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L’Egitto di al-Sisi tra innovazione, tradizione e repressione

Redazione Spazio70

Al-Sisi salì al potere nel luglio 2013 grazie a un golpe militare, di chiara ispirazione laica, rientrante nella natura interventista dell’esercito del Cairo. Le vittorie «elettorali» ottenute negli anni non hanno fugato i dubbi sulla stabilità di un regime chiamato ad affrontare gravi criticità sul fronte interno e internazionale

di Tommaso Minotti

Abdel Fattah al-Sisi è salito al potere grazie a un colpo di Stato il 3 luglio 2013. A più di dieci anni dalla defenestrazione di Morsi, il generale egiziano può sembrare sia il restitutor orbis del Paese arabo sia uno spietato tiranno. In Italia questa dualità è ancora più accentuata dal tragico omicidio di Giulio Regeni e dal caso di Patrick Zaki. Due palesi violazioni dei diritti umani che hanno steso una cortina fumogena attorno al generale egiziano. Risulta di conseguenza molto difficile, nel Belpaese, tracciare un quadro completo e il più possibile oggettivo della sua presidenza, tra difensori opportunisti della ragion di Stato e sostenitori dei diritti umani a correnti alterne. Un bilancio sull’Egitto di al-Sisi, a un decennio dal golpe contro i Fratelli musulmani, è però necessario e per farlo bisogna prendere in considerazione più fattori, senza cadere nelle trappole manichee e nei facili giudizi.

Come è già stato scritto, al-Sisi salì al potere nel luglio 2013 con un Egitto vicino al collasso sociale ed economico. La Primavera araba a piazza Tahrir aveva avuto come conseguenza la caduta di Hosni Mubarak e libere elezioni. Vinse, in volata, Mohamed Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani. Il suo governo, insediatosi il 30 giugno 2012, resse a malapena un anno. Il golpe militare, di chiara ispirazione laica, rientrava nella natura interventista dell’esercito del Cairo. I primi due anni del nuovo governo furono tranquilli, con livelli di popolarità alti e un’elezione, quella del 2014, vinta con il 96 per cento dei voti. Un potere che al-Sisi ha cementato negli anni, con la conferma alle elezioni del 2014, grazie a un bulgaro 97 per cento, e il referendum costituzionale del 2019, votato positivamente dall’89 per cento degli egiziani e poco intaccato dalla bassa affluenza. Vittorie che non hanno dissipato i dubbi sulla stabilità di un regime che non disdegna la repressione, ma che deve affrontare con regolarità scossoni esterni e interni non banali.

Crisi economica con conseguenti proteste, limitati diritti sociali, civili e politici, la questione del Sinai e le pressioni internazionali sono solo alcune delle sfide che ha di fronte a sé l’Egitto. Per riuscire ad avere un quadro generale il più fedele possibile alla realtà, tuttavia, serve analizzare molto altro. Un buon punto di partenza potrebbe essere l’approfondimento della politica economica, quella interna e i rapporti internazionali.

UNA POLITICA ECONOMICA NELLE MANI DELL’ESERCITO

Al-Sisi, fotografato al Cairo, nell'aprile 2013. Il futuro presidente egiziano ricopriva la carica di ministro della Difesa

Al-Sisi, fotografato al Cairo, nell’aprile 2013. Il futuro presidente egiziano ricopriva la carica di ministro della Difesa (photo by Erin A. Kirk-Cuomo) Public Domain

Nel regime di al-Sisi il ruolo dell’esercito è di primo piano, come sempre è stato nella storia del Paese nordafricano. È un coinvolgimento totale che si riflette nell’economia, nella politica e, ovviamente, nella sicurezza. Soprattutto nel primo caso, l’economia, il vorticoso giro d’affari crea anche rivalità tra le diverse branche degli apparati di sicurezza, come verrà analizzato con più attenzione in seguito. Sotto l’occhio attento del rais, i settori dell’economia in mano ai militari hanno avuto un impulso notevole. Così si può tranquillamente affermare che la politica economica dello Stato egiziano è appaltata all’esercito, il quale viene invogliato a investire nei settori più disparati. Ciò, tuttavia, ha creato una certa competizione tra settore privato e militare-statale. Nonostante queste debolezze sistemiche, il PIL è cresciuto negli anni della presidenza di al-Sisi a una media del 4,4 per cento e anche la previsione di incremento del prodotto interno lordo per il 2023 è positiva e si attesta al 4,8 per cento. Permangono però problemi importanti, soprattutto l’inflazione che, in modalità diverse, sta colpendo un po’ tutte le zone del globo.

