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Pannella show al processo Margherito: «Questi giudici sono dei delinquenti… Arrestatemi!»

Matteo Picconi

«Il vostro è un plotone d’esecuzione, non un tribunale!»

Nella storia dei cosiddetti anni di piombo, il 1976 rappresenta senza dubbio un’annata particolare: con l’omicidio del magistrato Francesco Coco le Br alzano il tiro nella loro lotta «al cuore dello Stato»; anche il giudice Vittorio Occorsio perde la vita nel quartiere Trieste per mano di Pierluigi Concutelli, capo militare del Movimento politico Ordine nuovo, responsabile dell’agguato mortale di via Mogadiscio; dalla crisi dei vecchi movimenti studenteschi e operai, poi, cresce e si rafforza l’area dell’Autonomia, preparando così il terreno alla nuova stagione di proteste comunemente ricordata come movimento del ’77.

Manifestazioni e scontri di piazza costituiscono grosso modo lo sfondo principale su cui inquadrare il decennio più caldo della seconda metà del secolo scorso. Eppure anche dall’altra parte delle barricate, all’interno delle forze dell’ordine, gli anni Settanta costituiscono un periodo di grandi cambiamenti. Perché proprio nella metà del decennio, tra le file di una polizia ancora scelbiana, ancora militarizzata, monta il malcontento intorno alle dure condizioni di lavoro e sui temi dei diritti costituzionali negati. Al contempo prende sempre più piede una spinta verso la democratizzazione, sindacalizzazione e smilitarizzazione degli apparati di polizia. Si può parlare storicamente di un vero e proprio movimento democratico, portato avanti dai c.d. «carbonari» (così denominati per la segretezza con cui dovettero inizialmente muoversi all’interno di un ambiente fortemente conservatore e repressivo), che sfocerà alla nota riforma della polizia, la legge 121 del 1981.

In questo contesto recita un ruolo chiave la vicenda processuale di un giovane capitano della celere di Padova, Salvatore Margherito, capace di mettere a nudo le contraddizioni di una polizia ormai inadeguata rispetto alle esigenze di una società complessa com’è quella italiana degli anni Settanta. Sulla vicenda Margherito riveste un peso non indifferente l’entrata in scena di uno dei principali protagonisti della seconda fase della cosiddetta prima repubblica, il quarantaseienne leader dei radicali Marco Pannella, eletto deputato soltanto da pochi mesi, che sposerà la causa Margherito amplificandone la portata mediatica.

IL «MARGHERITO ROSSO»

Il capitano Salvatore Margherito nel corso di un’udienza

Il caso Margherito scoppia alla fine dell’estate 1976 quando su tutti i principali organi di stampa rimbalza la notizia dell’arresto di un giovane capitano di polizia. Sono proprio i giornali a recitare un ruolo chiave in tutta la vicenda: nel mese di agosto sul Resto del Carlino, L’Unità e addirittura su un inserto di Lotta Continua, vengono pubblicate alcune lettere firmate da gruppi di poliziotti, miranti a denunciare il grave clima di repressione all’interno dei reparti di polizia. In particolare viene posto l’accento su alcune drastiche misure punitive riguardanti i trasferimenti di numerosi poliziotti. Le indagini condotte dalla magistratura militare individueranno in Margherito uno degli autori principali di quelle lettere: il 23 agosto 1976 viene arrestato e rinchiuso nella caserma di Peschiera del Garda.

Nato a Torre Annunziata nel 1950, figlio di un agente della polizia ferroviaria, nel 1976 Salvatore Margherito ha ventisei anni e una carriera molto promettente dinnanzi a sé. Entrato in polizia solo l’anno precedente come tenente, ottiene in brevissimo tempo la nomina di capitano nel II reparto celere di Padova. Tacciato come un sovversivo, il Margherito Rosso ricorda ironicamente Ennio Di Francesco nel suo libro Un commissario scomodo, il giovane capitano in realtà è un poliziotto tutto d’un pezzo, dalle idee innovative per quanto riguarda la gestione dell’ordine pubblico. È un convinto democratico, certo, ma poco più che un simpatizzante rispetto al nascente movimento dei poliziotti democratici.

