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«Giochiamo a fare la guerra?». The Warriors approda in Italia (1979)

Redazione Spazio70

Da un articolo di Marzio Castagnedi per il Corriere d'Informazione del 19 luglio 1979

Benvenuti nella città della paura. Così campeggiava, sopra una debita testa di morto, il titolo di un volantino di quattro pagine distribuito in tutta New York nel 1976. Il motivo era il previsto licenziamento di migliaia di vigili e poliziotti che la municipalità della megalopoli atlantica non poteva più pagare essendo sull’orlo della bancarotta. Poi il sindaco trovò con grande fatica i finanziamenti statali e i poliziotti rimasero. Ma anche la paura.

«UN’ONDATA DI FURIBONDE POLEMICHE»

Sette o otto milioni di abitanti, e anche più con gli sterminati sobborghi, New York li accoglie prima di tutto con velate ma ferme raccomandazioni: in albergo chiudetevi subito a chiave e fuori non andate soli dopo il tramonto. Fermamente “off limits” certe zone come la Bowery, popolata da alcolizzati che passano la notte sui marciapiedi, o come Harlem il quartiere nero. Caldamente da evitare il Central Park dopo le prime ombre della sera e molto pericolosa la subway, la sterminata metropolitana, dove nei primi tre mesi di quest’anno c’erano già stati nove omicidi. A proposito di omicidi, New York ne totalizza annualmente “un paio di migliaia”, cioè qualcosa come quattrocento più di tutte Italia messa insieme. Dunque gangsterismo e criminalità dilagante in tutte le sue zone, organizzate e selvagge, ai vertici dei record mondiali. Ma poteva una tale realtà non fare massiccia irruzione nel cinema? Certamente no, anzi. Il cinema è in casi come questi specchio particolarmente efficace e clamorosa cassa di risonanza della realtà.

Ne fa ampiamente fede un film, un nuovo film americano che arriverà da noi la prossima stagione (ma a Milano, in anteprima, il prossimo 31 luglio) The Warriors (I guerrieri della notte), diretto da Walter Hill che al suo apparire negli Stati Uniti ha provocato un’ondata di furibonde polemiche e anche cruenti incidenti. Ma The Warriors è preceduto sui temi della violenza e della paura da moltissimi altri film statunitensi più o meno illustri. Una città come New York è stata la vera e incontrastata protagonista di tantissimi film “gialli” e “neri”. A cominciare da un classico come Giungla d’asfalto girato da John Huston nel 1960, passando per Il padrino, il primo grande successo di Francis Ford Coppola, incentrato come tutti sanno sulla era delle “famiglie” della Mafia, per giungere a Taxi Driver di Martin Scorsese, film che impressionò non poco alla sua uscita. Taxi Driver fu un apologo pressoché perfetto. Il protagonista, Robert De Niro, facendo il tassista notturno (New York è una città dove ne vengono assassinati un centinaio l’anno) si caricava di violenza come una spugna filtrando la sequela degli squallidi episodi di cui era testimone fino a diventare egli stesso l’epilogo elemento di incontenibile aggressività. Ma i film da ricordare su questa linea sarebbero davvero tanti. Ne possiamo citare ancora qualcuno, dai vecchi La città nuda (1948) di Dassin e Bandiera gialla (1950) di Kazan — che lanciò la dura maschera di Jack Palance nei panni di uno spietato gangster — ai più recenti Gli amici di Paddy Coyle (un bel film di Peter Yates con Robert Mitchum), Serpico di Sidney Lumet con Al Pacino, e Il braccio violento della legge di William Friedkin.

Proprio con Friedkin (e con Gene Hackman, il protagonista) si parlò qui a Milano dei temi della violenza nella società americana, quando il giovane regista venne a presentare quel suo film nel 1974. E Friedkin la sapeva lunga perché il braccio violento della legge aveva avuto come “consigliere tecnico” Eddy Ega, un ex tenente della squadra narcotici di New York che ha fatto fortuna come consulente per i film sul crimine. Friedkin disse in quell’occasione che secondo i dati a lui risultanti almeno una nuovayorkese su tre aveva subito un furto, una rapina o un’aggressione. Non per nulla da quelle parti in molti hanno l’abitudine di tenere in tasca un rotolino di dollari pronto per il possibile malintenzionato dietro l’angolo. Certo la vita continua ma tra aneddoti quotidiani di questo tipo.