C’è poi la questione, spinosa, del rapporto con il Fondo Monetario Internazionale. L’FMI aveva stanziato per il Cairo dodici miliardi di dollari nel 2016 e i colloqui tra Egitto e Fondo Monetario, avvenuti tra giugno e luglio 2020, hanno avuto effetti ancora poco valutabili nella loro interezza. L’FMI ha dettato, leggermente declinate, le solite regole del Washington Consensus: riduzione del ruolo dell’esercito nell’economia, diminuzione dell’interventismo statale con la dismissione di alcune State Owned enterprises (SOe), nuove tasse sul reddito, vendita di proprietà pubbliche e taglio ai sussidi sugli alimenti. Risultati tangibili, tuttavia, non ci sono stati, anzi. La disoccupazione giovanile rimane alta, 25 per cento, mentre quella generale è su livelli medi, al 7,1. La povertà è leggermente diminuita rispetto al 2022 attestandosi al 27,3 per cento e il coefficiente di Gini, dato utile per avere un’idea del tasso di disuguaglianza, si è attestato allo 0.319, secondo la banca mondiale. Si ricordi che più la cifra è vicina all’1, più la disuguaglianza è accentuata. In parallelo, il debito nei confronti delle Nazioni estere è cresciuto. In questo contesto non facile, le riforme proposte dal Fondo Monetario Internazionale hanno avuto esiti negativi, mettendo in difficoltà lo stesso al-Sisi. Nel marzo del 2023, infatti, le fasce più povere della popolazione sono scese in piazza per esprimere la loro rabbia contro l’aumento del prezzo del pane, dovuto proprio alle imposizioni dell’FMI. Il presidente egiziano è stato così costretto a fare marcia indietro e a reintegrare i sussidi aboliti in un primo momento. Anche negli anni precedenti le linee guida dell’FMI hanno causato turbolenze nel Paese e sono state un vero e proprio grattacapo per il governo.

L’Egitto di al-Sisi si caratterizza per il ruolo dell’esercito e dei servizi d’intelligence in ambito economico, come si è accennato in precedenza. Questa peculiarità ha origini lontane. Negli anni Cinquanta e Sessanta, per aggirare gli embarghi sulle armi, l’esercito prese in mano alcuni settori dell’economia mischiandosi alle aziende private. La tendenza, iniziata con Nasser, si confermò, e si espanse, con i governi di Sadat e Mubarak. Libero dal controllo civile e favorito da un sistema statuale basato sulla centralizzazione economica, l’esercito ha avuto modo di mettere mano ad aziende in settori diversi e cruciali. Lo Stato, d’altronde, aveva una sorta di debito nei confronti dei militari che erano stati un pilastro delle politiche centraliste in ambito economico, sociale, politico e, elemento da non sottovalutare, scolastico. Questo accresciuto peso nelle attività produttive ha, tuttavia, innescato una sorta di competizione tra i vari settori delle forze armate, in special modo tra le varie agenzie d’intelligence.

