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Gianni Nebbiosi, tra psichiatria e canzone sociale

Matteo Picconi

«Per me fare canzoni è un po’ un esame di coscienza dal punto di vista politico. Infatti, non puoi fare una canzone se non hai idee e non puoi avere idee se non hai una prassi»

Sono in pochi a conoscerlo, nonostante sia stato riscoperto o rieditato in diverse occasioni da altri artisti negli ultimi decenni. Eppure Gianni Nebbiosi, apprezzato psichiatra e psicoanalista romano, è stato un musicista e, soprattutto, un cantautore molto rappresentativo della canzone sociale dei primi anni Settanta. In soli due album, E ti chiamaron matta e La gente se crede che vola, usciti rispettivamente nel 1972 e nel 1974, riuscì a raccontare uno spaccato complesso della società italiana di allora: nel primo album si concentra sul mondo della salute mentale, dei manicomi, e di quelli che più comunemente (ancora oggi) vengono denominati i matti; nel secondo la sua narrazione si allarga alla disperazione degli ultimi, degli emarginati, in sostanza alle difficili condizioni di vita delle classi subalterne, nonché a una particolare critica della società capitalistica e dei suoi aspetti più morbosi e contradditori.

Le canzoni di Nebbiosi, scritte con una sensibilità e un realismo al dir poco innovativi per l’epoca, vengono incise in tempi non sospetti: sono gli anni che precedono la famosa Riforma Basaglia del 1978, la legge 180, che rivoluzionò la psichiatria italiana e che portò (tra numerose contraddizioni) alla chiusura dei manicomi.

«Lui scriveva canzoni» ha dichiarato la cantautrice milanese Maria Monti a Patria Indipendente nel 2019 «su come venivano trattati i matti, guarda caso adesso li cura, facendo di mestiere lo psichiatra».

MUSICA E «PRASSI POLITICA»

Nebbiosi anni 70

Gianni Nebbiosi nella prima metà degli anni Settanta

Nato a Roma nel 1944, Nebbiosi si avvicina alla musica fin da giovanissimo. A tredici anni inizia a studiare il clarinetto, alternando i grandi della musica classica al jazz e al blues afroamericano di inizio secolo, in particolare di Bessie Smith. Nella seconda metà degli anni Sessanta, mentre era studente di medicina, entra in contatto col mondo della politica e del movimento studentesco. A raccontarlo è lo stesso Nebbiosi nella nota che accompagna il suo album d’esordio uscito nel 1972:

«Le cose cambiarono perché nel frattempo ero diventato comunista. Ebbi un lungo periodo in cui smisi di interessarmi di musica, anche se non smisi di sentirla. Il fatto è che mi sembrava tutta roba intellettualistica e completamente staccata dalle cose che la mia prassi politica mi faceva vivere. Poi venne il movimento studentesco. Succedeva spesso che alla fine di qualche assemblea o Comitato di base si prendesse una chitarra e si cominciasse a cantare. Allora, non so come, feci qualche canzone».

La scelta di perfezionare i suoi studi di medicina nel campo della psichiatria procede parallelamente al suo percorso politico e musicale. Nebbiosi fu tra i primi a confluire nel movimento che nei primi anni Settanta prenderà il nome di Psichiatria Democratica. I punti salienti del manifesto programmatico di PD, ossia la lotta all’emarginazione, all’esclusione e, soprattutto, alla segregazione dei soggetti con problemi psichiatrici, coincidono perfettamente con le tematiche che Nebbiosi trasformerà in canzoni.

Come si vedrà più avanti, fu una vicenda personale a portare il cantautore e futuro psicoanalista romano a raccontare il mondo del disagio mentale e il dramma dei manicomi, considerati uno strumento di antico retaggio, ancora repressivo e da tempo superato dagli stessi studi della psichiatria italiana. Nebbiosi scelse in sostanza di raccontare un mondo separato, dai più ignorato, mentre altri artisti della sua generazione cominciavano a immortalare la stagione politica di quegli anni. Riprendendo la nota di Nebbiosi:

«Di che potevo parlare? Non me la sentivo di parlare delle sofferenze e delle lotte politiche degli sfruttati, degli operai, dei contadini. Ero e sono un borghese e mi sembrava una falsità parlare nelle canzoni di cose che potevo condividere, di cose per cui potevo anche lottare ma che io, in prima persona, non ho mai provato».

