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«Sadici, reazionari e violenti», quando la critica italiana stroncava i film di genere

Redazione Spazio70

Alcune delle più severe stroncature ai danni di famosissime pellicole del cinema di genere italiano

È la primavera del 1976 quando il potentissimo professor Guidobaldo Maria Riccardelli si manifesta in tutta la sua spocchia nelle sale cinematografiche del Belpaese. Con Il secondo tragico Fantozzi, primo sequel di una fortunatissima saga, il fanatico cultore del cinema d’arte (interpretato da un ottimo Mauro Vestri) segna una pagina storica della commedia all’italiana e diventa immortale. La celebre sequenza della Corazzata Potëmkin (ribatezzata Kotiomkin per motivi di copyright) è senza dubbio annoverabile tra i momenti più noti del nostro cinema, tanto da essere riuscita ad irrompere nel linguaggio comune con l’ormai ricorrente «cagata pazzesca», espressione adottata da diverse generazioni di italiani per bocciare prodotti scadenti e opinioni sgradite.

La bravura di attori e caratteristi, in questo caso, non basta da sola a giustificare un simile successo. La rivalsa del ragionier Fantozzi e dei suoi colleghi, tediati da interminabili torture con proiezioni di film muti, è un po’ la rivalsa di tutti gli italiani, da sempre amanti non solo del calcio ma anche del bistrattato cinema “leggero”. Se è vero che il film di Salce ha dato vita ad una serie di luoghi comuni totalmente infondati sul capolavoro di Ėjzenštejn (La Corazzata Potëmkin in realtà dura poco più di un’ora, non è un film lento e soprattutto non è noioso) ha comunque il grande merito di aver denunciato lo snobismo intellettualoide di una certa critica cinematografica da sempre ostile al cinema “di genere”. Non a caso, al momento delle proiezioni di vendetta, il cinico Riccardelli è costretto a guardare ripetutamente Giovannona Coscialunga, L’Esorciccio e La polizia si incazza, titoli che rimandano in maniera inequivocabile al cinema maggiormente vilipeso in quegli anni. L’inesistente La polizia si incazza è un’evidente storpiatura del titolo La polizia ringrazia di Stefano Vanzina, uno dei capostipiti del poliziesco italiano anni ’70, altrimenti noto come poliziottesco, genere tanto apprezzato dal pubblico quanto disprezzato dalla critica in un’epoca caratterizzata dall’onnipresenza dell’impegno politico.

Di seguito riportiamo qualche recensione comparsa sui quotidiani nazionali: da «indegno pastrocchio» a «nauseabondo guazzabuglio», ecco alcune delle più severe stroncature ai danni di famosissime pellicole del cinema di genere italiano; lavori di Umberto Lenzi, Fernando Di Leo, Lucio Fulci, Marino Girolami, Enzo G. Castellari, Ruggero Deodato, vere e proprie opere di culto, film ampiamente rivalutati ai giorni nostri ma ferocemente maltrattati dalla stampa dell’epoca.

LA MALA ORDINA di Fernando Di Leo (1972)

Corriere della sera: «Ideato e diretto da Fernando Di Leo sull’avvio di un racconto di Scerbanenco, il film è un’accozzaglia di azioni violente mescolate ad un campionario di donnine generosamente discinte alla stregua di un fotoromanzo sexy di infimo ordine. In tanto volgare manierismo restano coinvolti caratteristi di buon nome come Mario Adorf (qui nel ruolo esasperato del protagonista) e come come gli americani Henry Silva e Woody Strode, semplicemente sciatti nei panni dei due killers. Altri sprechi del cast sono Adolfo Celi, Cyril Cusack, Sylva Koscina, Luciana Paluzzi e Francesca Romana Coluzzi, mentre Femi Benussi non lesina (questo è certo) le sue grazie senza veli».

l’Unità: «Per farla breve, il “giallo” colorato di Di Leo, non privo di estenuazioni melodrammatiche (ma le responsabilità sono anche di Scerbanenco), “girato” con inutile tecnica mirabolante, tenta di descrivere le ultime ore di un modesto macrò condannato a morte dalla mafia statunitense. II contenuto “ideologico” del film? Presto detto: anche i macrò possono rivelarsi del veri uomini, degli eroi coraggiosi e anche sentimentali».

La Stampa: «Fernando Di Leo, un regista che punta anche troppo alla violenza fine a se stessa, ha tolto lo spunto da un racconto di Scerbanenco, sviluppandolo con una volgarità brutale e compiaciuta».

