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Saluzzo, 27 settembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982. Vita e morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa

Redazione Spazio70

Dagli articoli di Alberto Salani e Giuseppe Bonazzoli per «Epoca» (1982). Interviste di Enzo Biagi, Antonietta Garzìa e Guido Mattioni

Carlo Alberto Dalla Chiesa a un anno e mezzo (marzo 1922) con il padre Romano, capitano dei carabinieri a Saluzzo, la madre Maria Laura Bergonzi e il fratello Romolo (fonte: giovannipepi.it)

A Saluzzo, dove era nato il 27 settembre 1920 (ma la famiglia era originaria di Noceto, in provincia di Parma), vive ancora la donna che gli fece da balia. Si chiama Teresa, ha ottantacinque anni e l’ultima volta che ha visto Carlo Alberto è stata qualche mese fa quando il generale, in visita alla città natale, le portò un mazzo di fiori. Ha raccontato l’ex «tata»: «Era arrivato all’improvviso, in borghese, restammo a chiacchierare per ore e lui mi disse che stava per sposarsi e che presto mi avrebbe fatto conoscere la sposa».

E’ l’ultima immagine «piemontese» di Carlo Alberto Dalla Chiesa, un quadretto intimo che addolcisce il cliché di un personaggio al quale il destino, e la sua scelta personale, avevano riservato il ruolo, pesantissimo, di difensore della legge e dello Stato. Veniva da una famiglia di ufficiali dell’Arma dei carabinieri, suo padre, Romano, era stato vice-comandante dell’Arma e il fratello, Romolo, a Carlo Alberto somigliantissimo, è ora generale.

Per il giovane Carlo Alberto la scelta era dunque obbligata. Anche lui sarebbe stato carabiniere. E lo divenne il 12 ottobre del 1942 (dopo aver combattuto nei Balcani come ufficiale di fanteria) quando fu destinato fino all’otto settembre del 1943 alla tenenza di San Benedetto del Tronto. Ha ventitré anni soltanto, quando, come tanti altri, sceglie la dura strada della resistenza organizzando nelle Marche bande di partigiani. In quel periodo il giovane Dalla Chiesa trova il tempo per laurearsi in giurisprudenza all’università di Bari dove più tardi otterrà anche la laurea in scienze politiche. Dopo la liberazione sarà prima a Parma poi alla tenenza di Salsomaggiore, quindi al comando della compagnia di Casoria (Napoli) con il compito di dirigere e coordinare il settore anti-brigantaggio. E’ un ufficiale abile, duro e inflessibile, gran lavoratore. La sua figura alta e snella nasconde un vigore alimentato continuamente dall’ansia di vincere ogni battaglia, anche la più pericolosa, contro la delinquenza.

DALLA MAFIA ALLE BRIGATE ROSSE

Carlo Alberto Dalla Chiesa fotografato a Corleone nel 1948

In Sicilia, nel marzo del 1948, viene ucciso un sindacalista di Corleone, Placido Rizzotto. Sono gli anni della banda Giuliano e di Luciano Liggio. Si spara, si uccide, si commettono stragi, una mafia feroce, la «vecchia mafia», la chiameranno più tardi, terrorizza i paesi della Sicilia occidentale. In questo clima di omertà e di paura, Carlo Alberto Dalla Chiesa tesse paziente le sue reti. E’ una guerra durissima, pericolosa, lo Stato appare lontano e lui, giovane ufficiale del Nord, si sente già «solo» in un ambiente ostile e chiuso. Il clima di quegli anni verrà descritto mirabilmente da Leonardo Sciascia ne «Il giorno della civetta», protagonista il capitano Bellodi, nella realtà Carlo Alberto Dalla Chiesa. Gli assassini di Rizzotto vengono identificati, ma al processo di Palermo ci saranno assoluzioni per tutti, per insufficienza di prove. Per Carlo Alberto Dalla Chiesa è una sconfitta, la Sicilia della mafia sembra sorridere di trionfo quando l’ufficiale lascia l’isola, trasferito o «silurato» per tornare in continente. Ora lo attendono altri incarichi, a Firenze, a Como, a Milano, a Roma, alla scuola allievi di Torino. Ma la Sicilia nel bene e nel male, gli è rimasta nel cuore.

