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Mistero della fede – L’attentato al Papa e le sue ombre. La falsa «pista bulgara»

Tommaso Nelli

Internazionalmente conosciuta come «Bulgarian Connection», l'indagine su un coinvolgimento dei servizi bulgari decolla il 28 ottobre 1982 quando Alì Agca fa il nome di un certo Sotir Kolev, a suo dire incontrato a Sofia nel luglio 1980, e additato come suo complice in piazza S. Pietro

Alì Agca

La pista più battuta? Un depistaggio. D’autore. Tra le poche certezze sull’attentato al Papa c’è il bluff della cosiddetta «pista bulgara». Tenne banco per cinque anni. Dal novembre 1982 al 19 dicembre 1987, quando la Corte di Appello del Tribunale di Roma confermò l’assoluzione di tre cittadini bulgari accusati da Alì Agca di essere stati suoi complici nel tentato assassinio di Giovanni Paolo II. Un verdetto già espresso in Corte di Assise (29 marzo 1986), ma con una motivazione – insufficienza di prove – che lasciò perplessi molti osservatori e in sospeso altrettanti interrogativi sulla regia che armò la mano del killer turco. Che volto aveva? Perché voleva eliminare il Pontefice? Come mai si avvalse proprio di Agca e di un piano così plateale? E che c’entrava la Bulgaria? Come si arrivò a quei tre uomini?

UN ALBUM FOTOGRAFICO CON CINQUANTASEI FOTO DI CITTADINI BULGARI RESIDENTI IN ITALIA DAL 1977

Sergej Antonov

La «pista bulgara», internazionalmente conosciuta come «Bulgarian Connection», decolla il 28 ottobre 1982 quando Alì Agca, al giudice istruttore Ilario Martella, titolare dell’inchiesta sul tentato omicidio del Santo Padre, menziona il primo bulgaro che sarebbe stato suo complice, un certo Sotir Kolev che avrebbe incontrato a Sofia nel luglio 1980 e che addita come il suo complice in piazza S. Pietro. Cioè l’uomo armato che scappa dopo gli spari, ritratto di spalle dal fotografo statunitense Lowell Newton. Fino ad allora, nella sua criptica collaborazione iniziata il precedente 3 maggio, il turco si era limitato a dire che dietro l’attentato c’erano la Federazione degli Idealisti Turchi e i servizi segreti bulgari, i quali lo avrebbero ricompensato con tre milioni e mezzo di marchi tedeschi e l’assicurazione dell’asilo politico nella città di Varna per alcuni esponenti anatolici in esilio.

Trascorrono pochi giorni e i balcanici coinvolti salgono a tre. L’8 novembre Agca indica agli inquirenti i loro volti in un album fotografico predisposto dal SISMI (l’allora nostro servizio segreto militare) contenente cinquantasei ritratti di cittadini bulgari residenti in Italia dal 1977. Le loro identità sono coperte, ma lui riconosce un tale Bayramic, il signor Sotir Petrov e il già citato Sotir Kolev. Ma sono tutti nomi di fantasia. Perché i diretti interessati si chiamano, rispettivamente, Sergej Antonov, Jelio Vassilev e Todor Ayvazov. Il primo lavora come caposcalo alla Balkan Air, la compagnia aerea bulgara; il secondo aveva svolto la mansione di segretario dell’addetto militare dell’ambasciata bulgara a Roma dove, come capoufficio della contabilità, era impiegato anche il terzo.

Il 24 novembre il giudice Martella spicca i mandati di cattura nei loro confronti. Ma soltanto Antonov è tratto in arresto. Perché Vassilev dopo tre anni di servizio, il 27 agosto, era rientrato definitivamente in Bulgaria per un avvicendamento di routine: «È un periodo di normale durata per un funzionario d’ambasciata», dice alla stampa il 16 dicembre. Ayvazov, invece, si trova in patria dall’inizio del mese per relazionare il Ministro degli Esteri: sarebbe ritornato a Roma il 26 novembre, proprio quando a Sofia apprendono del provvedimento nei suoi confronti. Al che lo trattengono a terra. Il governo vuole che la vicenda sia chiarita. C’è fiducia nella magistratura italiana e la convinzione che si tratti soltanto di un grosso equivoco di breve durata. Ma non sarà così.