LA «SCOPERTA» DELLA CANZONE POPOLARE

Marini Nebbiosi

Giovanna Marini

Una delle principali colonne sonore che hanno accompagnato gli anni Sessanta è senza dubbio quella dei canti popolari e di protesta delle classi operaie e contadine, nonché i canti della Resistenza italiana, già dal decennio precedente particolare oggetto di studio di storici ed etnomusicologi. Principali fautori di questa riscoperta culturale e musicale furono soprattutto l’allora direttore delle Edizioni Avanti Gianni Bosio e l’etnomusicologo Roberto Leydi, i quali fondarono insieme ad altri studiosi il Nuovo Canzoniere Italiano, dapprima come rivista (1962) e, l’anno seguente, come vero e proprio laboratorio musicale. Sempre nel 1963, il socialista Bosio lancia la casa discografica I Dischi del Sole che nel 1965 ottiene un grande riscontro di pubblico con l’album Le canzoni di Bella Ciao, una delle prime importanti raccolte di musica popolare italiana.

Nella seconda metà del decennio, man mano che ci si avvicinava agli anni della contestazione, alcuni artisti e studiosi che gravitavano intorno al Canzoniere sentirono l’esigenza di attualizzare la canzone popolare alle nuove istanze sociali e politiche. L’uscita di Leydi dal NCI, i problemi di natura finanziaria in cui versavano la rivista e la casa discografica de I Dischi del Sole, la rottura tra Bosio e i vertici del PSI, coincisero con la nascita dell’Istituto Ernesto De Martino (1966), quest’ultimo fondato dallo stesso Bosio e dall’antropologo Alberto Mario Cirese.

Al passaggio di quella che si può definire la canzone di protesta contemporanea fecero seguito numerosi artisti e studiosi già in orbita Canzoniere; tra i tanti (impossibile nominarli tutti) si possono citare Sandra Mantovani, Paolo Pietrangeli, Ivan Della Mea, Michele L. Straniero, lo stesso Roberto Leydi e, alla fine del decennio, lo storico e critico musicale Alessandro Portelli. È in tale contesto che emerge la figura di Giovanna Marini che negli anni successivi diverrà una sorta di icona e punto di riferimento della nuova musica popolare italiana. Ed è proprio con la scoperta della cantante e musicista romana che lo studente di medicina Gianni Nebbiosi si avvicina al mondo della canzone popolare e sociale. Riprendendo la succitata nota del suo primo album:

«Nel 1969 conobbi Giovanna Marini. Ammiravo molto tutto quello che aveva fatto e ricordo che andai a sentire “La Vivazione” sei o sette volte (…). Ricordo che mi dissi: “Non c’era bisogno di cercarsela in America una Bessie Smith perché questa qui canta proprio come lei” (…)».

Alla fine degli anni Sessanta Nebbiosi non ha ancora un vero e proprio repertorio, ma è pieno di idee; per dirlo con le sue stesse parole, ha la sua prassi. Di lì a poco, per Nebbiosi si apre la possibilità di poter concretizzare musicalmente i suoi lavori. Riprendendo la sua nota, ecco come descrive il suo primo incontro con Giovanna Marini, avvenuto nel 1969:

«Un giorno un amico mi portò a casa di Giovanna e venne fuori che avevo fatto qualche canzone e gliela cantai. Mi sembravano stupidaggini in confronto alle sue ballate, ma Giovanna fu gentilissima. “La Ballata dell’alcolizzato” le piacque e mi disse di continuare. Così, sull’onda di questa amicizia e di questa stima, ho continuato a fare canzoni. Ho cantato qualche volta in giro le canzoni dei pazzi e sono contento di averlo fatto, perché credo che sia giusto che tanti compagni sappiano e capiscano di questo problema».