E’ convinto di aver capito la mafia, ora, dopo la prima sfortunata esperienza, sa bene come muoversi e quali errori evitare. Eccolo dunque ancora a Palermo come colonnello comandante della legione dei carabinieri. Sono gli anni che vanno dal 1966 al 1973, la vecchia mafia agraria ha lasciato il posto alla mafia dell’edilizia, se possibile ancora più feroce. Dalla Chiesa stavolta colpisce a fondo e finiscono in galera settantasei capi mafiosi, tra i quali Frank Coppola e Gerlando Alberti.

Poi gli anni del terrorismo e Dalla Chiesa è al Nord, dal 1973 al 1977 al comando della prima brigata carabinieri di Torino. I nemici ora sono altri, le Brigate rosse di Curcio, Franceschini e Mara Cagol. Ancora una volta lo Stato appare impotente di fronte al nuovo pericolo, ma Dalla Chiesa è come sempre in prima linea. Organizza nel Nord squadre speciali di super esperti, si serve di confidenti, si muove in piena libertà, per una volta ha carta bianca. L’otto settembre del 1974 cattura Curcio e Franceschini infiltrando fra i brigatisti una spia, Silvano Girotto, meglio conosciuto come «frate mitra». Poi altri successi, la cattura di Corrado Alunni e di Nadia Mantovani prima di arrivare al grande colpo, quello mortale per il terrorismo del Nord, della cattura a Torino di Peci e Micaletto.

EMANUELA, UNA RAGAZZA «D’ALTRI TEMPI»

Emanuela Setti Carraro

Carlo Alberto Dalla Chiesa è all’apice del successo, ormai la sua figura alta e massiccia appare dietro ogni operazione contro il terrorismo e la delinquenza. Organizza le carceri superprotette dopo che per anni era apparso estremamente facile fuggire dalle patrie galere per brigatisti o semplici delinquenti. I suoi metodi, qualche volta contestati, ora appaiono a tutti, anche ai suoi irriducibili avversari, quelli giusti per combattere una battaglia estremamente difficile. Nel gennaio 1978 Carlo Alberto Dalla Chiesa è promosso generale di divisione e dopo l’assassinio di Aldo Moro è nominato coordinatore della lotta al terrorismo.

Della sua vita privata si è sempre saputo poco, la sua «vita in divisa» non aveva mai lasciato spazio alle notizie intime, familiari. Il 19 febbraio 1978 Carlo Alberto Dalla Chiesa resta vedovo: la moglie Dora Fabbro, conosciuta a Bari quando frequentava la facoltà di scienze politiche, muore di infarto. A Dalla Chiesa restano tre figli, Simona, Rita e Nando, ormai adulti e indipendenti, che non riusciranno a riempire il vuoto lasciato dalla moglie e la solitudine di un uomo «condannato» a servire lo Stato, un destino scelto che adesso sembra ancora più pesante.

Ora lavora nella caserma di via Moscova a Milano circondato da uomini che lo amano e lo temono (lo chiamavano affettuosamente «Dallas»), qualche volta compare in alcuni salotti della città, passeggia tutto solo in Galleria, indossa la divisa nelle cerimonie ufficiali. E’ un conversatore brillante, un uomo colto, sogna di trascorrere gli anni della pensione in campagna. Ma quella meta è ancora lontana, il destino gli riserva, prima della morte violenta, l’ultima gioia, la felicità di una nuova compagna.

