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«L’eroina? Piega anche le volontà più forti». Breve storia di una ex ragazza perbene

Redazione Spazio70

«All'inizio pensavo di poter smettere quando volevo grazie alla mia forte personalità, ma è stata solo un'illusione». L'astinenza all'interno del manicomio criminale di Castiglione delle Stiviere e la convinzione dell'impossibilità di smettere

Cremona, 8 febbraio 1977. Sono le 7,30 del mattino e in un appartamento del centro si sta per consumare una tragedia. Due giovani donne, Francesca G. e Sabrina G., aprono un fornello e aspettano. Hanno deciso di farla finita e forse una delle due pensa di attendere la morte con una sigaretta accesa, mentre la cucina si satura rapidamente di gas. Infine, la tremenda esplosione. La deflagrazione investe soprattutto Francesca: Sabrina, con la vestaglia in fiamme, riesce a raggiungere la strada e a chiedere aiuto. Francesca morirà dieci giorni presso l’ospedale di Pavia, a causa delle gravi ustioni riportate, mentre Sabrina riuscirà a sopravvivere nonostante le tante ferite riportate sul piano fisico e psicologico. Eppure le cose non erano sempre andate così male per le due ragazze. Fino a due anni prima Francesca era stata una apprezzata infermiera presso l’ospedale civile di Brescia. In un lustro aveva ottenuto numerosi riconoscimenti, soprattutto sul piano umano: altruista e piena di dedizione verso i malati, Francesca proveniva da una famiglia di agricoltori e si era iscritta alla scuola per infermieri professionali dopo aver ottenuto il diploma di maestra d’asilo. Una cocente delusione d’amore aveva però fatto scattare qualcosa nel suo carattere troppo sensibile, secondo un processo depressivo che l’ha poi condotta rapidamente sulla via della droga. Una dipendenza devastante da eroina e un tunnel senza uscita, tranne quella offerta dalla morte.

UNA VITA ALL’APPARENZA NORMALE, UNA ESISTENZA COME TANTE

Anche Sabrina ha rischiato grosso. Quando nel marzo ’77 parla con l’inviata di «Epoca», Alida Militello, ha il viso e le parole di una superstite. Le mani sono segnate dall’incendio, i capelli ancora corti a causa del recente passaggio del fuoco, il corpo pieno di cicatrici. Quando parla di sé stessa sembra quasi farlo con freddezza, come se le cose che dice non la riguardino. Però c’è in lei una flebile determinazione: tornare a vivere. Ci spera, almeno, perché a soli venticinque anni è già una reduce da una vita complicata, fatta di solitudini e abbandoni. E di eroina.

«E’ difficile ricominciare», dice, «ma ho giurato a me stessa di provare a farcela. Sono nata a Como perché mia madre era ricoverata nel tubercolosario di quella città. Lei è morta quando avevo quattro anni. Ho un vago ricordo della sua figura, credo di averla vista una volta soltanto a tre anni. Appena sono nata, mi hanno messo in un brefotrofio. Mio padre? Non l’ho mai conosciuto. Quando mia madre se n’è andata, dei miei prozii hanno fatto le pratiche per la mia adozione. Io avevo quattro anni, loro già cinquanta, ma sono stati affettuosi con me. Forse troppo, al punto tale che spesso ho avuto l’impressione di restare soffocata. Ho fatto la scuola fino alla terza media, poi a quattordici anni sono stata assunta come apprendista presso una azienda agricola della zona. Però a quell’età lavorare non mi piaceva tanto, così ho ripreso a studiare e sono diventata segreteria. Il passo successivo è stato un impiego presso uno studio di consulenza aziendale. Il lavoro, questa volta, mi piaceva: sono rimasta lì per otto anni, ma al quarto ero già capo ufficio».

Insomma, una vita all’apparenza normale quella di Sabrina. Una esistenza come tante, anzi forse anche un po’ più fortunata, almeno sotto l’aspetto lavorativo, rispetto a quella di tante coetanee disoccupate o con un lavoro precario.