«E QUALCUNO POI DISSE… GUARDA LÌ L’AGITATO»

Nebbiosi album 1972

“E ti chiamaron matta” (1972)

L’apporto di Giovanna Marini all’esordiente Nebbiosi andò ben oltre la stima e l’amicizia. La cantante romana, infatti, partecipò in prima persona alla gestazione del suo primo album E ti chiamaron matta, uscito nei primi mesi del 1972 per la serie sperimentale de I Dischi del Sole: lui alla voce, al clarinetto, all’organo elettrico e al pianoforte; lei come seconda voce e chitarra.

Come già anticipato, la scelta di raccontare il mondo della salute mentale e dei manicomi di quegli anni non dipese solo dallo studio e dalla passione che Nebbiosi nutriva per la psichiatria bensì, come lui stesso racconta nella nota del suo primo album, da una vicenda personale:

«Nel 1965 avevo avuto un esaurimento nervoso. Avevo smesso la politica, gli studi, la musica. Il medico che mi curava (male) lavorava a Santa Maria della Pietà (il manicomio di Roma) e ogni tanto, quando era di guardia, mi riceveva lì. Ricordo che siccome ero studente di medicina ed ero già orientato per la psichiatria mi faceva fare spesso dei giri nei reparti. Chiunque abbia conoscenza di un manicomio sa che cosa si vede là dentro. Gente legata al letto da dieci anni, botte, camicie di forza, pillole che rimbambiscono, elettroshock (ricordo che facevano, e fanno, “l’annichilimento”, cioè due shock al giorno fino a che sei quasi un bipede). Sentii che lì dentro, forse, ci sarei finito anche io se i miei non avessero avuto i soldi per farmi curare in altro modo. Questo mi diede una rabbia e un senso di rivolta infinite. Mi ricordai di una storia che un alcolizzato mi aveva raccontato e un giorno scrissi “La Ballata dell’alcolizzato” (…)».

E ti chiamaron matta è un disco rarissimo che fin dalla pubblicazione ebbe problemi di diffusione e non conobbe mai ristampe da parte della casa discografica. Sei canzoni, arrangiamenti molto semplici, ma testi potentissimi, attraverso i quali il futuro psicoanalista denuncia non solo l’inutile brutalità dei manicomi e il trattamento disumano ai danni dei soggetti affetti da malattie mentali, ma giunge alla conclusione che la loro condizione sia dovuta anche alla povertà, alla marginalità sociale, alla mancanza di possibilità. Come spiega il cantante e speaker radiofonico Andrea Caponeri sul blog Verso la Stratosfera: «Nebbiosi pensa, con Sant’Agostino, che cantare la repressione sia protestare due volte, sicché fa casa e bottega, e scrive canzoni sui matti, sugli esclusi, su quelli che non ce la fanno (…) che a un certo punto sentono la vita stringersi a spirale attorno al collo ed esplodono».

Se si eccettua la prima traccia introduttiva, In un anno e più d’amore, l’album passa in rassegna una serie di vicende drammatiche in cui i protagonisti non sono semplicemente dei matti, etichetta affibbiata in un momento successivo, quello che segue il verificarsi del disturbo mentale, bensì dei padri di famiglia, dei lavoratori, emigrati, persone comuni che entrano in una trappola infernale, il manicomio, dal quale sembra impossibile uscire in mancanza di mezzi e risorse.

Nella seconda traccia, Il numero d’appello, Nebbiosi racconta l’ingresso in manicomio e le paure del nuovo paziente, che nessuno ascolta più, circondato da dottori e dalle loro «domande vuote d’un’altra realtà». Le sue resistenze vengono vinte dalle scosse dell’elettroshock, dal processo di annichilimento di cui parla l’autore, finché non diventa un internato modello, che risponde sempre sì, e che al posto del cervello, appunto, ha ormai un numero d’appello.