LA «RICOSTRUZIONE» DEGNA DI UN ROMANZO DI SPIONAGGIO

Un’Alfa 2000, lo stesso modello citato da Agca per la «fuga»

Nel corso delle sue numerose deposizioni, nelle quali modifica più volte il corso degli eventi aggiungendo o togliendo nomi ed episodi non appena i riscontri smontano la sua versione, Agca racconta che, arrivato a Roma domenica 10 maggio 1981 da Milano, si sarebbe incontrato subito con Ayvazov. I due sarebbero andati subito in piazza S. Pietro per un primo sopralluogo per poi trovarsi la sera a casa di Antonov in via Pola, elegante traversa dell’altrettanto distinto quartiere Trieste a poche centinaia di metri dalla sede della Balkan (viale Gorizia), dove insieme a Vassilev avrebbero messo a punto l’operazione. Nell’appartamento presenti anche la moglie di Antonov, Rossitza, e la loro figlia di otto anni. L’indomani Ayvazov avrebbe prenotato ad Agca la stanza alla pensione Isa, dove l’avrebbe accompagnato prima di incontrarsi con Vassilev e Antonov in via Barberini per poi compiere tutti assieme un’altra ricognizione su piazza S. Pietro. Il piano avrebbe previsto che dopo l’attentato sarebbero saliti su un’Alfa 2000 azzurra parcheggiata davanti all’ambasciata canadese in via della Conciliazione. Da qui avrebbero raggiunto un Tir messo a disposizione dall’ambasciata bulgara, con il quale sarebbero fuggiti dall’Italia. Martedì 12 maggio, altro meeting collettivo nei pressi del Colosseo. Dopodiché Agca, Antonov e Ayvazov ancora in piazza S. Pietro. Dove mercoledì 13 sarebbero giunti all’ora di pranzo, con l’ormai già mitologica Alfa 2000 azzurra, dopo essersi radunati in piazza della Repubblica ed essere passati dalla sede della Balkan, dove Antonov avrebbe preso una valigetta contenente due pistole e una bomba panico «non lesiva dell’altrui integrità» (Agca dixit…) da lanciare tra la folla per creare il caos e favorire la fuga. Mentre il caposcalo li avrebbe attesi al volante dell’Alfa su via della Conciliazione, Agca e Ayvazov si sarebbero mischiati tra i fedeli e alle 17:17 avrebbero esploso i colpi che ferirono il Papa e le turiste Ann Odre e Rose Halle. L’immediato arresto del turco avrebbe però vanificato la riuscita del piano.

Tutto molto suggestivo, evocatore di un fascino già di per sé intrinseco alla definizione di «pista bulgara», degna di un romanzo di spionaggio internazionale come L’uomo che venne dal freddo di John Le Carré. Peccato però che sia una magnifica invenzione. Perché la storia racconta altro. E fa crollare subito, alla prima ripresa, la ricostruzione di Agca.

Il telex che attesta la presenza di Sergej Antonov negli uffici della «Balkan» alla data del 13 maggio 1981

Il pomeriggio dell’attentato, mentre lui sparava a Karol Wojtyla, Antonov, come al mattino dove rispose a un telex arrivato due giorni prima, era negli uffici della Balkan.  La conferma arriva il 29 novembre 1982, a pochi giorni dal suo arresto, dalla collega Svetlana Blagoeva che agli investigatori specifica come avessero appreso dell’accaduto da una telefonata. Versione confermata il 18 dicembre 1982 anche da un’altra impiegata, Silva Popkresteva: «Con certezza posso dire che ho notato la presenza dell’Antonov al momento in cui mia madre ha telefonato per dire che si era verificato l’attentato al Papa». Per alcune sue caratteristiche, occhiali da vista e baffi scuri, il funzionario è accusato anche di essere l’uomo vicino ad Agca in una fotografia scattata pochi istanti prima degli spari. Sennonché, non appena l’immagine finisce sui giornali, un americano di origine ungherese scrive agli inquirenti italiani affermando di essere lui quell’uomo.

Inoltre, poiché erano giorni di volo, ogni lunedì e venerdì Antonov era di turno giornaliero all’aeroporto di Fiumicino. Era successo anche l’11 maggio, come confermato dal personale italiano presente, dai 65 passeggeri del volo Roma-Sofia e dalla risposta posticipata al telex di cui sopra. Per cui mai avrebbe potuto partecipare alla presunta riunione di via Barberini.