«Era un ufficiale giovane», lo descrive in Polizia nella Storia Gianmarco Calore, «dinamico, intraprendente e, soprattutto, si dimostrò fin dall’inizio attento ai segnali di malumore sempre più forti provenienti dai suoi sottoposti, con i quali aveva instaurato un rapporto diretto che passò ben presto dalla collaborazione all’amicizia personale. Questo atteggiamento, dopo un iniziale periodo di allineamento con le direttive del Comando, lo aveva portato ben presto a mettersi in cattiva luce con gli altri ufficiali».

Per comprendere meglio il contesto in cui matura l’arresto di Margherito, occorre mettere a fuoco cos’era e cosa rappresentava il II° reparto celere di Padova. Il più importante fra solo quattro raggruppamenti Celere in tutta la Penisola, il reparto padovano veniva considerato il gioiello della polizia scelbiana, impegnato sempre in prima linea nei principali (e più violenti) episodi di pubblica sicurezza: dalla Strage di Reggio Emilia (luglio 1962) alla dura repressione di una manifestazione di extraparlamentari a Milano nel corso della quale un lacrimogeno sparato proprio da tale raggruppamento (si facevano chiamare i «Gladiatori dello Stato») ucciderà, nel marzo 1972, il sessantenne Giuseppe Tavecchio.

«La storia di questo reparto», si legge in un rapporto redatto dal Partito Radicale nell’ottobre del 1976, «è esemplare della ferocia repressiva dello stato democristiano (…). Ma c’è di più: Margherito ha rivelato che il reparto è un campionario quasi completo di reati comuni: furto, ricettazione, rapine, sfruttamento della prostituzione: “Ormai eravamo talmente abituati a questi fatti che nessuno si scandalizzava più. La media delle persone che si mandavano in tribunale era di una, due al mese, mentre per una buona percentuale si chiudeva un occhio, se no venivano fuori cifre scandalose”. Sul piano politico, Margherito ha raccontato che parecchie guardie hanno rapporti amichevoli con ambienti dell’estrema destra».

Nel corso di un’intervista rilasciata al Corriere della Sera pubblicata il 3 settembre dello stesso anno, Marco Pannella definisce il II° celere in questi termini: «Una scuola di assassinio, di violenza, di sovversione ed eversione. Per fortuna, come tutte le scuole italiane, non funziona appieno grazie alla coscienza civile e umana di buona parte dei suoi agenti e di ufficiali come Margherito».

Vere e proprie rivelazioni shock quelle che il venticinquenne farà nelle diverse udienze susseguitesi nel mese successivo presso il Tribunale militare veneto. Le userà come strumento di difesa: per aver semplicemente preso contatti e fornito alcune dichiarazioni presso diverse testate giornalistiche (tra cui la rivista Ordine Pubblico, all’epoca diretta dal giornalista Franco Fedeli, ritenuto un vero trascinatore della riforma) la Procura militare di Padova accusa il giovane capitano di attività sediziosa, diffamazione e violata consegna, quest’ultima per l’acquisto non autorizzato di alcune fionde da utilizzare in servizio come «deterrente psicologico». Per la difesa legale di Margherito si candidano ben quaranta avvocati. Vengono infine nominati il radicale Mauro Mellini e il comunista Alberto Malagugini.

Tra la notizia dell’arresto e l’inizio del processo, in tutta Italia sono numerose le manifestazioni di solidarietà in favore del poliziotto. Una vicenda che, in breve tempo, diviene un caso nazionale: per molti è un’occasione irripetibile per scuotere l’immobilismo politico che ruota attorno alle forze di polizia e alla possibilità di una riforma di segno democratico. A sposare la causa Margherito sono soprattutto gli esponenti del Partito Radicale e il 2 settembre entra per la prima volta in scena il neodeputato Pannella che, nel corso di una manifestazione di solidarietà al capitano, organizzata a Padova e a Peschiera, riesce ad entrare nella fortezza militare dove è rinchiuso il poliziotto.

«Ho visto anche Margherito», dichiara il leader radicale nella già citata intervista rilasciata al Corriere il 3 settembre 1976, «ma in pratica non ci siamo parlati. L’unica cosa che mi ha stupito è che con lui ci sono anche quattro, cinque sottoufficiali imputati di rapine: trovo che sia più giusto, e lo farò presente a chi di dovere, che coloro i quali si rendono colpevoli di reati comuni, anche se indossano la divisa, siano “ospiti” delle normali prigioni di Stato».