A seguire vi è una delle canzoni più conosciute di Nebbiosi, E qualcuno poi disse, che racconta la vicenda di un povero agitato, un padre di famiglia che, pur di ritornare alla sua vita e riabbracciare moglie e figlia, non oppone resistenza alle cure e prende le medicine fino a essere dimesso dopo otto mesi. Una volta fuori, però, «la voglia di uscire si trasforma in voglia di pane» ma è la stessa società a voltargli le spalle, a non dargli un lavoro, un’opportunità. «Una legge senza parole, fredda e dura come il ghiaccio» che lo porta nuovamente a star male e a rientrare in manicomio dopo solo otto giorni.

Passando al lato B dell’LP, Nebbiosi interrompe la sua narrazione sui manicomi e con Ti ricordi Nina, dalla cui ultima strofa trae anche il nome dell’album, compie una sorta di viaggio nel tempo, evidenziando come il concetto di pazzia abbia preso forma parallelamente con l’evolversi della società stessa. Sceglie, non a caso, come soggetto una donna, che in un passato lontano viene dapprima venerata come maga, poi come santa, ancora più avanti accusata di essere una strega, fino a che un medico, venuto da lontano, arriva in paese e Nina diviene dunque matta.

La Ballata dell’alcolizzato, la prima canzone che Nebbiosi fece ascoltare alla Marini, ha toni meno drammatici ma piuttosto espliciti. Nel Reparto Tre vi è un ubriacone qualunque, un lavoratore che «dopo otto ore da quasi animale» si rifiuta di guardare un po’ di televisione come tutti gli altri e la sera sfoga la sua rabbia: beve, parla, urla. Tacciato come soggetto improduttivo, deviato e deviante, l’alcolizzato è ancora lì, in manicomio, a chiedersi perché è recluso.

L’album si chiude con Emigrato su in Germania, che il cantautore Alessio Lega ha definito una sorta di «elegia alla ribellione». Due emigrati, un rozzo operaio e un uomo di cultura, si incontrano in manicomio, uniscono le loro conoscenze in una situazione drammatica e comune, fino a comprendere insieme il «perché siano stati esclusi» dalla società. Una presa di coscienza che li porterà unitamente a reagire di fronte all’ennesima violenza perpetrata ai danni di altri internati. Riprendendo Lega in un’intervista rilasciata ad arivista.org nell’aprile del 2007: «L’incontro fra due mondi emarginati, quello del lavoro e quello della cultura (un riferimento all’unione sessantottina del movimento studentesco e operaio?), possono generare un empito di libertà che, anche quand’è votato al fallimento, resta l’unico gesto con cui la vita si afferma contro la morte, in una parola: la resistenza».

Un piccolo grande album, che in poche canzoni mette a nudo un sistema sorpassato, ingiusto, solamente repressivo, molto lontano dalle finalità che la medicina in generale, e la psichiatria in particolare, dovrebbero perseguire. Ma l’LP di Nebbiosi non vuole essere solo una denuncia: entra nell’intimo dei suoi personaggi, gli concede la parola, riesce a trasmettere le loro sofferenze.

«Se l’ascoltate» commenta il già citato Caponeri sul suo blog «e, ciò nonostante, non sentite un groppo al cuore e non vi viene l’istinto di stringere i pugni dalla rabbia, beh, vuol dire che non avete più né cuore né pugni».

«TANTE CALLARROSTE ASSIEME A TANTI PIANTI»

Nebbiosi album 1974

Il secondo album di Nebbiosi del 1974

Prima di parlare del secondo album del cantautore-psicoanalista romano, occorre fare una breve precisazione sul concetto piuttosto fluido di canzone sociale. Generalmente non viene considerato un genere a sé stante e non deve essere confuso con la più larga concezione di canzone popolare. Come spiega il cantautore sardo Roberto Deiana ad arivista.org nel 2019: «È con grande rispetto e amore che “corteggio” il canto popolare e il canto sociale. Volutamente faccio un distinguo perché non tutto ciò che è musica popolare ha contenuti sociali e non tutto il canto sociale ha una matrice popolare. Certo – e qua apparentemente mi contraddico – anche un canto non di contenuto politico, a seconda del contesto in cui viene proposto, diventa canto sociale».