«IL TASSO DI VIOLENZA È CONTINUO E IPERREALISTICO»

Veniamo ora a The Warriors, ultimo e clamoroso esempio di cinema violento su una violenta America e una violenta New York. Il film di Hill – che ha concluso recentemente la quindicesima edizione della Mostra del nuovo cinema di Pesaro, quest’anno dedicata alla produzione di Hollywood dal 1969 al ’79 – svolge la sua azione in una sola notte. Tutto inizia con una mastodontica riunione delle moltissime bande di teppisti che popolano i vari quartieri. All’adunata nel Bronx, ogni banda invia solo nove rappresentanti e ciononostante sono centinaia i giovani presenti quando Cyrus, il capo del Gramercy Riffs, annuncia il grande progetto di unificare tutte le “gang” e andare di fatto alla conquista della città con un vero esercito di quasi centomila giovani. Ci sono, in una incredibile parata di abbigliamenti, le bande dei Black Jacks, degli Electric Eliminators, dei Saracens, degli Zodiacs, dei Moonrunners e infinite altre composte da elementi di ogni razza e colore: sono ragazzi sradicati e rissosi sgorgati dai bassifondi e dai grandi ghetti desolati. A un tratto un colpo di pistola colpisce mortalmente Cyrus, il capo carismatico, ed è subito lì il caos.

Mentre arriva la polizia in forze, si sparge la voce che gli attentatori sono i Warriors, i guerrieri di Coney Island. Siamo ancora all’inizio del film e i restanti settanta minuti di proiezione illustrano l’affannosa ritirata dei Warriors presi tra dieci fuochi verso il loro lontano quartiere. E’ intuibile che si tratta di una serie incredibile di agguati feroci, corse estenuanti e durissimi pestaggi in tunnell e strade semibuie. All’alba però il dramma si stempera in un “happy end” e tutto sembra rimanese come un giuoco sinistro e pericoloso. Ci fossero musica e canzoni, saremmo dalle parti di West side story, il famoso musical di ambientazione analoga dove, tra un balletto e l’altro, balenava la lama di coltello di George Chakiris, il portoricano. Storie di violenza, di droga (forse anche d’amore) su una città già “cantata” anche in poesia e letteratura da uomini come Henry Miller, William Burroughs, James Baldwin, Allen Ginsberg. C’è da dire che, per esempio, un film come Arancia Meccanica di Kubrick, pur avvenieristico e grottesco nella sua ferocia, potrebbe risultare ancora più inquietante di questo The Warriors come pure ancor più teso fu il similare ma circoscritto New York ore tre, l’ora dei vigliacchi (che lanciò il giovanissimo Tony Musante). Ma nel film di Hill il tasso di violenza è continuo e iperrealistico e si può capire che possa divenire elemento scatenante di pericolosa e contagiosa suggestione in una società, come quella contemporanea degli enormi agglomerati urbani, già percorsa da forti tensioni e contrasti.

Nel film la faida sanguinosa si consuma esclusivamente tra le bande rivali con fugaci comparse della polizia. In una sola sequenza fa un’apparizione la gente “normale”. Quella in cui sul vagone del metrò occupato dai “guerrieri” salgono, ma per una sola fermata, due coppie di giovincelli “bene”, lavati e stirati nei loro completi di lino bianco. In realtà The Warriors punta le sue carte di successo proprio sul sentimento di paura che può generare nel pubblico. La sfilza delle grinte e dei bicipiti è in effetti preoccupante e c’è da credere che contrasti, polemiche e discussioni – oltre che successo di cassetta – scaturiranno anche da noi, dopo il lancio americano del febbraio scorso con la proiezione in ben 600 cinema.

Quanto a Walter Hill, aggiungeremo che si fece conoscere lo scorso anno con un poliziesco abbastanza anomalo e singolare come Driver, quello con un silenzioso Ryan O’Neal inafferrabile pilota della “mala”.