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Quando «annega» un senatore: Antonio Bisaglia

Tommaso Nelli

L’autopsia non eseguita. Le ferite sul corpo. Il confezionamento di una verità ufficiale priva di riscontri

«Quante bugie, quanti segreti in fondo al mare, credi davvero che un giorno li vedremo affiorare» canta Antonello Venditti in «Dolce Enrico», omaggio al mai dimenticato Enrico Berlinguer. Il segretario del PCI se n’era andato da pochi giorni, quel 24 giugno 1984, quando un nuovo mistero precipitò negli abissi della Prima Repubblica. Liguria, baia di Paraggi. Un uomo viene riportato a bordo del suo veliero dopo essere caduto in acqua. Ha una ferita sulla spalla e una grossa ecchimosi tra il naso e il sopracciglio sinistro. È pallido in volto e inizia a vomitare per poi perdere i sensi. L’imbarcazione fa rotta verso Santa Margherita per i soccorsi, ma non basta. Quando attracca al molo, alle 15:40, quell’uomo è già morto. Ha cinquantacinque anni e il suo nome fa sussultare tutto il parlamento. In particolare il suo partito, la Democrazia Cristiana: Antonio Bisaglia.

L’INCONTRO CON RUMOR. IL MINISTERO DELLE PARTECIPAZIONI STATALI

Bisaglia

Uno dei politici più potenti del tempo, che la rivista statunitense Time qualche anno prima aveva indicato tra i centocinquanta leader mondiali del futuro. Capogruppo dei senatori dello scudocrociato e già titolare di tre ministeri. Una carriera rapida e folgorante cominciata sedicenne a Rovigo, dov’era nato nel 1929, dopo una breve infatuazione sacerdotale svanita in favore degli studi classici. Nel 1952 conosce Mariano Rumor, uno dei maggiori porporati della DC, tra i massimi interpreti della corrente dorotea, quella dei moderati per eccellenza, punto di riferimento per industriali, ceto medio e pubblica amministrazione, poco propensa ad aperture al PCI e ossequiosa verso le gerarchie ecclesiastiche.

È l’incontro che gli cambia la vita. Rumor lo vuole come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio quando sale per la prima volta a Palazzo Chigi (1968). Lo conferma anche per i suoi successivi due esecutivi, poi gli affida il Ministero dell’Agricoltura (marzo-novembre 1974), forte dell’esperienza di Bisaglia a metà anni Cinquanta come rappresentante della Coldiretti di Rovigo, miniera di consenso elettorale. È il prologo alla definitiva affermazione, che arriva tra il 1974 e il 1979 quando, sia nei governi Moro che Andreotti (compreso quello della «non sfiducia» del PCI, insediatosi la mattina di via Fani), Bisaglia è nominato Ministro delle Partecipazioni Statali. Diventa il vertice dell’organismo che gestisce l’industria di Stato. Sotto di lui ci sono l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), l’EAGC (Ente Autonomo di Gestione per il Cinema, che controllava società operative del settore come Istituto Luce e Cinecittà), l’EGAM (Ente gestione attività minerari, al suo interno ben settantadue partecipate), ma soprattutto l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi). In poche parole, un fiume di miliardi. Ma quell’ambiente per lui non è una novità. Nel 1958 il presidente dell’Ente, Enrico Mattei, in ottimi rapporti con Rumor, lo aveva nominato consigliere della SNAM, una società del gruppo con sede a S. Donato Milanese.