Se tale sottogenere, dunque, si materializza nel connubio tra la musica tradizionale da una parte e i contenuti sociali dall’altra, allora l’album Mentre la gente se crede che vola di Gianni Nebbiosi, uscito nel 1974, può considerarsi a pieno titolo un prodotto della canzone sociale di quegli anni.

Nel biennio che intercorre tra i due album, qualcosa si muove anche nella Capitale. Nel 1972 Alessandro Portelli e Giovanna Marini fondano il Circolo Bosio, intitolato appunto all’editore mantovano, deceduto prematuramente l’anno precedente; i due sono seguiti da un gruppo di giovani artisti romani tra cui spiccano i nomi di Piero Brega, Sara Modigliani, Carlo Siliotto e Francesco Giannattasio, in sostanza la formazione iniziale del Canzoniere del Lazio (1973), progetto anch’esso trainato dagli studi di Alessandro Portelli, volti a riscoprire la musiche e i canti tradizionali della regione laziale. Vicino a questa nuova realtà musicale, che riscosse un discreto successo nel corso degli anni Settanta, c’è anche Gianni Nebbiosi. Sempre nel 1973, in seguito alla pubblicazione del primo album in studio del nuovo gruppo folk romano, Quando nascesti tune, Giovanna Marini, Nebbiosi, i componenti del CdL e altri artisti emergenti partono in tournée con lo spettacolo Fare musica; fu quello il periodo di gestazione del secondo album del futuro psicoanalista.

In Mentre la gente se crede che vola vi sono alcune novità rispetto al primo album. La prima svolta è di natura prettamente musicale. Si era ormai nel vivo degli anni Settanta e Nebbiosi non era solo un validissimo musicista («uno che “sa” la musica» ha ammesso la stessa Giovanna Marini sul palco del Teatro Torlonia nel 2019) ma è anche un amante del rock, del folk e del jazz. La «svolta elettrica», come la chiama il già citato Caponeri, era però incompatibile con la rigida visione de I Dischi del Sole. Incompatibilità confermata anche dal musicologo Gianfranco Salvatore nel suo libro dedicato al duo Mogol-Battisti:

«Anche Giovanna Marini (…) riflettendo –in un volume curato dal Club Tenco nell’82– sul destino de I Dischi del Sole, la loro collana discografica, ammise che la scomparsa di quel catalogo fu causata da una mancata apertura, da un consapevole rifiuto verso il pop e il rock (il riferimento era a dieci anni prima, quando I Dischi del Sole avevano negato al Canzoniere del Lazio e a Gianni Nebbiosi la possibilità di registrare con strumentazioni e arrangiamenti elettrici)».

Una chiusura che porterà tanto Nebbiosi quanto il CdL a intraprendere una fruttuosa collaborazione con la casa discografica Intingo, fondata proprio nel 1973 dal compositore e produttore lodigiano Ricky Gianco, uno dei padri del rock ’n roll italiano.

L’altra novità del suo secondo LP lo lega, in parte, alla musica tradizionale: in almeno quattro canzoni, probabilmente le più belle dell’album, Nebbiosi ricorre al dialetto romanesco: «Un romanesco —per dirla come il già citato Caponeri— non carico e caciarone, ma fluido, spontaneo, finanche dimesso», che tuttavia lo distingue dai maggiori interpreti della nuova canzone romana di quegli anni, su tutti Gabriella Ferri (fine anni Sessanta), Antonello Venditti e Franco Califano (primi anni Settanta).

