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Bologna, 2 agosto 1980. Quarantadue anni e un’esigenza di verità sempre più forte

Tommaso Nelli

Soltanto attraverso la conoscenza di ogni suo singolo passaggio, sarà fatta piena luce sulla strage della stazione

L’orologio è ancora lassù. Sulla facciata centrale dell’edificio che guarda la piazza. Segna sempre la stessa ora: le 10:25. Quelle del 2 agosto 1980, quelle di un sabato di estate, quelle di un istante che spezzò la vita di ottantacinque persone: le vittime della strage della stazione di Bologna. A ucciderle, la deflagrazione di 23 kg di esplosivo all’interno di una valigia lasciata nella sala d’aspetto della seconda classe. Duecento i feriti e non quantificabile la disperazione di una città simbolo di cultura e vitalità, ma che seppe subito rialzare la testa e che da quel giorno è impegnata a conoscere la verità su una tragedia definita dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, “l’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia”.

Quel gesto così infame e vigliacco piegò ancora di più su sé stesso un Paese appena devastato (27 giugno 1980) dalla strage del DC9 “Itavia” (ribattezzata grossolanamente “strage di Ustica”) e da altri tre drammi analoghi in poco più di un decennio: piazza Fontana, Milano, 12 dicembre 1969; piazza della Loggia, Brescia, 28 maggio 1974; treno “Italicus”, San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974. Bilancio complessivo: 37 morti e 238 feriti nel nome della “strategia della tensione”. Vale a dire quel periodo dell’Italia del secondo dopoguerra caratterizzato dalla destabilizzazione dell’ordine pubblico con eventi dinamitardi finalizzati a incutere timore nei cittadini e indurli ad accettare l’eventuale insediamento di un governo autoritario mediante un colpo di Stato. E Bologna presenta inquietanti similitudini con Brescia, Milano e l’Italicus. A cominciare dalla natura dell’episodio, un attentato che colpì mortalmente un enorme numero di civili. Cioè persone estranee da ogni legame con chi volle e piazzò quella bomba. Persone che, senza la loro volontà, si trovarono nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Al loro posto avrebbe potuto esserci chiunque apprese quella notizia dalla radio o dalla tv, reagendo con sdegno e venendo pervaso dalle sensazioni cercate dagli assassini: pericolo, paura, terrore.

DOPO I NAR, L’AVANGUARDISTA BELLINI

Paolo Bellini

Ma chi piazzò quel bagaglio pieno di tritolo, “T4” e gelatinato? Come per piazza Fontana e piazza della Loggia, anche per Bologna le inchieste giudiziarie sono state sì impervie, ma comunque instancabili. E sono approdate a dei risultati. Alcuni parziali, altri definitivi. Partiamo da questi ultimi. Il 23 novembre 1995 la Corte di Cassazione condannò all’ergastolo, come esecutori della strage, due tra i principali esponenti dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), formazione eversiva di estrema destra: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. A loro, l’11 aprile 2007, al termine di un tortuoso iter giudiziario, la Suprema Corte aggiunse un altro terrorista nero: Luigi Ciavardini. Minorenne all’epoca del fatto, fu ritenuto colpevole di concorso in strage anche se fu assolto dall’accusa di aver piazzato l’ordigno.

Salto in avanti al 9 gennaio 2020. Quando la Corte di Assise del Tribunale di Bologna ha inflitto l’ergastolo anche a Gilberto Cavallini, altro ex NAR, dal 1983 in carcere per altri reati e oggi in semilibertà. Secondo i giudici, ospitò Mambro e Fioravanti a Villorba di Treviso nei giorni precedenti la strage per poi procurarli dei documenti falsi e l’auto con la quale raggiunsero Bologna.

Questa sentenza apre il capitolo dei verdetti temporanei sul 2 agosto, perché al momento è ferma al primo grado. Come quella relativa al quinto elemento del commando stragista: Paolo Bellini. Reggiano, classe 1953, estremista di destra con la sua militanza in “Avanguardia Nazionale” fino allo scioglimento, reo confesso di più omicidi (come quello di Alceste Campanile, militante di “Lotta Continua”, nel 1975), fuggito all’estero sotto falso nome (Brasile, Roberto Da Silva) e rientrato in Italia per mettersi al servizio di ‘ndrangheta e Cosa Nostra all’alba delle stragi (inizio anni Novanta), fu indiziato per la bomba alla stazione fin da subito. Uscito dall’elenco dei sospettati nell’aprile 1992, vi è rientrato nel corso dell’ultima inchiesta giudiziaria a seguito soprattutto di due testimonianze. La prima è un’intercettazione ambientale proveniente dalle indagini sulla strage di piazza della Loggia. Uno dei colpevoli, l’ordinovista Carlo Maria Maggi (oggi defunto), raccontò al figlio che Bologna fu roba della “banda Fioravanti” e che era coinvolto anche “l’aviere”. Si riferisce proprio a Bellini, pilota di aerei con tanto di brevetto, che nei suoi voli dava passaggi anche al procuratore capo di Bologna nei giorni della strage, Ugo Sisti, amico di famiglia perché in rapporti col padre di Paolo (Aldo), storico militante della destra emiliana.