E’ una dolce crocerossina della buona famiglia milanese, una ragazza «d’altri tempi», Emanuela Adelaide Carlotta. Ha trent’anni meno di lui, ma il fascino dolcissimo di quell’uomo in divisa la seduce secondo il più classico dei colpi di fulmine. Si sposano il 10 luglio in un castello vicino a Trento. Per il viaggio di nozze non c’è tempo, la Sicilia, terra amata e maledetta, attende il generale, ora superprefetto. Il 30 aprile la mafia ha assassinato l’onorevole comunista Pio La Torre e lo Stato, ancora una volta, ha chiamato Dalla Chiesa. Lo stesso giorno il generale risponde «obbedisco» e arriva a Palermo dove lo raggiungerà Emanuela. Non avranno il tempo, Carlo Alberto ed Emanuela, di vivere la loro felice stagione: i killer sono già in agguato; la sera del 3 settembre sedici pallottole troncheranno la vita di un servitore dello Stato e della donna che aveva imparato ad amarlo.

«TEMPO FA DISSI CHE LA MAFIA STAVA PIAZZANDO I PROPRI UOMINI DOPO AVERLI PORTATI ALLA LAUREA E AI CONCORSI»

Enzo Biagi e Carlo Alberto Dalla Chiesa

Nel febbraio dell’anno scorso Enzo Biagi aveva intervistato per la stazione televisiva Telemond il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Epoca pubblicò in anteprima il lungo colloquio in un ampio servizio fitto di domande e risposte, l’esatta trascrizione di quasi due ore di «terzo grado» di un illustre giornalista a un alto ufficiale. Dalla Chiesa, quando gli chiedemmo il permesso di pubblicazione dell’intervista, volle rivedere passo per passo ogni frase. La penna in mano, burbero e preciso, «rivedeva» come il più abile dei giornalisti ciò che aveva detto a Biagi, parola per parola. Si scusava, ma non troppo, dicendo: «Un conto è parlare, un conto è vedere le parole scritte. Magari la sintassi va a farsi benedire, magari mi sono scordato qualcosa di importante, sapete com’è, Biagi, con quelle sue domande intriganti…»

Alla fine del lavoro si scusò, aggiungendo subito: «Le cose bisogna farle bene, sempre, mai a metà». Dalla Chiesa era anche questo, un pignolo con gusto della perfezione. Di quella intervista a Biagi, e di quella che due mesi fa rilasciò alla nostra redattrice Antonietta Garzia, riportiamo alcuni stralci, giudizi e affermazioni che oggi, dopo la tragica morte del prefetto di Palermo, assumono il significato di un documento politico e umano.

Ci sono stati dei momenti in cui ha avuto paura?

«Sì, sono stati più frequenti di quanto non si pensi: come quando ho dovuto impiegare dei collaboratori, sapendo che andavano a rischiare la vita; come quando sono in ufficio e sentendo il suono del telefono guardo Cristo perché non so mai cosa può arrivare»

L’ho vista un giorno in Galleria a Milano ed era almeno mi pareva da solo. Perché?

«Giro da solo. Non vedo perché se ne meravigli. In definitiva la situazione me lo consente, ho la consapevolezza di poterlo fare. Penso che dia nello stesso tempo, a chi mi vede, la tranquillità, la sensazione, che tutto sia normale»

Chi è un mafioso?

«Un mafioso è uno che lucra per avere prestigio e poi goderne in tutti i settori. E chi lucra è pure capace di uccidere. E prima di uccidere, intendo assassinio anche come morte civile, è pure capace di usare espressioni come “paternamente, affettuosamente, ti consiglio”».

Che cosa le è rimasto dentro della esperienza di lotta contro la mafia?

«E’ stata una grande esperienza. Una soddisfazione, direi, tutta interiore, per avere conosciuto da vicino pieghe, risvolti, di una società, di un mondo del quale è difficile, è molto difficile, dire “conosco”»

Quante volte lei si è sentito sconfitto?

«Quando avevo ragione e ho dovuto sacrificarla»

Generale, dicono che una delle qualità più spiccate è il segreto. E’ vero che nemmeno i suoi figli conoscono il suo numero telefonico diretto?

«E’ proprio così»

E le pesa sapere i rischi che corrono i suoi familiari?

«Molto»

Generale, è in Sicilia la testa del serpente mafioso?