Per quanto riguarda invece le tematiche affrontate, il secondo album di Nebbiosi è apparentemente meno concept del primo: come si è già accennato, il cantautore romano allarga il suo orizzonte su tutta la società, sulle sue contraddizioni, le sue velleità e, soprattutto, sulle ingiustizie che essa genera. Riprendendo nuovamente Caponeri:

«È una fotografia mossa e lucida allo stesso tempo dell’Italia degli anni ’70, di una società che Nebbiosi saggiamente sceglie di non raccontare partendo ideologicamente dal quadro generale (…). Decide invece di cogliere la realtà partendo da storie di periferia e di miseria, da personaggi ispidi e veri, ritratti con esattezza e poesia, nei loro piccoli gesti di amore, ribellione, mortificazione».

Un’analisi, quella di Nebbiosi, che parte dunque dal particolare, dai suoi personaggi, siano questi di fantasia (l’uomo nero e il vecchio feticista), figure leggendarie (Re Mida e l’omerico Ulisse) o sottoproletari di periferia (er verniciaro o il povero ludopatico).

Su dodici tracce, di cui una strumentale, almeno cinque meritano una menzione a parte. In ’Na specie de speranza il suo protagonista, un ludopatico di periferia, si affida al Totocalcio e al Lotto per risolvere il problema della casa. Non riuscendo ovviamente nell’intento, un giorno esplode di rabbia («perché mi son stufato di ’sto sistema cane, che loro fanno i sordi e a noi nemmeno il pane») e la moglie coglie nella sua reazione una timida speranza che qualcosa, prima o poi, possa cambiare.

Con Er verniciaro Nebbiosi affronta la questione del lavoro. Un operaio è su un letto di ospedale, reso quasi cieco e gravemente malato (nel petto ha «un arcobaleno ’nfetto») per via delle vernici con cui ha sempre lavorato. Arriva alla consapevolezza della sua ingiusta condizione grazie alla solidarietà e la rabbia dei compagni che lo vanno a trovare, promettendogli di farla pagare a chi lo «ha ridotto a stà così».

In Pozzanghere l’autore ci riporta le emozioni di una donna di borgata, una baraccata ormai avanti negli anni, che nelle medesime pozzanghere vede scorrere tutta la sua vita. Nell’acqua sporca vede anche il riflesso dei palazzoni che ormai circondano il fango della sua borgata: il mondo intorno a lei è cambiato, ma non la sua condizione sociale. Ormai giunta alla fine, ricomincia a cantare come quando era bambina.

Anche in Giostre Nebbiosi insiste sul concetto di consapevolezza sociale. Le giostre sono i pensieri di chi non può permettersi una vita migliore e li affoga nei bicchieri di un bancone di un bar, dove va a bere o a «esse bevuto». Il giro sulle giostre, «’ngnude», non è un giro di piacere: mentre un uomo al botteghino conta i soldi senza alzare mai lo sguardo, «la gente se crede che vola».

Infine, quello che è considerato forse il suo più grande capolavoro, Ma che razza de città. Sotto un bel sole di fine gennaio, un proletario guarda alla Capitale come a una gabbia («ma in borgata, pe ’sta strada ch’è ’n’imbuto, Roma vole dì, soltanto, sei fottuto»); inizia a camminare, si compra un etto di castagne, si siede, e si mette a piangere. Ma tra «tante callarroste assieme a tanti pianti» si accorge che non è l’unico a vivere in quella gabbia, non è solo, e anche in lui si accende la consapevolezza della propria condizione sociale e, infine, impara una lezione: «T’aricordi che quarcuno t’ha spiegato, si cominci a restà solo sei fregato».

La scoperta della propria condizione sociale o, per meglio dire, di una coscienza di classe, come è evidente, è un concetto centrale e ricorrente nel secondo album di Gianni Nebbiosi. Vi si riconosce anche quella parabola dall’individuo alla collettività per certi versi analoga, tanto per fare un paio di esempi, al pasoliniano Tommaso Puzzilli, il protagonista del romanzo Una vita violenta o al bombarolo di Fabrizio De André che nella traccia Nella mia ora di libertà passa al «noi» quando ormai è rinchiuso in carcere. Nebbiosi si ferma dunque al raggiungimento di tale coscienza, non parla dell’eventuale passaggio successivo, quello della lotta di classe. Il messaggio, tuttavia, è chiaro: senza la prima difficilmente si arriva alla seconda.