UN CASTELLO DI CALUNNIE

La fattura del motel «Huttup» intestata ai coniugi Krasteva e Kosta

Sgretolato già da questi riscontri, il castello di calunnie di Agca è polverizzato da altre smentite. Non ci fu alcuna riunione preparatoria a casa di Antonov, della quale sbaglia anche la descrizione confondendola con quella dell’inquilino sottostante, padre Felix Morlion, un ecclesiastico belga fondatore dell’università Pro Deo (poi trasformata in Luiss), in ottimi rapporti con la CIA. E la signora Rossitza Antonova, Akkova da nubile, quella sera non era a Roma bensì in viaggio verso Sofia con i coniugi Krasteva e Kosta. La dimostrazione arriva dal registro del motel Huttup di Staro Petrovo (all’epoca Jugoslavia, oggi Croazia) dove pernottò tra l’8 e il 9 maggio. Giova poi fare un’osservazione: quale criminale progetterebbe un attentato al Papa con in casa la moglie e la figlia di otto anni?

Oltre al bulgaro, Antonov parlava il francese e, sommariamente, il russo e l’italiano. D’inglese conosceva soltanto poche espressioni attinenti alla sua professione. Dunque come avrebbe comunicato con Agca che masticava giusto un po’ d’inglese oltre al turco? Personalità schiva, il suo medico lo aveva ribattezzato Fifì perché timoroso anche nel procacciargli pazienti nonostante la promessa di una ricompensa economica, Antonov non si era mai ambientato a Roma e divideva le sue giornate tra casa e lavoro: angosciato dal caotico traffico romano, si limitava a brevi spostamenti con la sua auto tanto da non possedere nemmeno il lasciapassare del Comune per il centro storico. Per cui mai avrebbe potuto raggiungere Agca e i connazionali a piazza della Repubblica a bordo di un’auto sportiva come un’Alfa 2000 che, oltretutto, nemmeno possedeva perché aveva una Lada, l’alter ego socialista della Fiat 124. Tra l’altro la sua permanenza capitolina, iniziata nel 1977, era agli sgoccioli, come si legge in un atto dei nostri servizi segreti del 25 novembre 1982, allegato all’inchiesta sui mandanti dell’attentato al Papa del giudice Rosario Priore: «Il citato funzionario in via di sostituzione nell’incarico per normale avvicendamento non era apparso finora sulla scena informativa né aveva dato luogo a rilievi di natura specifica». In definitiva il fantomatico Bayramic era tutt’altro che uno 007 col rischio nel sangue e pronto ad attentare la vita del capo della Chiesa cattolica sotto gli occhi del mondo

Riproduzione del registro del motel Huttup, in Jugoslavia, che attesta la presenza della Antonova (qui, col cognome da nubile, Akkova) e dei coniugi Krasteva e Kosta

Anche Ayvazov manda più volte in fuorigioco Alì Agca. Trentotto anni, basso di statura, corporatura tarchiata, carnagione chiara, capelli corti e lisci, non poteva essere il complice del turco – «capelli marrone scuro, quasi neri, “gonfi”, “vaporosi”, pelle olivastra, alto circa 1.80 mt., sui 22-26 anni» – fotografato di spalle in piazza S. Pietro. L’11 maggio 1981 si divise tra impegni all’ambasciata e la consegna a Fiumicino di una partita di biciclette destinate a Sofia e acquistate nel pomeriggio. Quindi mai poteva essere con Agca, tanto più prenotargli la stanza alla pensione Isa di via Cicerone. Anche perché aveva qualche difficoltà con la nostra lingua, come normale che sia per uno straniero proveniente da un gruppo linguistico agli antipodi da quello italico. Mentre chi chiamò la struttura, come disse il titolare M. Paganelli agli inquirenti poche ore dopo l’attentato, parlava «un perfetto italiano». Infine, il 13 maggio 1981 Ayvazov era in ambasciata dove «dalle 15 alle 18 ha ricevuto il sig. Christo Evastaviev Senko, rappresentante della Direzione Circhi Bulgari che, per conto di tre lavoranti al Circo, ha versato i diritti al governo bulgaro». Così si legge nell’istanza degli avvocati di Antonov per la sua scarcerazione, trasmessa al giudice Martella il 17 dicembre 1982. Fra quelle carte anche una ricevuta firmata dallo stesso Ayvazov, che ne attesta la presenza a via Rubens anche il 12 maggio, quando partecipò pure alla serata celebrativa in onore del soprano lirico bulgaro Raina Kabaivanska (l’anno prima si era esibita alla Scala di Milano con Luciano Pavarotti nella Tosca).