«La Sicilia è certamente la matrice della criminalità mafiosa, le cui metastasi, però, hanno ormai invaso molte regioni d’Italia. Ma vorrei fosse chiara, a tutti, anche ai neofiti troppo presto saliti in cattedra, che perseguendo i responsabili di gravi delitti, cogliendone talvolta killers e mandanti, colpendo poche determinate attività criminali e soprattutto i relativi lucri illeciti, non si arriva automaticamente alla sconfitta e alla disarticolazione della mafia, perché la mafia non è, come ho detto, una somma di episodi criminali, ma un vero e proprio fenomeno di carattere criminale e sociale insieme»

Gli uomini che guidano questa danza macabra sono al di sopra di ogni sospetto?

«Nelle stesse pieghe delle amministrazioni locali e statali sono, con molta probabilità, inseriti elementi legati a questo fenomeno e il loro mimetismo non solo garantisce il proseguimento del successo dell’illecito ma contribuisce anche a quel “prestigio” su cui il mafioso deve poter contare in ogni sede. Nel 1967, deponendo davanti alla Commissione antimafia, parlai di “nipoti” che l’organizzazione andava sistemando nei gangli vitali della società siciliana e nazionale dopo averli portati alla laurea e ai concorsi. E dissi anche che i nomi dei mafiosi erano e sono sulla bocca di tutti. Ebbene è passato anche il tempo dei nipoti! Io sono qui in Sicilia a combattere non solo costoro – nel frattempo cresciuti e vestiti di abiti più “civili” – ma anche zii e pronipoti: e tra essi non escludo esistano personaggi al di sopra di ogni sospetto»

BOCCA: «A PALERMO TUTTI GLI DICEVANO DI SÌ, MA POI SE NE FREGAVANO»

Giorgio Bocca

«Me lo aveva detto a chiare lettere proprio lui. Due sono le condizioni per essere uccisi dalla mafia: essere pericolosi e scoperti. E lui era entrambe le cose». Giorgio Bocca è stato l’ultimo giornalista a intervistare il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nei primi giorni di agosto. La sua, quindi, è una testimonianza fatta a caldo e assume un particolare significato. Ha il sapore aspro e amaro di questi giorni di piombo.

«Mandare uno come Dalla Chiesa a combattere la mafia, senza dargli i minimi poteri necessari», dice Bocca, «significava mandarlo allo sbaraglio. Ti dirò come la penso. Dalla Chiesa era diventato un personaggio imbarazzante per l’Arma, dopo la scoperta del suo nome nelle liste della P2; ma d’altra parte le sue benemerenze erano tali da impedirne il siluramento. Il governo poi, e il ministro Rognoni in particolare, aveva un tale dovere di riconoscenza verso di lui da non potergli rifiutare l’incarico a Palermo. Perché dopo la nomina gli hanno negato i pieni poteri? Penso che la ragione sia sempre la solita: i legami tra la vita politica e la malavita si sono fatti così fitti e stretti, che sarebbe stato impensabile fornire a uno come lui i mezzi per smascherarli. Così gli hanno messo in mano una pistola, tanto per accontentarlo. Ma era una pistola scarica, senza cartucce. Comunque aveva già messo il dito su due o tre tasti esplosivi, come i depositi bancari e i controlli fiscali».

