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Sa Babila, ore 20: un delitto inutile

Redazione Spazio70

Film del 1976, regia di Carlo Lizzani

Un gruppo di quattro sanbabilini poco più che maggiorenni ozia dalla mattina alla sera nel centro di Milano. Siamo nella metà degli anni Settanta a San Babila, la parte della città notoriamente più orientata a destra, una sorta di enclave neofascista. I quattro ragazzi si muovono a bordo di una Citroen Mehari: due provengono da famiglie benestanti e frequentano ancora il liceo, il terzo è sostanzialmente il leader del gruppo nonché confidente della polizia mentre il quarto è un giovane immigrato napoletano che lavora presso un commerciante della zona.

UNA NARRAZIONE ZEPPA DI STEREOTIPI

Il gruppo appare isolato dal resto del contesto neofascista sanbabilino e passa le sue giornate a compiere sciocche provocazioni nei confronti dei rossi: pure e semplici azioni di vandalismo come la distruzione di motorini, magari sotto gli occhi della polizia. Quando il gruppo decide di organizzare un attentato contro una sede comunista, l’azione viene «subappaltata» al più debole del gruppo, quello che, come spiega nel film uno dei protagonisti, «fisicamente e caratterialmente potrebbe essere più un rosso che un fascista». L’obiettivo è insomma quello di piazzare della dinamite. Il sanbabilino fa tutto quello che deve, ma all’ultimo momento gli manca il coraggio di accendere la miccia: lascia quindi i candelotti in un cesso decidendo di darsela a gambe. L’ennesima bravata è una vera e propria esibizione di falli finti all’interno di una piazza. La gente guarda imbarazzata o fa finta di non vedere, fino a quando la polizia piomba sul posto a sirene spiegate e arresta tre dei quattro neofascisti. Per una volta la forza pubblica è intervenuta: la cosa appare inspiegabile ai ragazzi che sembrano godere di protezioni politiche piuttosto evidenti. Una sorta di sinistro presagio per un epilogo di sangue.

Carlo Lizzani offre in questo San Babila, ore 20 una narrazione zeppa di stereotipi, ma comunque capace di far presa sullo spettatore interessato agli anni Settanta. I quattro protagonisti sono interpreti non professionisti, tranne forse quel Pietro Brambilla che avrà modo di recitare nello stesso 1976 nel celebre La casa dalle finestre che ridono. Nonostante le non eccelse doti attoriali, le facce si rivelano giuste, ma il tentativo di mettere in scena del neorealismo non è pienamente raggiunto.

UNA VICENDA REALMENTE ACCADUTA

I quattro «cattivi» del film sono approssimativi, maldestri, in un certo senso naif. Il leader, interpretato da Brambilla, è un nullafacente, un puro e semplice agitatore politico e, come scritto sopra, informatore di polizia e stampa. In pratica vive di soffiate e non di rado taglieggia i suoi stessi camerati per custodire segreti imbarazzanti.

Il personaggio interpretato da Daniele Asti (altro viso interessante) ha un rapporto conflittuale con la madre: la donna lo segue a bordo di una Mercedes, in alcuni frangenti dando quasi l’impressione di volerlo abbordare (paradigmatica la scena nella quale la signora offre un deca al figlio affinché vada con lei a fare un giro e a parlare un po’). E’ proprio questo il ragazzo al quale viene richiesto di piazzare la bomba presso la sede comunista.

C’è poi l’immigrato napoletano (Pietro Giannuso), quello che «è rimasto contadino nella testa perché non accetta l’autorità». E’ il più povero del gruppo, ma forse il più determinato: ha tra l’altro una mira da sicario, come dimostra fieramente nel tiro a segno. Si tratta di una sorta di Dr. Jekyll & Mr. Hyde, perché alla capacità di stare in società e lavorare sodo associa quella di diventare prepotente e aggressivo soprattutto con le donne.

Il quarto sanbabilino, senza dubbio il più ricco, è interpretato da Giuliano Cesareo. Il padre del ragazzo è completamente pazzo, ma pieno di soldi (e probabilmente fascista), capo di un nucleo familiare distrutto. Il personaggio di Cesareo è però particolarmente intelligente e riesce a tenere testa a un commissario della buon costume che lo ha arrestato, assieme agli altri, per la bravata dei «falli di gomma».

Alcune figure di contorno appaiono interessanti: c’è quella dello sbirro «psicologo» (presente anche nei polizieschi di Fernando Di Leo) che di fatto prevede per il sanbabilino napoletano una pessima fine o anche quella della ragazza svizzera (Brigitte Skay) abbordata dal gruppo, feticista e in apparenza cretina, che sarà poi decisiva nello svolgimento della storia.

Il film si basa sulla vicenda, realmente accaduta, di Alberto Brasili.