IL RUOLO DEI SERVIZI SEGRETI NEL REGIME

I servizi segreti egiziani sono divisi in GID, Direzione Generale d’Intelligence, sotto il controllo presidenziale, Central Security Force, appannaggio del ministero degli Interni, National Security Agency e servizi segreti militari. Queste quattro forze si spartiscono una grande fetta di mercato in una selva di connessioni e concorrenza che è difficile districare. Al-Sisi, ovviamente, ha sempre avuto un occhio di riguardo per i servizi segreti militari, ma, dal 2013, anche GID e NSA sono intervenute pesantemente in economia, aumentando il loro peso nel campo con l’obiettivo di accedere a lucrosi affari, soprattutto in ambito immobiliare e nelle materie prime. L’intelligence militare, ad esempio, controlla il Falcon Group che si occupa della sicurezza negli aeroporti egiziani e il gruppo Tawasul che possiede giornali e televisioni. Il GID, d’altra parte, ha creato l’Eagle Capital con cui ha messo le mani sull’Egyptian Media Group, il quale a sua volta è proprietario di sedici tra giornali, televisioni e altri servizi d’informazione. Tuttavia, non è semplice capire fino a dove si spinga la rivalità tra questa moltitudine di attori. Sono, infatti, diversi i casi di collaborazione tra GID, CSF, NSA e servizi segreti militari. Un esempio è la sinergia tra il GID e l’intelligence militare nell’ambito della Qala’a Holding che si occupa di trasporti, gas, petrolio e altre materie prime.

La curiosa unione in ambito economico di esercito, servizi segreti e settore civile viene attentamente controllata da tre strutture parastatali. Anch’esse hanno una natura mista, civile e militare. Esse sono: il National Service Projects Organization, l’Organizzazione araba per l’industrializzazione e l’Engineering Authority. Istituzioni che permettono allo Stato di controllare meglio anche l’esercito, il cui protagonismo economico potrebbe risultare dannoso. Nonostante al-Sisi, infatti, abbia invogliato i militari ad investire, ciò non ha comportato un totale laissez faire per le aziende dell’esercito. Tuttavia, è impossibile non notare alcune debolezze di questo statalismo militare, elemento peculiare nella storia dell’Egitto. Qui si faranno due esempi. In primis manca quasi totalmente il coordinamento tra le diverse branche dell’esercito e dei servizi. Le quali, spesso, si fanno una concorrenza spietata data la consueta rivalità tra settori dello Stato profondo egiziano. Inoltre, i militari vengono quasi totalmente distratti dalle loro mansioni economiche che, sovente, assorbono una quantità importante delle energie dei soldati. In conclusione, l’Egitto di al-Sisi si caratterizza per una politica economica statalistica che rientra pienamente nella tradizione del Paese arabo. La novità, semmai, è nel ruolo potenziato degli apparati di sicurezza, esercito e servizi segreti.

POLITICA CULTURALE E ISLAM «NAZIONALE»

Una immagine dell’università Al-Azhar

Una immagine dell’università Al-Azhar (fonte: studioarabiya.com)

Al-Sisi ha mostrato una particolare attenzione anche per la cultura. Il punto di partenza, per un nativo della città vecchia del Cairo, non può che essere l’Islam sunnita. Nella costituzione egiziana si stabilisce, articolo due, che la fonte primaria per la giurisprudenza rimane la legge islamica. Elemento insostituibile della vita quotidiana di milioni di egiziani, la religione musulmana ha avuto sempre un rapporto travagliato con i presidenti della Nazione. Il nuovo rais, in questo senso, si colloca nella scuola di pensiero che si può sintetizzare con una frase sola: «religio instrumentum regni». L’Islam è fondamentale per la stabilità economica e sociale della Nazione. Tuttavia, e qui l’influenza dei suoi predecessori si percepisce chiaramente, al-Sisi declina in maniera molto moderata la sua religione islamica.

