo quotidiano, si rendono conto che almeno per un tratto di strada bisognerà imparare a familiarizzare con i comportamenti, le rivendicazioni, gli stili di vita e il linguaggio di questi nuovi soggetti, in massima parte giovani, di cui Rivolta è un perfetto rappresentante. Il suo ruolo, quello di decodificatore dei nuovi linguaggi, è soprattutto a vantaggio dei più anziani, in un contesto che a posteriori rappresenterà l’ultimo stadio di un ribellismo giovanile – stretto tra lotta armata, repressione di Stato ed emergenza eroina – prodromico al disimpegno dei vicini anni Ottanta.

«NESSUNO SI È RESO CONTO DI QUANTO IO SIA CAMBIATO DOPO MORO»

La parabola professionale ed esistenziale di Rivolta può insomma essere compresa entro i pochi anni a Repubblica. Alla prima fase – se non proprio simpatetica quanto meno propensa a spiegare e comprendere le istanze di un mondo giovanile alla sinistra del Pci – ne succede una seconda, che di fatto conosce una impressionante accelerazione col sequestro Moro. Repubblica si fa matura, secondo una prospettiva che nel periodo medio-lungo porterà quel giornale a farsi quasi partito. Un processo a tappe che prima si concretizza con un avvicinamento al Pci e poi si realizza in un progetto di sostegno e puntellamento di una borghesia colta – fatta di garantiti, professionisti e tecnocrati – che dopo la caduta del Muro diventerà portatrice di una egemonia culturale spesso in contrasto con gli umori di un popolo considerato volubile e ignorante.

Durante i cinquantacinque giorni nei quali Moro resta sepolto nel carcere brigatista, Repubblica si rivela uno degli organi di stampa più ferocemente intransigenti nell’invocare la formazione di un granitico fronte della fermezza che – insieme agli incredibili errori di una macchina statale apparsa tanto elefantiaca quanto inefficiente – condannerà a morte il presidente democristiano. Una linea politico-editoriale che Rivolta non può condividere, né umanamente né eticamente. «Nessuno si è reso conto quanto io sia cambiato dopo Moro» dirà alle persone più vicine, intendendo esplicitare con queste poche parole la fine di un sogno libertario – di rivoluzione pacifica della società – che il giornalista vivificava con le corrispondenze su carceri, detenuti, nuova sinistra, rendendo edotto il lettore su quegli errori e sconfitte del movimento che porteranno molti giovani a scegliere tra disimpegno (riflusso nel privato, cura dei propri interessi, caduta nella droga) e partito armato.

Rivolta, attraverso la sua vita privata e professionale, è quindi testimone e parte delle due fasi dei Settanta italiani: quella libertaria e quella repressivo-normalizzatrice rappresentata, in maniera paradigmatica, dal cambio di clima all’interno della redazione di Repubblica. Gli spazi di manovra all’interno del giornale si fanno per lui sempre più stretti, in perfetto sincrono con gli eventi del biennio 1978-79: dal sequestro Moro – su cui Rivolta, se si esclude la cronaca dell’agguato in via Fani, scriverà pochissimo – alle inchieste su spaccio e diffusione degli stupefacenti in Italia, fino alla firma sulla rivista Metropoli considerata vicina al partito armato e per questo oggetto di pervasive indagini da parte della magistratura. Rivolta figurerà finto direttore responsabile, ai soli fini della continuazione delle pubblicazioni: una firma – che gli costerà la sospensione da Repubblica – rispondente a una logica libertaria e movimentista ormai assai poco compresa in tempi nuovi caratterizzati da una spinta repressiva che in quattro anni – tra il ’78 e l’82 – porterà alla sostanziale liquidazione della lotta armata.

L’EROINA

Nella vita di Rivolta troverà poi fatalmente sempre più spazio l’eroina, secondo un percorso esistenziale condiviso da molti nel movimento: inizialmente introiettata e sniffata quasi in una dimensione ludica, durante i fine settimana, poi sempre più compagna consolatrice capace di colmare lacune profonde.

Il periodo nel quale più evidente è il passaggio da un uso sporadico a una vera e propria dipendenza è probabilmente proprio il biennio ’78-’79, quello della marginalizzazione del giornalista all’interno di Repubblica. Nel primo scorcio degli anni Ottanta c’è quindi il passaggio al quotidiano Lotta continua all’interno del quale non sono pochi i collaboratori con problemi di droga, come avrà modo di ricordare anni dopo lo stesso direttore Enrico Deaglio. Per Rivolta il piano di lavoro e rivalutazione professionale si sarebbe dovuto concretizzare con il progetto di «rifare» le pagine di cronaca solo dopo, però, un costoso tentativo di disintossicazione seguito da un viaggio a Ceylon, in compagnia della giovane fidanzata.

E’ il dicembre 1981 e Rivolta sembra stare bene. In una lettera privata al direttore esprime tutta la sua voglia di dare un contributo al quotidiano che lo ha accolto, rendendo più elastiche possibili quelle quattro pagine che gli sono state affidate. Dentro ci deve finire non solo Roma, ma tutto il Centro-Sud, diffondendo le storie di un sottoproletariato che dopo i velleitari tentativi di industrializzazione del Meridione rischia di ritrovarsi tra le braccia della criminalità organizzata. «Tornerò col primo volo di Natale e tornerò fortissimo», saranno le ultime parole vergate da Rivolta nella missiva.

Quando il 21 febbraio 1982 si svolgono le esequie del giornalista, nella basilica di Santa Maria degli Angeli, in tanti, soprattutto colleghi, condividono il sospetto di non aver fatto abbastanza. Una consapevolezza, più che una colpa. A trent’anni c’è già da vivere la propria di vita: lottare per affermarsi o almeno per non essere messi ai margini.

Il che è abbastanza, in tempi che stanno rapidamente cambiando.

Il pezzo su Carlo Rivolta che avete appena letto è stato da noi scritto (e originariamente pubblicato su) «L’Intellettuale dissidente» in data 21 dicembre 2019