LA MOGLIE RICONOSCE BELLINI, LA NIPOTE NON PARLA

Bologna 2 agosto 1980: cittadini e vigili del fuoco trasportano all’esterno della stazione uno dei feriti poco dopo l’esplosione della bomba (autori: Beppe Briguglio, Patrizia Pulga, Medardo Pedrini, Marco Vaccari; fonte: stragi.it)

La seconda testimonianza, determinante per l’esito del processo, è dell’ex moglie di Bellini, Maurizia Bonini. La donna ha riconosciuto l’ex coniuge, col quale ebbe una relazione non priva di burrasche, nel filmato amatoriale girato pochi minuti prima dell’esplosione da un turista svizzero a bordo del treno in arrivo al binario 1. Quelle riprese di pochi secondi inquadrarono le persone in transito sulla banchina, fra le quali c’era anche un uomo con i baffi neri e i capelli folti e scuri. Per Bonini era l’ex consorte anche in virtù della fossetta sul mento, presente – a suo dire – pure nel volto dell’uomo del video.

Una versione diametralmente opposta rispetto a quella che aveva fornito nel 1983, dalla quale si desunse che all’ora della strage lei, Bellini, i loro figli e la nipote Daniela erano in viaggio da Rimini verso il Passo del Tonale per una vacanza. Che si tenne, ma che secondo la versione rilasciata in questi ultimi anni li vide partire dalla cittadina romagnola intorno alle 12:30 a causa del ritardo di Bellini. Un orario quindi compatibile con la sua presenza a Bologna. A supportare questa versione, la testimonianza del fratello della Bonini, che ricorda come la mamma, in villeggiatura con tutta la famiglia a Torre Pedrera (località a dieci minuti di auto da Rimini), accompagnò la figlia e i nipoti all’appuntamento col genero e ritornò all’hotel in ritardo rispetto all’orario del pranzo, tanto da avere una breve discussione sul punto col marito.

Bellini, mai stato ascoltato dai giudici durante il dibattimento, ha sempre negato di essere l’uomo di quei fotogrammi. Alle 6:30 del 2 agosto 1980, secondo le sue memorie agli atti, a Scandiano (paese in provincia di Reggio Emilia) prese in custodia la nipotina Daniela (nove anni) dalla cognata, che doveva andare dal marito (fratello di Bellini) ricoverato in ospedale a Parma. Poi si spostò a Rimini da dove, tra le 9 e le 9:30, partì per il Tonale insieme alla moglie, al figlioletto e alle due bimbe. Una ricostruzione smentita in aula, dove però non si è risposto a una domanda precisa e importante: Bellini, mentre si trovava alla stazione di Bologna, a chi lasciò Daniela? La diretta interessata, oggi signora di mezza età, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Certo è che, se fosse stata con lo zio, sarebbe rimasta traumatizzata a vita dall’eccidio e ne sarebbe stata fin da subito la prima involontaria testimone, parlandone e inguaiando così Bellini, che avrebbe fatto anche la figura del folle. Perché soltanto un pazzo metterebbe a repentaglio la vita di una bambina, portandola con sé in un’azione terroristica.

IL RUOLO DELLA P2

Foto segnaletiche di Licio Gelli all’epoca della sua evasione dal carcere svizzero di Champ-Dollon nel 1983