Corriere d’informazione: «Un film che batte stancamente tutti i luoghi comuni del genere gangster: la carta carbone è ormai sbiadita».

MILANO ODIA: LA POLIZIA NON PUÒ SPARARE di Umberto Lenzi (1974)

l’Unità: «Se Umberto Lenzi, regista di questo indegno pastrocchio, voleva dimostrare la tesi reazionaria secondo cui bisogna dar mano libera alla polizia, fuor d’ogni controllo, nella repressione del crimine, non è riuscito davvero nel suo intento. Nell’ipotetico (e un po’ estremo) caso rappresentato, non si avverte infatti la mancanza di armi o di spari, ma di cervelli che funzionino, di tecniche investigative adeguate e di una rigorosa applicazione delle leggi. È inutile comunque prendere sul serio un prodotto del genere; saltuariamente, nei momenti che si vorrebbero più drammatici, il pubblico sghignazza. Spiace dirlo, ma lo show istrionico di Tomas Milian, il quale si esibisce (doppiato, tra l’altro, dallo stesso nostro attore che offre la voce a Dustin Hoffman e Al Pacino) nei panni di Giulio, suscita soltanto il riso, o un senso di pena. Il commissario è Henry Silva, attore americano e dalla faccia esotica. Forse, sotto sotto, si vuol suggerire l’importazione di “oriundi”, o presunti tali, anche nelle nostre forze dell’ordine?».

ROMA VIOLENTA di Marino Girolami (1975)

Corriere della sera: «Il cliché dei “polizieschi” all’italiana si ripete con esasperante monotonia. Chi può essere il protagonista di Roma violenta se non il solito poliziotto dalla pistola facile che preferisce massacrare i delinquenti invece di consegnarli alla giustizia? E che farà quando, messo sotto inchiesta per i suoi metodi, è costretto a dimettersi dal servizio? Ovviamente proseguirà la sua “crociata” in privato, nel caso specifico aggregandosi a una masnada di “giustizieri della notte” che, come altrettanti Bronson d’infausta memoria, hanno deciso di combattere per loro conto la dilagante criminalità. Ciò che distingue, in peggio, questo centone di serie è un più marcato tono qualunquistico, per cui i metodi illegali vengono spudoratamente esaltati e il poliziotto criminale vi fa la figura di un eroe. A correggere il tiro non basta un finalino moralistico, in cui si suggerisce sbrigativamente che la reazione violenta non fa che richiamare altra violenza. Servendosi di una sceneggiatura che è meno di un canovaccio, Franco Martinelli ha abusato fino alla noia di tutti gli ingredienti del genere: sparatorie, sadiche bastonate e scazzottature, volti maciullati e sanguinolenti, nonché l’immancabile e interminabile inseguimento in auto. Maurizio Merli, il Garibaldi televisivo, non ha possibilità di dare dimensione al protagonista. Nel ruolo dell’avvocato che dirige i vigilantes, appare, nella sua ultima interpretazione prima della morte avvenuta l’aprile scorso, un Richard Conte dall’espressione dolorosamente raggrinzita e stanca».

IL GRANDE RACKET di Enzo G. Castellari (1976)

Il Giorno: «È un film fascista. È un film abietto. È un film idiota. È fascista perché, abbinando lo stereotipo del giustiziere solitario con quello del poliziotto reso impotente nell’esercizio del suo dovere dalle norme dello Stato di diritto (e scopiazzando malamente all’inizio la bella trovata di “Killer Elite” di Peckinpah), sostiene l’ideologia reazionaria secondo la quale la criminalità non si combatte applicando le leggi, ma contrapponendo violenza a violenza secondo la regola del taglione: dente per dente, uccisione per uccisione. È abbietto a tutti i livelli: nella rappresentazione della violenza condita, come il mercato impone, di sesso inteso come stupro; nella connotazione dei criminali, proposti come mostri da sopprimere; nella becera misoginia che solletica il razzismo dei maschi in sala (scocca l’applauso quando la componente femminile della banda di picchiatori, non a caso dipinta come la più crudele e sguaiata del gruppo, si becca un calcio nel basso ventre o quando finalmente muore, crivellata da raffica di mitra); nell’istigazione al linciaggio come fa in una scena, tentando di provocare un’identificazione collettiva tra la folla del film e quella che, a fior di 2500 lire a cranio, assiepa la sala; nell’ignobile intento di far ridere alle spalle di un padre (Renzo Palmer che dovrebbe vergognarsi di guadagnare milioni in galere di questo genere) che, stravolto dalla sorte della figlia violentata, rincorre un’apocalittica strage dei delinquenti. È, infine, idiota, il che potrebbe essere una circostanza attenuante nel senso che diminuisce i possibili danni della sua abiezione reazionaria. La sua è l’idiozia di un fumetto “nero” di infimo livello dove l’inverosimiglianza dell’intrigo era raddoppiata da quella dei personaggi, sfiora spesso la comicità involontaria e vi sprofonda nel massacro finale».