«SONO IN ARRESTO? BENISSIMO… ALÈ!»

La protesta di Marco Pannella nel corso del processo Margherito

Il processo Margherito, apertosi il 15 settembre 1976 a Padova, resta una delle pagine più ingombranti della storia militare italiana. Riprendendo il discorso tenuto un mese dopo in Parlamento dalla radicale Emma Bonino, il processo si è svolto «in un’atmosfera di linciaggio di chiunque scoprisse le magagne del II° reparto celere, di intimidazione e prevaricazione contro ogni norma di diritto». A rendere quasi grottesco l’impianto accusatorio della procura militare sono proprio i testimoni chiamati a deporre contro il capitano; «testimoni a carica» li definisce l’avvocato Mellini, istruiti ad arte dai loro superiori, «le risposte dei poliziotti chiamati a sostenere l’accusa sono tutte uguali, anche nella forma, pronte. Anche troppo: qualcuno arriva a rispondere prima che il presidente apra bocca».

Nonostante la forte pressione mediatica, il gran lavoro dei legali Malagugini e Mellini, che prontamente hanno smontato pezzo dopo pezzo le accuse di sedizione e, soprattutto, di diffamazione, il giorno della sentenza c’è grande apprensione circa le sorti di Margherito. Ed è in tale data, mercoledì 29 settembre, che Marco Pannella decide di dare un segnale forte, ovviamente nel suo stile. La sua presenza in aula è tutt’altro che imprevista. Già il giorno precedente, sui principali organi di stampa, aveva annunciato che avrebbe assistito alla chiusura del processo, rendendo noto anche un telegramma indirizzato al presidente del tribunale militare. E il testo, di per sé, è già tutto un programma: «Se chi vìola la legge delinque, i giudici del tribunale di Padova sono, qui e oggi, dei delinquenti… sono dei traditori, dei soldati felloni…» e infine «dichiaro sin da ora che in nessun caso accetterò di essere coperto dall’immunità parlamentare».

Sono da poco passate le 9 di mattina e appena i giudici (un generale e due colonnelli) entrano in aula per pronunciare la sentenza, un grido si leva dal pubblico: «Presidente, dia lettura al telegramma!». Impossibile non riconoscerlo e, nonostante la sua presenza fosse stata ampiamente annunciata, dal presidente al cancelliere restano tutti spiazzati. Fino a che non arriva la replica proprio del presidente, il generale Maggiora: «Lei non ha nessun diritto a parlare qui! Se ne vada! La seduta è sospesa!». Un colpo di scena, degno delle migliori rappresentazioni teatrali. Quel che avviene pochi istanti dopo lo racconta la giornalista Natalia Aspesi in un articolo pubblicato su Repubblica il giorno seguente.

«In un tintinnare di sciabole e svolazzare di toghe, la corte del tribunale militare fa ressa verso la minuscola porta della minuscola aula, spostando sedie contro la parete su cui è appeso solo un piccolo crocifisso. “Accompagnate fuori il signore” ordina senza convinzione il presidente. È quel che ci vuole per dare grande soddisfazione al deputato radicale che col suo solito aspetto da angelo sterminatore ha ormai in pugno la sceneggiata: “Questo non è un processo, è un’esecuzione pubblica (…) questo tribunale è un’associazione per delinquere contro la Costituzione, state rapinando la giustizia. Avanti! Leggete il mio telegramma!” (…)».

Con il capitano Margherito momentaneamente assente e i giudici che lasciano l’aula, Pannella continua la sua arringa tra lo stupore del pubblico e dei giornalisti presenti. Fino a che entra in scena un altro personaggio, tale Ennio Cassella, un maggiore dei carabinieri in borghese, il quale cerca di costringere il radicale a lasciare l’aula, prima a suon di intimazioni, poi a spintoni. Pannella, ovviamente, non aspetta altro.