Questo mistero però non deve esserci. Perché indebolisce la ricostruzione dei fatti, rivelandosi un inciampo nel raggiungimento della verità. E perché la strage della stazione di Bologna, di misteri, ne ha avuti e ne ha ancora troppi. A cominciare dalla connessione tra gli esecutori e i mandanti. Ovvero l’oggetto principale del procedimento concluso con la condanna di Bellini, cominciato dopo il 26 ottobre 2017 e al centro di una storia particolare. Quel giorno il GIP del Tribunale di Bologna doveva decidere se accogliere o meno la richiesta di archiviazione per gli architetti della strage. A sorpresa, si pronunciò a favore dell’avocazione richiesta dalla Procura Generale del capoluogo felsineo che, di fatto, sostituì i colleghi della Procura ordinaria nella titolarità del fascicolo. Dopodiché iniziò una serie di capillari indagini, concluse con l’iscrizione nel registro degli indagati di quattro persone, tutte iscritte alla loggia massonica P2: Licio Gelli, il “Venerabile”, capo della loggia; Umberto Ortolani, banchiere e suo braccio destro; Federico Umberto D’Amato, già al vertice dell’Ufficio Affari Riservati, il servizio di intelligence del Ministero dell’Interno; e Mario Tedeschi, direttore del settimanale di destra “Il Borghese” nonché senatore dell’MSI (Movimento Sociale Italiano). I quattro sarebbero stati i mandanti-organizzatori e i mandanti-finanziatori della strage. La P2 avrebbe iniziato a concepirla nel febbraio 1979. Decisivo, da quanto emerso, un appunto con la scritta “Bologna” riferito a Gelli e rinvenuto tra i fascicoli dell’inchiesta giudiziaria sul crack del Banco Ambrosiano conservati nell’archivio del Tribunale di Milano. Da quell’indizio i magistrati, grazie anche ad alcune rogatorie internazionali (Svizzera), avrebbero dipanato il filo dei legami sotterranei tra la P2, il mondo dell’eversione nera ed ex agenti segreti, ricostruendo anche le ingenti quantità di denaro sborsate per l’operazione, che ammonterebbero a diversi milioni di dollari.

In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, una certezza. La posizione dei quattro è stata archiviata, perché nel frattempo sono tutti morti. Come Quintino Spella, ex generale del SISDe, indagato dalla Procura Generale per depistaggio al pari dell’ex carabiniere Piergiorgio Segatel, in vita come Domenico Cataracchia, amministratore di una serie di immobili in via Gradoli a Roma e reo di false informazioni ai pubblici ministeri per sviare il loro lavoro. I due sono stati condannati, rispettivamente, a sei e quattro anni di carcere.

LE TANTE DOMANDE INEVASE

Su Gelli, comunque, è importante ricordare che per la strage di Bologna era stato condannato nel 1995 dalla Corte di Cassazione a dieci anni per calunnia aggravata, e finalizzata ad assicurare l’impunità agli autori della strage, insieme a due ufficiali dei servizi segreti, il generale Pietro Musumeci (piduista) e il colonnello Giuseppe Belmonte, e a un collaboratore dei Servizi, il faccendiere Francesco Pazienza. I quattro si attivarono per impedire l’accertamento della verità sulla morte di ottantacinque persone e sul ferimento di duecento. Non proprio una roba da pacche sulle spalle, ecco.

Spalle che non si possono nemmeno scrollare davanti a tante domande ancora inevase. A cominciare dalla più semplice: perché Bologna? “Quando”, “dove” e da che cosa nacque l’idea della strage? I mandanti operarono in autonomia o si avvalsero della copertura di altri soggetti? Eventualmente, quali? Perché scelsero la città delle Due Torri e perché proprio la data del 2 agosto 1980? Perché si rivolsero ai NAR e non solo (si parla anche del coinvolgimento di ex militanti di “Terza Posizione” e “Ordine Nuovo”)? Chi curò i rapporti sia da una parte che dall’altra? Quando Mambro e Fioravanti accettarono l’orrendo disegno? “Dove” e “quando” avvenne la consegna dell’esplosivo? “Chi” lo prese e “dove” fu custodito? “Chi” e “quando” lo portò a Bologna? “Chi” piazzò la valigia nella sala d’aspetto della stazione? E poi: perché gli ex NAR condannati, che hanno riconosciuto i loro crimini (come, fra gli altri, l’assassinio del giudice Mario Amato e del poliziotto Franco Evangelista), per il 2 agosto continuano a negare ogni responsabilità? Infine, considerando che Mambro e Fioravanti hanno estinto la loro pena, una domanda per i legislatori di questo Paese (i parlamentari): è normale che in uno Stato che si professa democratico e civile, uno stragista ufficialmente riconosciuto possa ritornare a essere una persona libera?

Sono tutti interrogativi che esigono una risposta. Perché la verità su un fatto passa attraverso la piena conoscenza di ogni suo passaggio, non da una ricostruzione lacunosa o dall’accostamento arbitrario e – ahinoi – talvolta suggestivo di molti degli episodi che lo caratterizzano. E perché la verità è un orologio che segna l’ora giusta soltanto se i suoi ingranaggi sono al loro posto, in funzione e in sincronia l’uno con l’altro. Altrimenti potranno trascorrere altri quarant’anni e potranno esserci altre innumerevoli inchieste, ma le sue lancette rimarranno sempre ferme. Come quelle dell’orologio fuori la stazione di Bologna.