«UNA PERSONA MOLTO TORMENTATA»

Nebbiosi Prima Materia

Gianni Nebbiosi nei Prima Materia

Il secondo e ultimo album di Nebbiosi non è solo un capolavoro di contenuti. Rispetto alla semplicità del suo primo LP, sul piano strettamente musicale Mentre la gente se crede che vola è una fortunatissima fusione di diversi generi, dal folk al blues finanche al rock progressivo. Nebbiosi si avvalse della collaborazione dei già citati componenti del CdL, ma anche degli Alberomotore (in particolare Fernando Fera, Marcello Vento, Glauco Borelli e Carlo Magaldi).

Proprio con quest’ultimi aveva iniziato a collaborare nel 1973, mettendo a disposizione anche una sala prove e partecipando attivamente alla realizzazione del loro unico album, Il Grande gioco, uscito nel 1974. Nello stesso anno contribuisce come clarinettista all’uscita del secondo album del Canzoniere del Lazio, Lassa stà la me creatura, prodotto sempre dalla Intingo di Ricky Gianco.

Alla metà degli anni Settanta Nebbiosi è ormai una figura centrale per la musica folk-popolare romana, sia in veste di musicista che, ovviamente, come cantautore. «Gianni era fantastico —ha dichiarato a Folk Magazine nel 2013 Sara Modigliani, ex voce del CdL nonché ex moglie di Nebbiosi— scriveva delle canzoni meravigliose, era una persona molto tormentata, scriveva benissimo del tormento, dei disagi: l’immigrato, l’ubriaco, il malato di mente».

Nel 1976 Gianni Nebbiosi cambia radicalmente genere e partecipa all’originalissimo progetto di canto armonico dei Prima Materia, gruppo fondato tre anni prima negli Stati Uniti dal musicista vicentino Roberto Laneri. Anche lui diplomato in clarinetto presso il Conservatorio di Santa Cecilia, nel 1975 Laneri e Susan Hendricks si erano trasferiti in Italia per lavorare su quello che sarà il primo e unico album dei Prima Materia, The Tail of the Tiger (1977), in cui Nebbiosi svolse un ruolo di primissimo piano.

È l’ultima impronta discografica lasciata dal cantautore romano che, salvo un paio di collaborazioni con la già citata Maria Monti, non inciderà più nulla. Sul suo allontanamento dalla scena musicale non vi sono motivazioni particolarmente note, se non quella (più ovvia) che una volta giunto alla soglia dei trent’anni Nebbiosi si sia dedicato esclusivamente alla sua professione di psicoanalista.

Attualmente è uno dei più affermati psicoanalisti sul panorama nazionale e internazionale. È il fondatore e presidente dell’ISIPSé (Istituto di Specializzazione in Psicologia Psicoanalitica del Sé e Psicoanalisi Relazionale) nonché membro fondatore dell’IARPP (International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy). Ancora oggi, alla soglia degli ottant’anni, prosegue la sua attività di docente e di divulgatore. Senza particolari clamori, qualche volta è tornato a cantare le sue canzoni in pubblico.

LE «RISCOPERTE» NEGLI ANNI

 Lega Celestini 2018

Alessio Lega e Ascanio Celestini nel 2018

Nonostante la sua brevissima parabola musicale, Gianni Nebbiosi non è mai finito nel dimenticatoio. Oltre a essere frequentemente passato dalle radio antagoniste, su tutte Radio Onda Rossa e Radio Onda d’Urto, nel corso degli anni le sue canzoni furono riproposte e reinterpretate dagli artisti e studiosi del Circolo Bosio, in particolar modo da Sara Modigliani e dalla stessa Giovanna Marini.