«Il tema della responsabilità dei politici? Buoni i politici… Sai, ce ne sono certi, in Sicilia e Palermo, che sono vergognosi. Bisognerebbe rimandare in onda alla Tv un’intervista al sindaco di Palermo, trasmessa dal Tg2. Era una cosa impressionante, scandalosa: gli chiedevano dei parroci che hanno preso posizione con coraggio contro la mafia e questo che fa? Risponde che non ne sa niente, nega, omette. Era stato lo stesso sindaco a opporsi alla concessione dei pieni poteri a Dalla Chiesa. E poche ore dopo il duplice delitto, il presidente della Dc Piccoli ha ribadito alla Festa dell’Amicizia che un nuovo prefetto Mori sarebbe stato fuori luogo; che la mafia poteva essere combattuta con la collaborazione tra le forze politiche e sociali. Ma sì, la solita aria fritta, i soliti giochi di parole di cui siamo arcistufi. Ci spieghi piuttosto il signor Piccoli come mai le forze tradizionali e i mezzi ordinari non hanno mai risolto nulla nella lotta alla mafia e anzi hanno lasciato che si espandesse in tutta Italia. Se penso che il fenomeno mafioso, passato il periodo delle frasi di circostanza, sarà riassorbito dall’ambiente politico romano e siciliano? Non è una ipotesi, è una certezza. Sono convinto che Dalla Chiesa anche con i pieni poteri non ce l’avrebbe fatta a sconfiggere la mafia di oggi, così legata al potere politico. Ma anche lui, in effetti, diceva sempre “arginarla” e mai “vincerla”. Nonostante ciò si faceva delle grosse illusioni; mi ha dato quasi l’impressione di essere un uomo ingenuo. Sì o era con le spalle al muro e ormai pensava “tento il possibile” oppure era uno che… Insomma, ci vuole una certa ingenuità ad accettare quell’incarico e poi fare la vita che faceva lui. Quando sono andato a Palermo e ho visto che la sua abitazione non era in Prefettura, ho pensato: ma questo è matto, tutti i giorni va e viene. Ti assicuro che quando sono andato a pranzo con lui avevo abbastanza paura: fuori, sulla porta del ristorante, non c’era un poliziotto, non c’era un carabiniere. Penso che molti attendessero un suo passo falso che lo mettesse in cattiva luce. In un certo senso me lo ha detto lui. Mentre lo intervistavo ho ricevuto la telefonata di un questore siciliano e ha parlato a voce alta in modo che lo sentissi bene: “Sì, lo so che voi dite tutti di essere a mia disposizione, ma non mi bastano le parole, voglio i fatti”. Cercava di farmi capire che tutti gli dicevano “sì” e lo chiamavano “Eccellenza”, ma che poi se ne fregavano».

«SE LO HANNO UCCISO È PERCHÉ AVEVA TROVATO IL BANDOLO DELLA MATASSA»

La A112 dilaniata dai colpi degli AK-47 con i cadaveri dei coniugi Dalla Chiesa subito dopo l’agguato di via Carini

Il giorno che arriva a Palermo deve subito presenziare a un funerale. E’ quello di Pio La Torre, deputato comunista che predicava, nella lotta alla mafia, la strada dei controlli fiscali, degli accertamenti patrimoniali, ed è finito ammazzato. Con poche parole, il generale esalta il coraggio di quel «cadavere eccellente». Sembrerà, 120 giorni dopo, un tragico presagio. Dalla Chiesa arriva a Palermo quale generale-prefetto: dopo i suoi successi contro il terrorismo pare un ingrato riconoscimento, quasi un «esilio» per offuscarne il mito. Dalla Chiesa però conosce la Sicilia dove è stato ufficiale ai tempi della banda Giuliano e dal 1966 al 1973 comandante della Legione carabinieri di Palermo. Il suo impegno nella lotta alla mafia viene da lontano, proprio da quegli anni: portano la sua firma quei 20 rapporti che hanno ispirato tredici anni di lavoro della Commissione Antimafia.

Palermo accoglie il generale-prefetto con sospetto, più ostilità che fiducia. Il sindaco dichiara che la città è fatta di gente onesta e non serve un generale per risolvere i problemi. Fra i politici locali, dove il potere poggia sui voti e sui miliardi della mafia, c’è preoccupazione. Nelle ragnatele delle clientele, delle collusioni mafiose, c’è paura che il generale scardini antichi equilibri.