NAPOLI VIOLENTA di Umberto Lenzi (1976)

l’Unità: «L’eroe del regista Umberto Lenzi è il commissario Betti. Occhi azzurri, fisico atletico, il poliziotto e deciso a sgominare la delinquenza che imperversa a Napoli. Dietro ogni episodio in cui s’imbatte, non importa la dimensione e l’entità, c’è un’organizzazione che fa capo al generale… il quale diventa, è ovvio, la meta che il commissario si prefigge di raggiungere e, naturalmente, di annientare. A giustificazione di mezzi così sbrigativi il commissario porta il fatto che molti, troppi, dei suoi uomini ci hanno rimesso la pelle. E quindi, sulla base di “occhio per occhio, dente per dente” le pallottole fischiano a tutto spiano fino alla trappola finale, con la quale Betti mette a tacere i caporioni, chi per sempre, chi per lungo tempo. Ma naturalmente egli non desisterà dai suoi metodi e riprenderà la caccia a nuovi camorristi. Lenzi non si preoccupa di come girare e neppure dei larghi buchi della sceneggiatura: si affida, per il successo, agli istinti primordiali del pubblico, la cui ansia di ordine e di pulizia viene distorta in un’adesione a forme di bestiale violenza non meno esecrabili, seppure ammantate di “sani principi”, di quelle che si vorrebbero condannare».

AVERE VENT’ANNI di Fernando Di Leo (1978)

Corriere della sera: «Innestando elementi della cronaca nera di oggi sulla storiella di due figliole senz’arte né parte piombate dalla provincia nel calderone romano, il film traccia un quadro volgare e deviante della “vita alla giornata” di una “comune” ove drogati, ragazze madri, affiliati di qualche setta, pregiudicati e informatori della polizia riescono sempre a trovare un letto. Tina, Lia e la promiscuità della “comune” servono al regista soltanto per cucire una serie di aneddoti scollacciati, di macchiette sgangherate e di gratuita, e in questo caso anche pericolosa, perché provocatoria e compiaciuta, violenza sessuale. Il lesbismo, la droga, lo stupro, la sguaiata femminilità di questo film non hanno assolutamente nulla a che fare con le reali problematiche di molti sbandati e di quei giovani cui il sorridente titolo da falsa commedia allude. Fernando Di Leo aveva già usato nel poliziesco il vecchio trucchetto di denunciare la violenza sessuale e i guasti della nostra società per fare pornografia mascherandola dietro l’alibi di uno speculativo moralismo. Questa volta gli danno la mano e stanno al suo gioco Gloria Guida e Lilli Carati con una grossolana recitazione».

BUIO OMEGA di Joe D’Amato (1979)

La Stampa: «Il regista di questa pellicoletta (che con le generalità sue, Aristide Massacesi, firma la fotografia) imita alla casalinga i film dell’orrore, sia ricalcandone gli effettacci sanguinolenti di bassa macelleria, sia sfogandosi nella scimmiottatura di quanto di più repellente, in fatto di situazioni atte a produrre ribrezzo, si è visto nei film del genere. Le atrocità incalzano, allineate in tutta la loro crudezza. Il protagonista è un giovane imbalsamatore dilettante che conserva la cara salma, dissepolta e imbalsamata, della sua morosa e le si corica macabramente accanto per eccitarsi ogni qualvolta fa l’amore con altre donne prima di diventare il folle loro assassino. Quello che viene dopo ripugna anche soltanto a riassumerlo. In tema di “spaghetti-horror”, vale a dire di contraffazioni spudorate di prodotti, forestieri o nazionali non privi come modelli di un’allucinante loro attrattiva, qui si tocca decisamente il fondo. Al dilettantismo della regia corrisponde, in condizione di parità, quello degli interpreti».