Nel 2008, in occasione del trentennale della Riforma Basaglia, il già citato Alessio Lega rieditò il primo album di Nebbiosi, E ti chiamaron matta, in collaborazione con il polistrumentista Rocco Marchi. Il cantautore leccese non ha voluto solo omaggiare la Legge 180 o rilanciare quel piccolo e ormai introvabile LP:

«Più che celebrare la legge in sé —ha spiegato Lega in un’intervista rilasciata al periodico Vita nel luglio del 2008— ho voluto raccontare il grande movimento di opinione che ha mosso l’Italia in quegli anni, una roba di cui andare orgogliosi. Il disco è del 1971, non del 1978. (…) Trovo straordinario l’aver portato la follia in piazza, di fronte alla società intera, raccontandone le storie degli internati, facendone un tassello della vita sociale. È straordinario che così tanta gente sia scesa in piazza per una cosa che non riguardava tutti».

Lega e Marchi si ripetono dieci anni dopo, in occasione del quarantennale della riforma, ristampando nuovamente l’album in collaborazione con lo scrittore e attore romano Ascanio Celestini. Oltre alle sei tracce di Nebbiosi, l’album del 2018 contiene anche una ballata, divisa in sei parti, dedicata alla tragica vicenda di Franco Mastrogiovanni, maestro elementare di 58 anni, deceduto nel 2009 in seguito a un TSO presso l’ospedale di Vallo della Lucania dopo 82 ore di contenzione. Una tragedia, purtroppo, come tante altre (meno note), che evidenzia quanto la riforma ottenuta nel 1978 sia ancora molto distante dalla sua completa applicazione.

«Quando ci si occupa della sofferenza psichica —scrive lo stesso Gianni Nebbiosi nella nota che accompagna l’album di Alessio Lega— è importante condividerla, capire i significati affettivi e i contesti della vita che l’hanno fatta nascere. In fondo le persone che soffrono non cercano altro: vogliono parlarci di quello che le fa soffrire, e vogliono che li comprendiamo per poter comprendersi».

Il nome di Nebbiosi tornò in auge in occasione del concerto tenuto da Francesco De Gregori presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma nel luglio del 2018. Destò molta sorpresa la scelta del Principe di aprire il suo live con Ma che razza di città, perlopiù sconosciuta al grande pubblico; una scelta che la stampa sintetizzò come mera provocazione all’allora sindaca di Roma Virginia Raggi. De Gregori la riproporrà anche in altre città nelle date successive; queste le parole del cantautore romano rilasciate al quotidiano La Repubblica nel febbraio del 2019: «Beh, se faccio una scaletta che inizia con “Viva l’Italia”, cui segue “Ma che razza de città” di Gianni Nebbiosi, un motivo ci sarà, ma non lo devo spiegare io».

L’ultimo contributo a Gianni Nebbiosi lo porta il musicista e produttore romano Matteo Portelli che nel corso del 2020, in piena emergenza sanitaria, realizza e produce la cover di E qualcuno poi disse, forse la traccia più incisiva del primo album uscito nel 1972. Anche Portelli insiste sulla forza dei testi di Nebbiosi, come ha dichiarato ai microfoni di Radio Città Aperta nel maggio del 2020:

«La cosa che più mi ha colpito di questa canzone è l’urgenza, l’urgenza di dire e raccontare qualcosa, e questo è forse il motivo per cui “arriva” così tanto, almeno a me. Ed è forse per questo che ho avvertito questa urgenza, che fosse il caso di raccontare ancora questa storia, una storia potente, forte, che aveva bisogno anche dal punto di vista dell’elaborazione e dell’arrangiamento che volevo dargli, della stessa urgenza che lui ha messo nella composizione».

Il lavoro musicale di Nebbiosi, strettamente connesso con quella che poi è stata la sua vita professionale, forse non è andato perso del tutto. Ancora oggi i suoi testi sono attuali, pongono in evidenza problematiche tutt’altro che superate. «Restano —come scrive Riccardo Venturi su antiwarsong.org— una quindicina di canzoni, molte delle quali talmente indimenticabili, da essere state purtroppo (quasi) completamente dimenticate».