UNA ASSOLUZIONE PER INSUFFICIENZA DI PROVE

L’istanza di scarcerazione degli avvocati di Antonov, trasmessa al giudice Martella, nella quale si attesta la presenza di Ayvazov nell’ambasciata bulgara il 13 maggio 1981

All’evento aveva partecipato pure l’ultimo dei bulgari chiamato in causa, ma anch’egli estraneo a ogni coinvolgimento: Jelio Vassilev. Sia il 13 maggio che nei giorni precedenti fu impegnato in ambasciata a radiocomunicare dal suo ufficio, cioè a fare il suo lavoro, e a intrattenere relazioni diplomatiche con varie personalità. Pure su di lui Agca si rivela inattendibile. Fa verbalizzare che è alto «all’incirca m 1,80-1,85», che ha «un’ottima conoscenza dell’inglese e […] della lingua russa» e che frequenta assiduamente gli ippodromi tanto che insieme sarebbero stati anche a Capannelle. Sennonché il diretto interessato, interrogato con rogatoria internazionale in Bulgaria tra il 15 e il 17 luglio 1983, dimostra: di amare la pesca, ma «di non aver mai frequentato ippodromi»; che la sua altezza non supera 1,64 m.; e che non parla né inglese e né turco, informazione ricavabile anche da un appunto dei nostri 007 nell’inchiesta del giudice Priore, che riporta di un suo dialogo in italiano con l’addetto militare americano.

Dai fatti alla logica. Indispensabile per capirli ancora meglio. Se i tre bulgari avessero davvero partecipato al complotto per uccidere il Papa, prima di tutto, che cosa avrebbero fatto, per quattro ore, quel 13 maggio su piazza S. Pietro dove è alta la probabilità di essere notati per il perpetuo via-vai di persone? Se fossero stati davvero agenti segreti della Dăržavna Sigurnost non avrebbero certo messo il loro cognome sulla targhetta del citofono di casa, come invece afferma Agca per l’abitazione di Ayvazov di via Galiani. Dove dice di essere stato più volte salvo poi, tanto per cambiare, sbagliarne l’individuazione quando ci viene portato dagli inquirenti. Ma soprattutto non sarebbero rimasti così a lungo (quindici mesi) a Roma col rischio di essere scoperti, bensì sarebbero stati rimpatriati immediatamente.

Eppure, nonostante un quadro della vicenda così nitido, la cosiddetta pista bulgara non si esaurisce in istruttoria, ma approda in dibattimento con il rinvio a giudizio dei tre balcanici insieme ai turchi Musa Serdar Çelebi, Omar Bagci, Oral Celik e Bekir Celenk. Il 28 maggio 1985 inizia il processo, che si conclude il 29 marzo 1986 con la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati tranne Celenk, deceduto nel frattempo. Per i bulgari però si parla di insufficienza di prove. Un giudizio confermato anche in Appello. In aula, anche se non sempre per ragioni di salute, è presente soltanto il povero Antonov, provato psicologicamente dal grave errore giudiziario subìto. Non si riprenderà più dallo shock anche all’indomani della sentenza di primo grado, quando rientrerà a Sofia dove morirà ad appena 59 anni il 1°agosto 2007. Processati invece contumaci, Vassilev scomparirà in un incidente stradale nel 1995 mentre Ayvazov, secondo le ultime notizie risalenti al 2002, dopo la fine del regime comunista sbarcherà il lunario con un negozio di apparecchi fotografici a Sofia.

A questo punto è lecito dunque chiedersi: perché, nonostante l’evidente inconsistenza, fu comunque dato credito ad Agca? E perché i bulgari non furono assolti per non aver commesso il fatto? Ma soprattutto: perché la «pista bulgara» è un depistaggio e non un errore investigativo?

[Fine 1^parte – Continua qui]