Per questa ragione, il presidente egiziano ha sfruttato e controllato, seppur parzialmente, il complesso groviglio di scuole, università e istituzioni islamiche noto come Al-Azhar, formato da ottomila istituti con più di due milioni di alunni all’anno. Ed è proprio in questo campo che l’attuale presidente egiziano ricorda Nasser. Il creatore dell’Egitto repubblicano era riuscito, per primo e a prezzo di sforzi non indifferenti, a piegare al suo volere l’Al-Azhar. Cosa che ha fatto anche al-Sisi grazie al suo rapporto di stretta alleanza con Ahmed Al-Tayyeb, rettore dell’università Al-Azhar dal 2003 al 2010 ed eminenza grigia della galassia islamica ancora oggi. L’Islam di al-Sisi è, quindi, nazionale e centrato sulla figura del presidente dell’Egitto. Ma il protagonista del golpe di dieci anni fa è riuscito anche a sviluppare un dialogo costruttivo con la minoranza copta. I rapporti tra il papa copto Tawadros II, cioè Teodoro II, e il presidente egiziano sono molto buoni. Anche in questo caso, l’obiettivo di al-Sisi è quello di mantenere lo status quo sociale garantendo la sicurezza della comunità cristiana.

Cruciale, per comprendere la politica culturale del presidente egiziano, è stata la sfilata delle mummie del 3 aprile 2021. Per le strade del Cairo sono passati i corpi di ventidue faraoni, e regine, trasportate dal vecchio complesso museale di piazza Tahrir al Museo Nazionale della civiltà egizia di Fustat. La parata d’oro dei faraoni aveva venature fortemente militariste. Mezzi corazzati e soldati hanno accompagnato le mummie millenarie in una capitale blindata. Ad aspettarle, a Fustat, il loro lontanissimo erede. Al-Sisi, in compagnia della guardia repubblicana, commentò così la parata d’oro: «Questa scena grandiosa è la prova della grandezza del popolo egiziano, i guardiani di questa unica civiltà si trovano nel profondo della Storia». Nell’affascinante concerto che ha preceduta la parata d’oro sono state persino incluse canzoni in lingua egizia antica, prese dal Libro dei Morti e dai Testi delle Piramidi.

LA RINNOVATA ATTENZIONE PER L’ANTICO EGITTO. IL «FARAONISMO»

La sfilata non è l’unico esempio di rinnovata attenzione per l’Antico Egitto. Sotto al-Sisi sono andati avanti i lavori per il Grand Egyptian Museum, situato tra Giza e Il Cairo. Una volta finito, il Grand Egyptian sarà il più grande museo del mondo con centomila reperti antichi su 45 mila metri quadri di superficie. Mostafa Waziri, segretario generale del Consiglio supremo delle Antichità egiziane, ha fissato l’apertura del nuovo museo per il tardo 2023, ma a oggi è visitabile per le scolaresche del Paese. Il costo totale del Grand Egyptian Museum ammonterà a un miliardo di dollari. I lavori di costruzione sono stati portati avanti della belga BESIX e dall’egiziana Orascom Construction. Il GEM non è l’unico museo recentemente inaugurato. Il già citato Museo nazionale della civiltà egizia è stato aperto proprio in concomitanza con la parata d’oro dell’aprile 2022.

L’ennesimo esempio della volontà di al-Sisi di ribadire la storia antichissima dell’Egitto, culla della civiltà, è la riapertura della Strada delle Sfingi, chiamata anche Sentiero di Dio, avvenuta il 25 novembre 2021. Quasi tre chilometri di strada, 2700 metri per l’esattezza, che collegano il tempio di Luxor a quello di Karnak. Gli scavi sono iniziati nel 1949 e sono stati finiti dopo poco più di settant’anni. Alla cerimonia era presente anche il presidente e generale, attorniato da figuranti vestiti come gli antichi egizi. Tutte queste iniziative sono una parte importante della politica culturale di al-Sisi e sono centrate attorno al concetto del faraonismo. Un’ideologia che ha lasciato varie tracce nella storia dell’Egitto contemporaneo, a partire dai tempi del protettorato britannico. Anche se, spesso, queste impronte sono sotterranee, nascoste dal panarabismo e dal socialismo. Il più importante ideologo del faraonismo fu Taha Hussein. Egli voleva un Egitto più vicino a quello dei faraoni e meno alla cultura islamica e araba. Gli esponenti del faraonismo pensavano, infatti, che l’Egitto avesse caratteristiche distinte rispetto alle altre Nazioni arabe e musulmane. L’Egitto è, in primis, un Paese mediterraneo grazie ai suoi contatti profondi e sviluppati con l’Europa. Risaltava il fascino del Vecchio Continente su pensatori che volevano una Nazione indipendente e che avevano come modello gli Stati europei. Altri due importanti rappresentanti del faraonismo furono Mustafa Kemal e Ahmad Lufti al-Sayyid. Il primo evidenziava il fatto che l’Egitto era il primo Stato civilizzato mentre al-Sayyid metteva in risalto il cuore faraonico del suo Paese.

