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Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
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Antonio Varisco: un osservatore privilegiato dei misteri italiani

Tommaso Nelli

Con la promozione a capitano, l'ufficiale entrerà, fin dall’inizio e senza poterlo sapere, nella stagione più torbida e incandescente della nostra storia recente

Antonio Varisco. Un nome, una password. Per accedere ad almeno un ventennio di storia d’Italia. Perché immettendo le sue generalità nel database della Prima Repubblica, si aprono numerosi files degli anni Sessanta e Settanta dal contenuto talvolta cronachistico, ma sovente enigmatico, oscuro e misterioso. L’esatto contrario della personalità risoluta, brillante e generosa di quest’ufficiale nato a Zara (Dalmazia) il 29 marzo 1927 e arrivato in Italia a causa dell’esodo giuliano-dalmata alla fine della seconda guerra mondiale.

EFFICIENZA E PROFESSIONALITÀ. AL COMANDO DEL NUCLEO TRADUZIONI E SCORTE

Fisico atletico, capelli biondi e occhi chiari, terminati gli studi Varisco sceglie l’Arma dei Carabinieri e, dopo alcune esperienze in Calabria e nel viterbese nelle quali i superiori lo elogiano per l’efficienza e la professionalità, approda a Roma. È assegnato alla stazione all’interno del Palazzo di Giustizia come comandante del Nucleo Traduzioni e Scorte. Ha il compito di organizzare il trasferimento dei detenuti dalle carceri alle aule di giustizia, dove è responsabile dell’ordine pubblico durante le udienze, e viceversa. È lui ad accompagnare, rispettivamente a Ventotene e Porto Azzurro, Raoul Ghiani e Giovanni Fenaroli, condannati all’ergastolo per l’omicidio della moglie di quest’ultimo, Marta Martirano. È il «mistero di via Monaci», traversa di Roma vicino piazza Bologna, dove la donna fu ritrovata uccisa nella sua abitazione la mattina dell’11 settembre 1958. Il processo decreta il fine pena mai per i due uomini. Fenaroli morirà in carcere nel 1975, Ghiani nel 1984 riceverà la grazia presidenziale da Sandro Pertini.

Siamo alla metà di settembre del 1963, Varisco è ancora tenente, ma gode già della stima dei magistrati capitolini. Negli anni precedenti il giudice Giuseppe De Gennaro lo aveva inviato a Bolzano a recuperare documenti per il processo a sette simpatizzanti neonazisti autori di alcuni attentati dinamitardi a Roma. Nel 1964 è incaricato di consegnare documenti alla Camera dei Deputati (scandalo delle importazioni di tabacco dal Messico) e notificare atti a singole personalità (casi di peculato nel mondo della sanità).

IL MALORE DI MICELI E LA «DECISIONE AUTONOMA» DI VARISCO

Tanta alacrità vale la promozione a capitano, carica con la quale entra, fin dall’inizio e senza poterlo sapere, nella stagione più torbida e incandescente della nostra storia. Quella delle stragi e del terrorismo. 12 dicembre 1969, piazza Fontana, Milano. Una bomba esplode nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, provocando 17 morti e 88 feriti. I giudici di Roma lo spediscono a Milano per notificare il mandato di comparizione a Valpreda, ma le cronache riportano anche accertamenti svolti in altre città del Centro-Nord d’Italia. Siamo al prologo di altre inquietudini. Come la «Rosa dei Venti», un’organizzazione segreta di stampo neofascista sospettata di tramare un colpo di Stato. Avviata nel 1973 dalla procura di La Spezia, l’inchiesta decolla a Padova grazie al giudice Giovanni Tamburino, che acquisisce molti indizi al punto da arrestare nell’ottobre dell’anno seguente il generale Vito Miceli, capo del SID, il servizio segreto dell’epoca, per cospirazione contro lo Stato. Ne predispone l’interrogatorio e spetta a Varisco accompagnarlo dai Sette Colli ai Colli Euganei. Sennonché, usciti da Roma, sulla Cassia, il generale accusa un malore. Invece di raggiungere il pronto soccorso più vicino, Varisco opta per il dietrofront e rientra a Roma, facendo allertare l’ospedale militare del Celio, dove Miceli sarà ricoverato e interrogato nelle settimane successive dai giudici patavini. Alle curiosità dei cronisti risponde: «La mia è stata una decisione autonoma». Ma da che cosa fu originata? Per la cronaca, l’inchiesta sulla «Rosa dei Venti», su disposizione della Corte di Cassazione, sarà trasferita da Padova a Roma, dove si concluderà con un nulla di fatto. Miceli sarà assolto con formula piena nel 1984.