L’ABORTO E IL LICENZIAMENTO. DALLA MORFINA ALL’EROINA

«Un giorno, però», continua, «mi sono accorta di essere incinta. Il bambino era del mio datore di lavoro, il primo e forse unico uomo del quale mi sia innamorata. Forse a causa della eccessiva protezione dei miei, non avevo mai avuto delle storie e quella, a diciotto anni, era stata una sbandata veramente grossa. Lui era un uomo di vent’anni più grande di me: aveva una moglie e una figlia piccola. Se se n’è andato? No, avrebbe voluto vivere con me, ma io non me la sono sentita di rovinare la sua famiglia e soprattutto separare quel padre dalla sua bambina. Così mi sono ritrovata a vent’anni incinta: ho deciso di abortire. Ai miei non ho detto mai assolutamente nulla, ma in qualche modo di tutta questa storia fu informata la moglie del mio datore di lavoro: il risultato è stato il mio allontanamento dall’azienda. Mi sono ritrovata con una liquidazione di due milioni, un cappotto e qualche vestito. A casa non ci volevo proprio tornare. Da quel momento ho perso completamente il controllo della mia vita».

All’inizio del 1974, Sabrina, che soltanto qualche mese prima sognava di mettersi in proprio nel campo della consulenza aziendale, diventa un’emarginata. «Sono andata a vivere in un albergo frequentato da giovani drogati», racconta, «e per curiosità ho provato la morfina. All’inizio non mi ha fatto proprio niente: ricordo che ho provato e riprovato per capire come mai molte delle persone che avevo intorno avessero sviluppato una dipendenza da questa sostanza. Le cose sono però cambiate quando sono passata all’eroina. Dopo il primo “flash”, non ho potuto fare altro che aumentare le dosi».

«L’HO VISTA DIVENTARE UNA TORCIA UMANA»

Quelli raccontati da Sabrina sono i mesi della prima grande diffusione dell’eroina in Italia: con l’aumento dei prezzi della sostanza, per bucarsi occorrono duecento mila lire al giorno. Ormai disoccupata, la prostituzione diventa un passaggio obbligato. «Ho iniziato a prostituirmi verso la fine del 1975, qui a Cremona. Ero talmente piena di droga che non mi rendevo nemmeno conto di quello che facevo. Per fortuna in città non ci sono protettori, quindi tutto ciò che guadagnavo lo spendevo nella droga. Ma anche così, era una vita d’inferno: non ero tornata a casa per non dipendere dai miei genitori, mentre ora dipendevo dalla bustina. Vivevo con Francesca: ci prostituivamo insieme e insieme ci bucavamo. Le nostre giornate erano un incubo ossessionante: prima in cerca di soldi, poi della droga, poi ancora dei soldi e ancora della droga. All’inizio pensavo di poter smettere quando volevo grazie alla mia forte personalità, ma è stata solo un’illusione: l’eroina distrugge anche le volontà più forti».

Quella tra Sabrina e Francesca non è una semplice amicizia, ma qualcosa di più. Forse un amore. Nel marzo 1976 vengono entrambe arrestate per possesso di sostanze stupefacenti. L’astinenza è così dura che in un paio di mesi di manicomio criminale a Castiglione delle Stiviere si convincono dell’impossibilità di smettere. Anche Francesca perde il lavoro: dà le dimissioni e dilapida rapidamente la liquidazione. Quando tenta per la prima volta il suicidio, tentando di buttarsi nel Po, Sabrina la salva per un pelo. Il tentativo del padre di riportarsela a casa non dà i risultati sperati, così l’unica a occuparsi di Francesca è proprio Sabrina. Fino all’ultimo atto.

«Ho visto Francesca diventare una torcia umana», racconta Sabrina, «ho cercato addirittura di spegnere il fuoco che aveva addosso con le mani, ma non c’è stato nulla da fare. Durante i dodici giorni passati in ospedale, ho continuato a vedermela di fronte in fiamme». L’unica persona che ha teso una mano a Sabrina, sembra essere un operaio di quarantadue anni che vive con la madre nei pressi di Cremona. Non è ricco, ma almeno ha offerto un tetto sotto il quale dormire. In attesa di ristabilirsi, fisicamente ma soprattutto moralmente. Un sogno? Quello di trovare un nuovo lavoro. Ma molti, quando conoscono la storia di Sabrina, le voltano le spalle.