Il Corriere della sera non è più generoso e definisce il film «un indigesto e nauseabondo guazzabuglio peggiorato da esasperanti lentezze di ritmo e dall’assoluta inadeguatezza degli interpreti».

CANNIBAL HOLOCAUST di Ruggero Deodato (1980)

l’Unità: Sulle prime, viene voglia di chiedere agli autori e ai produttori della pellicola che cosa li ha spinti a confezionare un simile spettacolo. Poi la noia, più che il disgusto, ci impedisce di porre qualsiasi tipo di domanda, tanto “osceno” e ipocrita risulta quello che hanno confezionato e che impropriamente essi chiamano film. Anzi film nel film. Precisiamo che per osceno ci riferiamo solo al senso figurato di cosa bruttissima. Il regista è addirittura recidivo: nel 1977 nella giungla di Mindanao (ci sarà poi stato?) girò lo sconclusionato Ultimo mondo cannibale (che non ebbe comunque molto credito di pubblico). Evidentemente il regista barava anche nel titolo, visto che ora si catapulta in Amazzonia (?) per riprendere varie tribù cannibali così troglodite da prestarsi, quali espertissime e disciplinate comparse, in una nuova interminabile serie di macellamenti. Finanziata da una TV di New York e dalla università di quella città, una spedizione (formata da tre giovani operatori cinematografici e una giornalista) si incontra nell’inferno verde del Sud America, appunto alla ricerca delle “ultime tribù” cannibali. Due mesi dopo, rimasti senza notizie, i finanziatori inviano un antropologo alla loro ricerca. Qui lo studioso, con l’aiuto di una guida e un paio di militari (incaricati dal loro governo di reprimere nel sangue ogni forma di cannibalismo), ripercorre il cammino della prima spedizione scoprendo sconcertanti e drammaticissime situazioni al limite di ogni credenza umana civile. Ritrova perfino i resti dei quattro giovani e, con un colpo di astuzia, recupera anche la pellicola girata dai suoi “sfortunati” predecessori. Il materiale rivelerà cose tanto orripilanti sul conto degli autori da giustificare la loro eliminazione da parte dei primitivi niente affatto incivili. Non fatevi ingannare dalla nostra lineare esposizione della trama. Il film che pretende d’essere, almeno in parte, documentaristico, risulta in realtà formato da una interminabile accozzaglia di efferatezze di bassa macelleria, sesso e violenza così platealmente ricostruite senza ritmo né senso (e capacità interpretative) da risultare adatte solo a spettatori dallo stomaco di ferro e dall’infinita sopportazione.

L’ALDILÀ di Lucio Fulci (1981)

Corriere della sera: «Qualche critico in Francia, riferendosi ai suoi film precedenti Zombi 2 Paura nella città dei morti viventi, lo ha definito il miglior erede di Mario Bava. Secondo noi, Lucio Fulci vuole semplicemente provare che in quanto a scene raccapriccianti e disgustose, si possono superare i limiti di Dario Argento (senza per questo eguagliarne le capacità tecniche). Il repertorio sviscerato fino alla saturazione in L’Aldilà consiste infatti in globi oculari strappati dalle orbite, volti che si decompongono sotto l’effetto di acidi corrosivi, corpi meticolosamente sbrindellati da cani o da grossi ragni schifosi, bocche che vomitano sangue e interiora, schiume sanguinolente che scorrono come lava e un crescendo di “morti viventi” dalle carni decomposte. Appena un pretesto banale la trama per cucire assieme, quasi senza interruzione, queste consimili “piacevolezze”. Principale teatro degli orrori è un vecchio albergo abbandonato della Lousiana ereditato da una giovane donna di Nuova York che intende rimetterlo in sesto, però ignorando che esso nasconde una delle “sette porte dell’inferno”. Ne devono succedere di cotte e di crude, fra morti orrende, cadaveri che resuscitano e strani individui che si aggirano con occhi senza orbite, prima che la donna e un suo amico medico avvertano la veridicità di un’antica profezia e finiscano per varcare loro stessi la soglia dell’aldilà. Inutile aggiungere che, a parte l’intenso lavoro dei truccatori e qualche virtuosismo del fotografo Sergio Salvati, la confezione risulta del tutto improvvisata quanto la recitazione dei vari interpreti. Il primato il film lo tocca soltanto nello stomachevole. E siamo sinceri: a tale livello è più tollerabile la pornografia».