P. «Non mi tocchi! Ci vado da solo!»

C. «O esce immediatamente o la porto in caserma».

P. «Lei non mi porta in nessun posto! O mi arresta… sennò in caserma non mi ci porta».

C. «Allora lei è in arresto».

P. «Sono in arresto? Benissimo! Alè!»

Una scena quasi comica, oltre che piuttosto prevedibile. Pannella viene trattenuto in caserma appena quindici minuti: in quanto deputato coperto da immunità parlamentare, non ha commesso nessun reato che prevedesse l’arresto in flagranza. Al leader dei radicali gli verranno poi contestati i reati di oltraggio continuato al corpo giudiziario, resistenza a pubblico ufficiale e rifiuto a declinare le proprie generalità. Neanche mezz’ora dopo il siparietto avvenuto in aula, Pannella è di nuovo sotto al tribunale militare e, tra scatti e interviste, si riprende la scena, improvvisando una sorta di conferenza stampa dai toni ancora più accesi:

«I giudici di Padova», riporta il già citato articolo del Corriere della Sera del 29 settembre 1976, «si sono dimostrati per quello che sono, ignoranti e vili, fanno parte di una sovversione contro la Costituzione, sono custodi delle leggi fasciste. Lo condanneranno, ne sono certo…».

E in serata, dopo sei ore di camera di consiglio, arriva puntualmente la condanna: un anno, due mesi e venti giorni di reclusione. Nello specifico Margherito viene condannato a dieci mesi e venti giorni per il reato di attività sediziosa; otto mesi per violata consegna; viene altresì assolto (insieme ad altri due imputati, gli agenti Amato e Moretto) per quanto riguarda il reato di diffamazione a mezzo stampa. La sentenza viene accolta tra i fischi del pubblico, col passare delle ore fattosi ancor più numeroso nonostante la tarda ora. La corte concede la sospensione condizionale della pena e la non menzione sul casellario giudiziario ma, ovviamente, il capitano viene sospeso dal servizio. Ventiquattro ore dopo i legali di Margherito fanno ricorso per l’annullamento della sentenza di primo grado.

«NÈ UN EROE, NÉ UN PAZZO»

Un ritaglio de L’Unità sulla condanna di Margherito

La condanna del capitano Margherito ha un impatto notevole, soprattutto in ambito politico. I radicali, supportati dai socialisti e comunisti, portano in più occasioni il caso in parlamento. La già citata Emma Bonino parla di un processo al processo, etichettandolo come un «piccolo golpe giudiziario». Il capitano di Torre Annunziata diviene in breve tempo un simbolo da utilizzare in funzione della lotta per la democratizzazione delle forze dell’ordine. Di fatto, poco dopo la conclusione del processo, ai militari e poliziotti viene concessa la possibilità di riunirsi in assemblee (per la sindacalizzazione ci vorrà ancora del tempo).

Ma se da un lato si spiana la strada che porterà alla riforma del 1981, dall’altra la vicenda personale di Margherito cade un po’ nel dimenticatoio: dal 1976 al 1979 il giovane capitano resta fuori dal corpo, con lo stipendio decurtato di un quinto. «Un periodo difficilissimo», racconta in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera nel novembre del 1985 dove ricorda i giorni del processo di Padova: «I mass media, la televisione, i giornali… chi mi presentava come un eroe, chi un pazzo. Io non ero un eroe, né un esaltato. Ero stordito, avevo venticinque anni… Fui un po’ uno strumento, divenni protagonista di eventi che, all’inizio, non volevo».

Nel triennio che chiude gli anni settanta Margherito vive nell’attesa di tornare a fare il poliziotto. Intanto si laurea e lavora nel neonato sindacato di polizia, il SIULP, nel quale ricopre un ruolo importante proprio nella sterzata decisiva che porterà alla legge 121. Non sarà un nuovo processo a fargli vestire nuovamente la divisa bensì l’amnistia del 1979. Nel 1985 è già vicequestore nella Capitale; nel 2008 viene nominato questore a Modena. Di lui viene spesso rievocata una frase che pronunciò nei giorni che precedettero il processo di Padova: «Il nostro è un mestiere violento, ma non vogliamo più mettere a ferro e fuoco le città, ma inserirci nella realtà che ci circonda». Una frase che ben riassume lo spirito del movimento democratico dei poliziotti di allora. Uno spirito che, già vent’anni dopo la riforma del 1981, trovò indegna sepoltura nei tragici fatti del G8 di Genova e che, ad oggi, nel quarantennale di quella legge, sembra si sia ormai dissolto del tutto.