Il faraonismo, di fatto, era un derivato del nazionalismo egiziano in un momento in cui il risveglio dei sentimenti nazionali e antibritannici del Cairo si sovrapponeva alle grandi scoperte archeologiche. Il ritrovamento della tomba di Tutankhamon nel novembre del 1922 diede un grande impulso al faraonismo. Questa ideologia aveva anche il grande merito di attenuare il valore della religione dal momento che si ispirava a un passato che era sia precristiano sia preislamico. Cancellava, dunque, un possibile fattore di divisione, e quindi di debolezza. La nuova Nazione avrebbe dovuto avere come antecedente l’Egitto dei faraoni, culla della civiltà. In tal senso ricorda molto il fenicianesimo, un movimento contemporaneo che legava il neonato Libano all’eredità fenicia e che aveva il suo fulcro nel giornale La Revue Phenicienne. Echi faraonisti si percepivano anche nel movimento Giovane Egitto, il Misr al-Fatah, fondato nel 1933 da alcuni studenti egiziani, tra cui Ahmad Hussein. Quest’ultimo insisteva in particolar modo sulle differenze esistenti tra l’Egitto e il resto delle Nazioni islamiche. Il faraonismo ebbe poca fortuna, schiacciato da panarabismo, islamismo e socialismo arabo. Ma, tra le pieghe carsiche della storia, ogni tanto questa ideologia riaffiora come ben testimoniato da al-Sisi.

IL PROGETTO DI UNA NUOVA CAPITALE

Merita un capitolo a parte l’analisi sulla costruzione della nuova capitale amministrativa, incastonata a metà tra progetto economico, culturale e politico. Anche questa mossa è diretta verso la creazione di un nuovo Egitto. Si pensa che la nuova capitale avrà 6,5 milioni di abitanti e ospiterà ministeri, ambasciate e uffici governativi. L’idea è quella di decongestionare Il Cairo, città da venti milioni di abitanti, se si tiene conto dell’area metropolitana che costituisce il Grande Cairo, destinati ad aumentare vertiginosamente nel breve-medio periodo. A metà strada tra Il Cairo e il golfo di Suez, la città in costruzione avrà 21 distretti residenziali e 25 quartieri dedicati a diversi ministeri, ambasciate e altre istituzioni, tra cui duemila attive nel campo educativo e seicento ospedali. Verrà anche costruito un fiume artificiale, a imitazione del Nilo, e uno stadio da 93mila posti che richiama l’incoronazione di Nefertiti, altro eco del faraonismo.

Lo skyline sarà costellato da grattacieli, tra cui la Torre Iconica, alta 394 metri e ricalcata sul modello dell’obelisco di Luxor. La torre verrà costruita dalla China State Engineering Company. Fondamentali saranno i collegamenti ferroviari e l’energia solare, assicurata da milioni di pannelli. Il costo previsto è di 40 miliardi di dollari. A dirigere i lavori c’è un organismo: la Capitale amministrativa per lo sviluppo urbano. E chi controlla questa importante istituzione? Ovviamente l’esercito, insieme al ministero dell’edilizia abitativa. L’apporto dei militari è decisivo soprattutto per l’ottenimento delle materie prime come acciaio e cemento. È difficile capire chi effettivamente beneficerà di questa nuova capitale dai costi elevatissimi e dalla avveniristica progettazione. Di sicuro l’esercito guadagna potere e denaro, ma è anche vero che la popolazione potrebbe essere aiutata da nuove opportunità di lavoro e da un Cairo meno congestionato.