UN VERO E PROPRIO «FARO» PER MOLTI MAGISTRATI

Intanto nella notte del 4 agosto 1974, all’altezza di San Benedetto Val di Sambro, era esplosa una bomba sul treno Italicus: 12 morti e 48 feriti. Altro sangue e altro lavoro per Varisco, che aveva collaborato col collega Vincenzo Cagnazzo in un segmento delle indagini. E se Di Pietro e il «pool» di Milano sono ancora di là da venire, i miasmi delle tangenti si fanno comunque sentire. Nel 1976 scoppia lo scandalo «Lockheed», dal nome della compagnia aeronautica statunitense che pagò mazzette a una serie di esponenti politici e delle forze armate per favorire l’acquisto, da parte del Ministero della Difesa, di aerei militari da trasporto C-130. Il giudice Ilario Martella, che a inizio anni Ottanta avrebbe condotto l’inchiesta sull’attentato al Papa, spedisce Varisco a Sanremo per prendere Maria Fava, l’amministratrice della società fantasma di uno degli indagati della vicenda. Insieme ad altri imputati, lui sarà condannato dalla Corte Costituzionale. Lei, invece, assolta.

A piazzale Clodio, nuova sede della giustizia romana che ha lasciato soltanto alla Corte di Cassazione uno storico «Palazzaccio» sempre più alla deriva strutturale, il tenente fresco colonnello (la promozione era arrivata a inizio 1976 dopo aver bruciato i tempi da maggiore) è un faro per gran parte dei magistrati. A cominciare da Domenico Sica al quale, oltre all’aspetto professionale, è legato da un rapporto di amicizia. Giuseppe Pizzuti gli affida alcuni accertamenti su un’altra brutta quanto vischiosa storia: lo scandalo delle intercettazioni telefoniche abusive, che porta allo scoperto microspie addirittura sulle linee della Corte Costituzionale e del Quirinale. Il sostituto procuratore Scopelliti il 1°luglio 1976 lo vuole con sé, quando si reca nel caveau della Banca d’Italia per ispezionare il «Tesoro della Corona». Più di una lettera anonima voleva alterati i gioielli di casa Savoia. Ma dall’ispezione risulta tutto in regola.

DA ROMA A MILANO. LA CONOSCENZA CON CEFIS

Nel frattempo l’estremismo politico cresce sempre più nei suoi deliri. Il 28 febbraio 1975 a Roma, mentre è in corso il processo per il rogo di Primavalle, scoppia una baruffa fuori dall’aula tra militanti di estrema sinistra ed estrema destra. Varisco ne separa un paio. Uno è Alvaro Lojacono, il compagno «Varo»  non ancora «Otello», attivista di Potere Operaio e figlio di Giuseppe, funzionario del PCI. Alle 13:30, al termine di via Ottaviano, un colpo di pistola alla tempia uccide uno studente greco simpatizzante del FUAN, Mikis Mantakas. Lojacono sarà condannato in via definitiva per l’omicidio assieme a un altro esponente, Fabrizio Panzieri. Ma nella ricostruzione del delitto quanto fu tenuta in considerazione la verbalizzazione di Varisco che vuole Lojacono con lui fino alle 13? È dunque possibile che in mezz’ora abbia percorso il chilometro e mezzo tra il Tribunale e il luogo dell’assassinio, si sia procurato la pistola e abbia sparato a Mantakas?

Da Roma a Milano. Pur ricoprendo un ruolo d’importanza centrale nel funzionamento della macchina giudiziaria, Varisco sale anche nel capoluogo lombardo. Dove una fonte attendibile ha raccontato di averlo visto in più di un’occasione nei cortili della SNAM di San Donato Milanese insieme a un uomo poi riconosciuto, in foto, in Eugenio Cefis. Come si erano conosciuti? E quali erano le ragioni dei loro incontri? Presidente di ENI e poi di Montedison e tra gli uomini più influenti dell’epoca, Cefis era solito affittargli a un prezzo simbolico la casa di Sperlonga dove Varisco, scapolo e affezionato alle quattro sorelle, andava in vacanza con Cristina Nosella, trent’anni meno di lui, con la quale intraprende una relazione nella seconda metà degli anni Settanta. La ragazza collabora con una rivista che fino a quel momento era stata un’agenzia d’informazione: OP – Osservatore Politico. A dirigerla, un avvocato molisano con la passione per il giornalismo. Carmine Pecorelli, per gli amici «Mino». Varisco è una delle sue principali fonti, il suo nome ricorre ben quarantadue volte nelle agende del giornalista dopo l’evento che cambia la storia d’Italia: il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.