I FINANZIAMENTI A PECORELLI. LA «QUERELLE» CON GIORGIO PISANÒ

Per l’ENI in quegli anni lavorava come consulente legale un giovane napoletano di origini libiche, laureato in giurisprudenza, medaglia di bronzo al valor militare per il suo impegno nella Resistenza partigiana durante la seconda guerra mondiale col soprannome di «Antelope Cobbler»: Ugo Niutta. A metà anni Sessanta è a Roma come magistrato presso la Corte d’Appello e conosce un carabiniere benvoluto dai magistrati romani, che non esitano ad affidargli incarichi sensibili: il tenente colonnello Antonio Varisco. «Mio fraterno amico, come anche le pietre del palazzo di giustizia sanno», disse il 1°dicembre 1983 alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla P2. Anche lui era stato visto alla SNAM. Insieme a uno degli uomini più influenti dell’economia di quel periodo, presidente dell’ENI dopo la morte di Mattei (27 ottobre 1962) e poi di Montedison: Eugenio Cefis. Amico di Niutta fin dai tempi della Resistenza sulle montagne dell’Ossola, nel 1978 gli aveva proposto la presidenza della «Carlo Erba», azienda farmaceutica di Milano che l’ex partigiano fonde con un’altra realtà del settore, la «FarmItalia». Come responsabile della sicurezza chiama proprio il vecchio amico Varisco, che coglie la palla al balzo per rassegnare le dimissioni dall’Arma e lasciare Roma. Ma la mattina del 13 luglio 1979, a poco più di due settimane dal suo nuovo incarico, rimane vittima di un agguato sul lungotevere Arnaldo da Brescia. La firma è brigatista, ma le modalità – fucile a pallettoni – sono mafiose. Una morte ancora oggi densa di misteri.

Prima di dirigersi verso il Nord Italia le strade di Niutta avevano incrociato quelle di Bisaglia, col quale stringe un forte legame grazie anche alle nomine come commissario straordinario dell’EAGC e poi dell’EGAM. Ruoli che lo consacrano ad alto dirigente di Stato e che lo espongono a più di una critica, come la liquidazione di quest’ultimo nell’aprile 1978. Di rimando le proteste investono anche Bisaglia, ma non sono niente in confronto alla tempesta che si scatena nei suoi confronti il 19 novembre 1980. Anche se da Ministro dell’Industria, dove è approdato con l’insediamento dell’Andreotti V, Bisaglia siede sempre sui banchi del governo quando è investito da un pesante attacco da parte del senatore dell’MSI, nonché direttore del settimanale Il Candido nuovo, Giorgio Pisanò. Avrebbe finanziato OP – Osservatore Politico di Carmine Pecorelli quando era agenzia e non ancora rivista. Per provare le sue parole, Pisanò sventola una lettera nella quale il giornalista lamentava l’improvvisa interruzione di questi contributi: «Signor Ministro […] sono trascorsi ormai circa sei mesi dalla data dell’ultimo versamento di quel contributo finanziario che la Sua cortesia, or sono tre anni, volle stabilire a tempo indeterminato, nella nota misura e scadenza, in favore della mia agenzia, senza che a tutt’oggi io abbia ricevuto alcunché al di fuori di tranquillanti rassicurazioni e di promesse non mantenute».

A consegnarla, la sorella del giornalista, che l’aveva trovata nella cassaforte della redazione di OP il 31 marzo 1979, pochi giorni dopo l’omicidio, sul quale erano in corso indagini che però non sarebbero mai approdate a un esito felice. Sceglie Pisanò perché, come riportato nella seduta del Senato del 19 dicembre 1980, aveva apprezzato la volontà della sua rivista nel cercare la verità sulla morte del fratello. Manca la data su quei due fogli scritti a mano, però c’è l’intestazione: «Onorevole Antonio Bisaglia. Palazzo del Velabro. Via del Velabro. Roma», la sede di un residence dove aveva alloggiato Bisaglia. Siccome nel finale si parla di elezioni – «[…] colgo l’occasione per augurarle, Signor Ministro, un significativo successo elettorale» – Pisanò ipotizza che sia stata redatta prima delle politiche del 1976. Però c’è chi invece propende per le Regionali del 1975, nelle quali la DC rimediò una pesante sconfitta che di fatto segnò il capolinea per Rumor, al quale fu sbarrato il ritorno alla guida della segreteria da veti interni fra i quali anche quello di Bisaglia.