IL GRANDE «ATTIVISMO» IN POLITICA ESTERA

Il presidente egiziano Al-Sisi con il presidente Usa Joe Biden in occasione del Consiglio di cooperazione del Golfo tenutosi a Jeddah, Arabia Saudita (16 luglio 2022)

Al-Sisi con il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in occasione del Consiglio di cooperazione del Golfo tenutosi a Jeddah, Arabia Saudita, il 16 luglio 2022 (White House, Public Domain)

Appena arrivato alla presidenza, al-Sisi si impegnò a stringere legami più profondi con Kuwait, Emirati Arabi Uniti e, soprattutto, Arabia Saudita. Per suggellare il nuovo rapporto con Riyad, il neopresidente optò per la cessione delle isole Sanafir e Tiran alla Nazione della Mecca chiudendo così un contenzioso decennale. In cambio, le petrolmonarchie hanno aiutato Il Cairo con una prima tranche da 12 miliardi di dollari, saliti presto a 42. L’Egitto di al-Sisi ha poi confermato il sostegno al generale libico Haftar, contro il governo riconosciuto dall’Onu di Tripoli, e non ha rinunciato al tradizionale sostegno statunitense. L’obiettivo primario dell’attuale politica estera egiziana è la riduzione dei pericoli interni ed esterni, chiaro segnale del profondo legame tra i due campi. Non sempre, tuttavia, gli interessi del regime sono quelli della Nazione e ciò può mettere in difficoltà anche al-Sisi.

Degno di approfondimento è il rapporto tra Il Cairo e Teheran. Rouhani visitò l’Egitto durante la cerimonia di insediamento di al-Sisi e quella fu solamente la seconda visita di un presidente iraniano in Egitto dal 1980. E qualcosa evidentemente si è mosso. Nel luglio 2021 sono usciti report che hanno segnalato la visita di membri dell’intelligence iraniana al Cairo. Poco meno di anno dopo, nel giugno 2022, durante una conferenza sulla sicurezza tenutasi in Oman e a cui era presente lo stesso al-Sisi, ci sono stati dialoghi laterali tra la delegazione iraniana e quella egiziana. Ancora a novembre 2022 il vicepresidente iraniano ha incontrato alcuni esponenti di primo piano dei servizi segreti egiziani. Questa continua intensificazione di contatti è proseguita nel 2023 e si parla di una visita o di un incontro tra il presidente egiziano e Ebrahim Raisi da tenersi a breve termine.

Vale la pena analizzare anche due altre direttrici della politica estera del rais, solo apparentemente in contraddizione, ma in realtà complementari e perfettamente inserite nell’idea multipolare dell’Egitto. Al-Sisi, infatti, ha approfondito i rapporti tra Il Cairo e l’India. Recentemente, a giugno 2023, il primo ministro indiano Narendra Modi ha ricambiato la visita del presidente egiziano nel gennaio 2023. I dialoghi, avvenuti ai massimi livelli, hanno avuto diversi risultati. In primis la promessa di approfondire la cooperazione con un aumento degli investimenti indiani in Egitto, soprattutto in ambito commerciale e tecnologico. Gli investimenti di Nuova Delhi in Egitto ammontano già a 3,15 miliardi di dollari, ma la cifra è destinata a salire. I progetti futuri, infatti, includono una centrale a idrogeno dal valore di dodici miliardi di dollari. L’India è il settimo partner commerciale dell’Egitto con un volume da sette miliardi e ciò rende l’idea delle potenzialità di un accordo commerciale più chiaro e profondo. Al-Sisi è stato anche ospite d’onore di Modi durante la parata militare per Festa della Repubblica indiana, durante la quale è sfilato un battaglione egiziano. Testimonianza della rinnovata amicizia tra le due Nazioni.