Dirà un suo fedelissimo: «Se lo hanno ucciso è perché aveva trovato il bandolo della matassa, il modo di far saltare l’intreccio delle connivenze». Dalla Chiesa esce subito allo scoperto. Dice che la mafia può essere sconfitta come è stato sconfitto il terrorismo: basta trovare la strategia giusta. Parole che suonano come una dichiarazione di guerra. Il generale incontra i politici, gli amministratori locali. «Quale mafia?», risponde qualcuno. La dirigenza politica non collabora, la città che conta gli fa il vuoto attorno, allora Dalla Chiesa cerca alleati fra gli strati sociali democratici, cerca il sostegno della opinione pubblica. Parla ai maestri del lavoro nella Camera di Commercio, incontra gli operai dei cantieri edili, i parroci dei paesi, discute con gli studenti, agisce politicamente. Dirà Vincenzo Pajno, procuratore capo di Palermo: «Dalla Chiesa è stato un prefetto vero, ha dato un indirizzo politico alla lotta contro la mafia, ha riempito un vuoto istituzionale». Scriverà Alfonso Madeo: «La sua battaglia avrebbe potuto mettere in moto un processo di cambiamento, di aggregazione, destinato a incrinare le strutture di conservazione e di omertà del potere mafioso».

PALERMO: 180 MILA DISOCCUPATI E 8 MILA MILIARDI DEPOSITATI NELLE BANCHE

L’agente Domenico Russo, assegnato alla scorta del prefetto Dalla Chiesa. Russo perderà la vita a 32 anni nell’agguato del 3 settembre 1982

Fra maggio e giugno il generale insiste nella azione di propaganda e documentazione. Cerca di costruire la geografia, l’organigramma della nuova mafia. Dalla Chiesa sa che, dagli anni della sua permanenza in Sicilia, la mafia ha cambiato volto, compiuto un salto di qualità: il potere è sempre più tentacolare, con infiltrazioni nell’apparato pubblico. E soprattutto la droga ha modificato i codici, regole, ha conferito all’organizzazione mafiosa la struttura di una gigantesca finanziaria internazionale. E’ una nuova realtà a spingerlo sulla pista giusta: 8 mila miliardi depositati nelle banche di Palermo, cifra impressionante per una città povera, con 180 mila disoccupati su 700 mila abitanti.

Dalla Chiesa capisce che Pio La Torre aveva intuito giusto. Comincia a indagare sulle colossali fortune di insospettabili nullatenenti, su società strutturate come scatole cinesi che hanno goduto di straordinari privilegi, su quelle singolari ricchezze accumulate nel segno della criminalità mafiosa: sequestri di persona, ricatti, riciclaggi di denaro sporco, traffico di armi, delinquenza criminale e politica, soprattutto droga, la grande industria della mafia. Da tutti i sindaci si fa recapitare elenchi di società che hanno ottenuto quegli 880 miliardi di appalti consegnati, negli ultimi cinque anni, dalla Regione ai Comuni. Dalla Chiesa vuole smascherare relazioni, parentele, rapporti personali, di clan politici.

Dirà Aristide Gunnella, politico siciliano: «Il fatto scatenante sono state le indagini bancarie, le ricerche patrimoniali. Solo risalendo all’origine di quelle ricchezze si possono denudare le ramificazioni inquinanti». Mentre avvampa l’estate, nel triangolo della morte Casteldaccia-Bagheria-Villabate esplode una catena di delitti. Con la moglie Emanuela, il generale-prefetto abita a villa Withaker e conduce una vita pubblica senza molte precauzioni: non ha l’auto blindata, la scorta è ridotta, frequenta piazze e ristoranti quasi in una sorta di sfida romantica. Si sente scoperto, poco protetto da Roma, e non ne fa mistero, dalla sua ha solo i comunisti, il cardinale Pappalardo e il clero siciliano. Ha paura? Si lascia sfuggire: «La mafia è cauta, lenta, ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana». Poi gli ultimi atti: la polemica con il ministro degli Interni Rognoni che gli promette aiuti e informazioni, il ministro delle finanze Formica che gli consegna, due giorni prima del delitto, una indagine della Guardia di Finanza su quasi quattromila personaggi e società «al di sopra di ogni sospetto». E’ la chiave di volta per scardinare la più potente multinazionale del crimine? E’ il movente che fa scattare i sicari? Dirà il sindaco di Palermo Martellucci: «Al contrario del terrorismo, la mafia attacca soltanto per difendersi. Tanto è più alto il bersaglio, tanto maggiore è la necessità di difesa. La pista seguita da Dalla Chiesa era quella giusta. La sua morte, per crudele paradosso, dimostra proprio questo».