LA SCABROSA IPOTESI DI UN COLLEGAMENTO TRA USTICA E BOLOGNA

Le domande comunque sono altre: davvero Bisaglia finanziava OP? E perché? Il diretto interessato, stizzito, smentisce. E passa al contrattacco. Grida al complotto e facendo aleggiare sospetti su alcuni colleghi di partito. Poi attacca Pisanò, affermando che quella lettera è un falso e dichiara di non aver mai avuto rapporti con Pecorelli. Sennonché il nome del suo segretario, Emo Danesi, ricorre ben ottantotto volte sull’agenda del giornalista tra la strage di via Fani (16 marzo 1978) e la sua morte (20 marzo 1979). E nella rubrica telefonica, oltre al numero dello studio, c’è anche quello di casa del senatore democristiano. La Commissione d’indagine di Palazzo Madama predispone la perizia calligrafica sul manoscritto, comparandolo con altri del giornalista. La risposta è inequivocabile: «È risultato che […] è stato scritto per intero dalla stessa persona che ha scritto le lettere di comparazione». Non riesce però a stabilirne la data esatta e, soprattutto, se Bisaglia avesse davvero finanziato OP. «La Commissione […] giudica che, pur non essendo emersi elementi di prova relativi a contributi versati dal senatore Bisaglia a Mino Pecorelli e/o alla agenzia OP in epoca antecedente la presumibile data della minuta, tuttavia, per i rapporti constatati tra uomini politici o collaboratori del senatore Bisaglia e il defunto Mino Pecorelli e/o l’agenzia OP, non è possibile estendere con pari certezza la suddetta conclusione al periodo precedente la presunta data della minuta che ha dato origine alla vicenda». Un panegirico in puro politichese sintetizzabile in un «potrebbe essere come non potrebbe essere» che lascia inalterati gli interrogativi di partenza e l’inevitabile scia di misteri. Ai quali si aggiunge anche un’altra domanda: perché la sorella di Pecorelli aveva atteso più di un anno prima di rendere qualcun altro partecipe di quella lettera, taciuta anche ai suoi avvocati e ai giudici?

Il polverone è comunque sufficiente affinché Bisaglia rassegni le dimissioni. È il 20 dicembre 1980 e la sua carriera sembra compromessa anche perché il governo prosegue senza di lui, che esce di scena trascinandosi dietro ombre e rivoli di sangue. Perché oltre a Pecorelli c’era stata anche Bologna. Dove il 2 agosto nella sala d’aspetto della stazione era esploso un ordigno che aveva ucciso ottantacinque persone, ferendone duecento. Tre giorni dopo, a Palazzo Chigi, si riunisce il CIIS (Comitato Interministeriale per le Informazioni e la Sicurezza). Presenti numerosi esponenti del governo, vertici dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. C’è anche Bisaglia che, dal verbale della seduta rinvenuto soltanto nel 1995 dal giudice Rosario Priore, ipotizza «un collegamento tra l’attentato di Bologna e l’incidente aereo, accaduto alla fine dello scorso giugno, ad un DC9 dell’Itavia in viaggio da Palermo a Bologna». Cioè Bologna e la strage di Ustica sarebbero opera della stessa mano. Ma su quali basi fa queste affermazioni? E com’è possibile rilasciarle ad appena tre giorni dalla tragedia e soprattutto da parte di uno che non è né Ministro dell’Interno e né della Difesa?

LA STRANA MORTE DI BISAGLIA. LA «ONDA ANOMALA» IPOTIZZATA DALLA GRANDE STAMPA

Bisaglia ritorna in parlamento con le elezioni del 1983. Stavolta al Senato, dov’è nominato capogruppo dei senatori DC. Nel frattempo si è sposato con Romilda Bollati di Saint Pierre, da poco vedova dell’imprenditore Attilio Turati (proprietario della Carpano). A celebrare il matrimonio, il fratello di Bisaglia, don Mario, e il cardinale Ugo Poletti, cardinale vicario del Papa su Roma. Tra le proprietà della moglie, cinquantenne d’indubbio fascino, in gioventù ultimo amore dello scrittore Cesare Pavese, anche un veliero. Si chiama Rosalù, è lungo 22 metri e pesa 50 tonnellate. Quel 24 giugno la coppia lo prende per un week-end di relax. Da Santa Margherita vogliono raggiungere Portofino. Quando transitano nella baia di Paraggi, tanto sole e totale silenzio. Intorno non c’è nessuno. A bordo, anche un regista amico della coppia (morirà in un incidente d’auto in Turchia nel 1998), uno skipper e un marinaio.