UN UFFICIALE DALLE ALTOLOCATE FREQUENTAZIONI

La mattina del 16 marzo 1978 Varisco insieme al sostituto procuratore Luciano Infelisi sono tra i primi ad accorrere a via Fani dopo il rapimento e il massacro degli agenti di scorta. Nei cinquantacinque giorni del sequestro i due sono protagonisti di un altro episodio agghiacciante. Il 18 aprile, mentre uno sgangherato comunicato voleva il corpo di Moro sul fondo del lago della Duchessa, scavalcano il balcone di un appartamento della palazzina di via Gradoli 96. È il covo brigatista di Mario Moretti, il leader dell’organizzazione. Mentre balzano sul terrazzo, qualcuno dai palazzi di fronte li fotografa. L’immagine, con una ics rossa sui corpi, sarà ritrovata, sempre a Roma, il 30 maggio 1979 in un altro covo brigatista: quello di Valerio Morucci e Adriana Faranda, viale Giulio Cesare 47.

Intanto il 20 marzo 1979, a via Orazio, un killer ancora anonimo per un movente sempre ignoto, aveva messo fine alla vita di Pecorelli. Varisco con, fra gli altri, Sica, Vitalone e il procuratore capo di Roma Giovanni De Matteo, in quel momento era a cena all’Olgiata casa della signora Palma, moglie dell’industriale Franco, proprietario della Squibb. A riprova delle sue altolocate frequentazioni, che annoverano anche diplomatici. Come S.J.J. Van Voorst tot Voorst, ambasciatore dei Paesi Bassi presso la Santa Sede, abitante in un irenico maniero a pochi passi dall’Appia Antica. Secondo la scheda dell’omicidio, fatta ritrovare dal falsario Antonio Chichiarelli, Pecorelli doveva essere eliminato il 6 marzo. Ma l’operazione era saltata perché si era intrattenuto oltre il dovuto con un alto ufficiale dei Carabinieri presso un ufficio a piazza delle Cinque Lune. Era Varisco che, in base agli atti del processo per la morte del giornalista celebrato a Perugia a metà anni Novanta, aveva ottimi rapporti anche col politico democristiano Emilio Colombo, possessore di un ufficio nella piazza.

LA FINE PER MANO DELLE BR. UN INSOLITO «MODUS OPERANDI»

Per il colonnello sono giorni caldi di settimane bollenti. Dopo l’omicidio di Pecorelli s’intensificano le minacce di morte nei suoi confronti. Messaggi sotto i tergicristalli della sua BMW; scritte sui muri della casa di Sperlonga; telefonate anonime, perlopiù notturne, nella sua abitazione di via del Babuino, tra piazza di Spagna e piazza del Popolo. Forse è anche per questo clima che prende la decisione di lasciare l’Arma per un incarico di sorveglianza nel Nord Italia, presso la Farmitalia-Carlo Erba, presieduta da un altro suo amico, per un tempo anche magistrato, Ugo Niutta. Il 12 luglio è ancora a Milano. Ma s’ignora il motivo. Per perfezionare l’accordo? Per saperne di più sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona, assassinato la sera precedente? O per altro ancora?

L’indomani esce da casa di buon mattino per andare come sempre in Tribunale. Ha la macchina su via Margutta, mette in moto, attraversa piazza del Popolo e imbocca il lungotevere Arnaldo Da Brescia. Dove due 128 bianche lo affiancano, stringendolo contro le paratie del cantiere della metro. Dal finestrino posteriore della prima vettura un fucile Remington calibro 12 esplode tre colpi che lo uccidono all’istante. Sul luogo del delitto anche un fumogeno marca «15 MIN. RED HIGHWAY FLAME», ma nessuna bomba Energa come invece riportato per decenni da molti giornalisti, soprattutto televisivi. Poco dopo una telefonata svela la matrice omicida: Brigate rosse. Nel corso del Moro-bis Antonio Savasta, il compagno «Diego», rivendica l’operazione e di essere stato il killer. A guidare la sua auto Francesco Piccioni che, cercato nel 2012 tramite mail dal sottoscritto, per avere informazioni in merito, dopo essersi reso disponibile cambiò idea preferendo intraprendere la strada del silenzio. Perché?

Sull’altra vettura, Odorisio Perrotta e Rita Algranati, condannati nel Moro-Ter insieme a Cecilia Massara, che quella mattina fece da staffetta a bordo di un motorino. L’inchiesta sull’omicidio soltanto per un anno ebbe però una sua indipendenza. Poi confluì nei numerosi delitti delle Brigate rosse, privandola di un’autonomia indispensabile per fugare le fumosità del volantino di rivendicazione, le incongruenze emerse in sede dibattimentale e una serie di domande: perché i terroristi colpirono Varisco, ritenendolo organizzatore dei «Tribunali-bunker», se invece, a detta della stragrande maggioranza degli imputati, era sempre stato corretto e cordiale nei loro confronti? Non sapevano che sarebbe andato in pensione? E perché ricorsero a un modus operandi insolito per le loro sanguinarie abitudini? Infine: come facevano a sapere che quel giorno il colonnello, irregolare nelle abitudini, avrebbe compiuto quel percorso? Interrogativi che meritano un’attenzione particolare. Come essere affrontati in un altro articolo.