TRA CINA E STATI UNITI

Quasi in parallelo, l’Egitto di al-Sisi ha anche approfondito i legami con la Cina. L’ultima visita risale al dicembre 2022 quando Xi Jinping ha incontrato il presidente egiziano. Anche qui il tema è stato l’aumento degli investimenti cinesi nell’ambito della Belt and Road Initiative. Il commercio e la cooperazione militare sono i due settori più coinvolti dagli investimenti di Pechino in Egitto. Negli ultimi dieci anni, cioè nel corso della presidenza di al-Sisi, i legami sino-egiziani hanno avuto un grande impulso. Una delle prime visite del nuovo dominus della politica egiziana all’estero fu proprio in Cina, nel dicembre 2014. A Pechino, al-Sisi firmò un accordo strategico fondamentale. Due anni dopo, nel 2016, furono ufficializzati progetti per miliardi di dollari che saldarono il rapporto tra la Cina e la popolosa Nazione araba. Ventuno accordi per quindici miliardi di dollari tra zone industriali e centrali elettriche. Il volume del commercio tra Pechino e Il Cairo è in costante aumento così come le esportazioni dell’Egitto nel Celeste Impero. Un ruolo decisivo è stato affidato a due istituti bancari: la China Development Bank e l’Asian Infrastructure Investment, colonne della Belt and Road Initiative. Le due banche hanno anche partecipato all’accordo tra governo egiziano e Fondo Monetario Internazionale. La Cina vuole rendere l’Egitto di al-Sisi un suo stretto partner in ambito economico e militare.

Finché ha retto l’equilibrio, al-Sisi ha fatto un buon lavoro nel rimanere in equilibrio tra Stati Uniti e Cina. Il tono dello scontro tra Washington e Pechino è però destinato ad aumentare soprattutto dopo che finirà la guerra russo-ucraina. E sarà in quel momento che il presidente egiziano dovrà essere bravo a mantenere equidistanza, l’unico modo per riuscire a evitare pericolose e controproducenti alleanze. Al-Sisi può contare sulla posizione geografica del Cairo, allo stesso tempo condanna e assicurazione di centralità dato che il canale di Suez rimarrà sempre un’arma geopolitica difficilmente pareggiabile.

INTERROGATIVI E «CONI D’OMBRA»

Non si può concludere un bilancio dell’opera di al-Sisi, per quanto abbozzato e limitato, senza menzionare i coni d’ombra del regime nato nell’estate del 2013. Il rais non ha esitato a usare la repressione per mettere il bavaglio a giornalisti e sindacati. Lo stesso ruolo dell’esercito ha spinto molti analisti a sottolineare la natura invasiva dei militari egiziani. Il settore dell’economia privata, in questo senso, ha subito l’offensiva statale. Non che questo sia un male a prescindere. Tuttavia, non ci sono state quelle manovre redistributive che dovrebbero essere naturali per uno Stato che interviene così pesantemente in ambito economico.

Lo stesso rapporto tra l’Egitto di al-Sisi e la Cina è foriero di dubbi. Come inserire lo sfruttamento della rivalità tra Pechino e Washington in una politica estera che ha l’obiettivo della stabilità? Come scegliere tra un alleato storico e saldo come gli Stati Uniti e una Nazione che porta soldi e lavoro come la Cina? E altre domande emergono se si analizza la costruzione della nuova capitale. È una gigantesca speculazione edilizia o un’occasione per creare un Egitto nuovo? Ma alcuni punti di riferimento rimangono. Il presidente egiziano è riuscito, per adesso, nella difficile opera di aumentare le competenze dell’esercito senza creare un fronte d’opposizione credibile. Ha saputo anche dirottare le energie dei militari verso l’economia e verso la pacificazione del Sinai, dove l’esercito sta portando avanti progetti bellici e civili.

Al-Sisi ha puntato su una politica interna statalista e clientelare, tipica di tutti i presidenti repubblicani egiziani, e su una politica estera autonoma e multidirezionale. Il bilancio dei primi dieci anni al governo è, dunque, complesso e sfaccettato tra crisi economica, nuove alleanze e orizzonti nebulosi. Il fine è sempre il solito: stabilizzare il regime e l’Egitto. Sarà possibile conciliare i due obiettivi nel lungo termine?