La tragedia si consuma dopo pranzo. All’improvviso l’attenzione del marinaio, in quel momento al timone, è richiamata da una caduta in mare. È Bisaglia. Però nessuno di loro vede come è precipitato. Secondo la versione ufficiale, la Bollati di Saint-Pierre è sdraiata sulla tuga, il piano rialzato sul ponte scoperto, a prendere il sole insieme al marito. Indossa degli occhiali da sole antirughe, quindi non vede niente. Lo skipper è sottocoperta, al pari del regista, ed esce per tuffarsi in mare dopo aver sentito le grida. Ma Bisaglia come ci è finito? Nessuno lo sa dire. O meglio: più di una ricostruzione di qualche «giornalone» racconterà di un’onda anomala, provocata dal passaggio ad alta velocità di un motoscafo, che avrebbe fatto oscillare il Rosalù, cogliendo di sorpresa il senatore che sarebbe scivolato in acqua. Considerate le dimensioni del veliero, forse si sarebbe dovuto parlare di mezzo tsunami piuttosto che di onda anomala. Sennonché quel giorno il mare è una tavola, non c’è un filo di vento e soprattutto non c’è il minimo riscontro alla presenza nei dintorni di natanti capaci di produrre «onde anomale».

Non è la prima stranezza. Perché il sostituto procuratore di turno non arriva sul luogo del misfatto il giorno stesso bensì «due giorni dopo. […] Non avevo alcun motivo di andare […] il giorno stesso, visto che si trattava di un uomo annegato. […] Mi parlarono di incidente. Erano organi specializzati, non passanti qualsiasi. Ordinai di scattare delle fotografie e annunciai che in seguito avrei fatto un sopralluogo di persona». Raccoglie le testimonianze dei presenti a bordo, ma non dispone alcuna perizia sul Rosalù. Così non si capirà mai perché fosse privo dell’asta con la bandiera, raccolta in acqua da un gozzo di passaggio pochi minuti dopo la tragedia. Sopra, un paio di famiglie. Chiedono se hanno bisogno d’aiuto, si sentono rispondere di no in modo sbrigativo e se ne vanno quando i loro sguardi sono richiamati da quell’oggetto che affiora tra le onde. È integro, come se fosse stato staccato e gettato in mare. Lo prendono, seguono il Rosalù a Santa Margherita, lo portano alla capitaneria di porto che però non è interessata. Così lo riconsegnano ai marinai del veliero. Che lo prendono senza batter ciglio. Questo particolare foriero di domande – Come e perché la bandiera era staccata? – non è stato portato a galla dagli inquirenti, ma da due giornalisti: Daniele Vimercati e Carlo Brambilla, autori dell’eccellente libro-inchiesta Gli annegati.

LA MORTE, PER «ANNEGAMENTO», DI DON MARIO BISAGLIA

Ma le anomalie non sono finite. Il corpo di Bisaglia presenta delle ferite. Però non viene fatta l’autopsia, tanto che è improprio anche parlare di annegamento, e si confeziona un’altra verità ufficiale priva di riscontri: «Sono le conseguenze della caduta», nella quale avrebbe travolto il candeliere centrale dell’imbarcazione e divelto la draglia d’acciaio. Sui quali però non ci sono tracce di sangue. Così il medico legale certifica che la morte è avvenuta per «arresto cardiaco». Come se ci fossero decessi privi di arresto cardiaco. Poi il feretro viene chiuso. Sono trascorse meno di cinque ore dalla morte. A dare il nullaosta all’operazione, Francesco Cossiga, allora Presidente del Senato e futuro Presidente della Repubblica.

Era nelle vicinanze? Nient’affatto. Mentre Bisaglia precipitava nel Mar Ligure, lui si trovava nella natia Sardegna. Avvisato della disgrazia da un altro senatore DC, si precipita a S. Margherita Ligure insieme all’allora segretario generale della presidenza della Repubblica, Antonio Maccanico. Al funerale, celebrato prima a Roma e poi nella natia Rovigo, molti esponenti del partito. Ma non tutti. Tipo Giulio Andreotti. I giornali liquidano il fatto come una disgrazia, a fine novembre l’inchiesta è archiviata e i presenti sull’imbarcazione, a partire dalla vedova, preferiranno non ritornare più sulla questione.

Però c’è chi invece in cuor suo ha sempre pensato che quella domenica nella baia di Paraggi i fatti siano andati diversamente da come sono stati raccontati. È don Mario Bisaglia. Il 17 agosto 1992 viene ritrovato senza vita a Domegge, nel lago di Cadore. Annegato. Come il fratello. All’alba del 14 aveva lasciato in gran fretta la Casa del clero di Rovigo dove viveva, dicendo che aveva un appuntamento per mezzogiorno. Celebrata la messa per gli ammalati in una clinica della città, aveva raggiunto la stazione dove aveva scambiato alcune battute con una donna delle pulizie, alla quale fece presente che sarebbe rientrato a tarda sera. Poi comprò un biglietto per Calalzo, paesino del Cadore distante duecento chilometri dove sarebbe arrivato dopo aver cambiato a Padova. Cinquanta minuti dopo, però, sempre secondo la donna, sul piazzale della stazione Don Mario saliva a bordo di una Mercedes bianca dove si trovano altri quattro uomini. Un ferroviere suo amico, in servizio a Padova, lo nota alle 8:40 al binario 8 della stazione euganea. È l’ultimo avvistamento prima del ritrovamento nel lago. Chi erano quegli uomini? E chi avrebbe dovuto incontrare Don Mario? Mistero.

UGO NIUTTA, UN ALTRO STRANO DECESSO

Certo è che a inizio anno, in confessionale, una persona gli aveva raccontato che Toni non era annegato, rialimentando antichi dubbi. Ed è altrettanto assodato che lui non si sia suicidato. Non aveva senso così lontano da casa. E poi la perizia, questa sì, voluta dal pm Raffaele Massaro, che nel 2003 aveva riaperto l’inchiesta e riesumato la salma del curato, aveva stabilito che fosse morto per soffocamento. Nel suo corpo nessuna traccia delle alghe tipiche della zona. Quindi era stato gettato nel lago già morto. Non riuscendo però a trovare i responsabili, il magistrato fu costretto ad archiviare. Chi e perché uccise Don Mario? Che cosa sapeva della morte di Toni? Ma soprattutto: perché sul senatore Bisaglia non si è mai ritornato a indagare, magari per capire chi ci fosse davvero a bordo del Rosalù? Perché secondo la testimonianza di chi raccolse l’asta con la bandiera, erano più di cinque: «Quando ci siamo avvicinati, tutti abbiamo osservato i tre o quattro individui indaffarati attorno al corpo disteso sul ponte. […] C’era un andirivieni frenetico di persone. Ho notato almeno altri quattro uomini che sistemavano i parabordi e preparavano le cime di ormeggio, mentre il “Rosalù” ripartiva a tutta forza in direzione di Santa Margherita. Rammento che a un certo punto qualcuno è sceso sottocoperta, poi è ricomparso. In tutto, direi che sulla barca c’erano otto o nove persone».

E poi: da dove scaturirono i presagi di morte dello stesso senatore pochi giorni prima della tragedia? «La mia vita non è così sicura», aveva detto a due interlocutori sulla sua auto mentre parlavano del futuro della DC. Era il 4 giugno 1984. Due settimane più tardi, mentre cammina per Rovigo insieme a una giovane leva del partito, fa: «Qui fra qualche giorno metteranno la mia lapide». Un uomo ambizioso, nel pieno della carriera, pronto a dare battaglia e a prendersi anche le rivincite su qualche collega di partito, non nutre pensieri così nichilisti per il suo avvenire se non in presenza di fondate ragioni.

Come non ne avrebbe avuti Ugo Niutta. Sennonché la mattina del 4 novembre 1984 è rinvenuto cadavere in una suite dello sfarzoso Grosvenor House Hotel di Londra. Rapida e sommaria l’inchiesta della magistratura britannica. Suicidio per overdose farmacologica. Secondo i coroner di Sua Maestà al grand commis di Stato sarebbero state fatali le eccessive assunzioni di un tranquillante, il Lorazepan, e di un antispasmodico, l’Orphenadrine, ingeriti dopo aver scoperto di essere afflitto dal morbo di Parkinson. Due medicinali che però, anche se presi in dosi da cavallo, non uccidono. Ma allora com’è morto Niutta? E c’è qualche legame con la fine dell’amico Toni?

Innumerevoli interrogativi sono incagliati sui fondali delle melmose acque della Prima Repubblica. Ma dopo decenni di omertà l’unica risposta arriva da Venditti. E alle sue parole per Berlinguer: «L’unica cosa che resta è un’ingiustizia più vera».

FONTI

C. Brambilla, D. Vimercati, Gli annegati – Il giallo dei Bisaglia e altri misteri, Milano: Baldini&Castoldi, 1992.

Senato della Repubblica – VIII Legislatura – Resoconto Stenografico

Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla Loggia Massonica P2