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«Prima elimineremo i sovversivi, poi i loro collaboratori, infine gli indifferenti». Il Sudamerica dell’Operazione Condor

Michele Riccardi Dal Soglio

Più di quarant'anni fa prendeva forma una delle strategie di repressione più efficienti e perverse che la storia recente abbia conosciuto: il Plan Còndor, meglio noto fuori dall'America Latina come Piano od Operazione Condor

L’America Meridionale, nella fattispecie il Cono Sur, vive agli inizi degli anni Settanta una delle tappe più convulse e violente della sua storia recente. Anche Paesi apparentemente più tranquilli come l’Uruguay – la cui traiettoria costituzionale sembra essere esente dai numerosi tentativi insurrezionali e colpi di Stato frequenti in altre nazioni – conoscono un periodo di violenza politica e crisi economica senza precedenti. Se infatti nella Republica Oriental i gruppi terroristici di ispirazione marxista rivoluzionaria si scontrano con le forze militari istituzionali e gli squadroni paramilitari, in Cile le riforme – che inizialmente avevano fatto salutare il governo di Salvador Allende come un esempio di riforma socialista pacifica e condivisa – hanno portato il Paese nel gorgo di una pesantissima crisi economica, complici il boicottaggio economico da parte degli USA da un lato e il mancato supporto dell’Unione Sovietica in cui lo stesso Allende aveva ingenuamente sperato.

Quella cilena è una recessione che spacca in due il Paese e finisce per sfociare in una serie di rivolte e disordini che portano alla morte di decine di persone, benché l’azione della guerriglia armata non arrivi neanche lontanamente ai livelli di Uruguay e soprattutto Argentina dove gli attentati dinamitardi, le rapine, i sequestri e le uccisioni passano a essere eventi pressoché quotidiani.

Proprio l’Argentina – dopo la stura data dalle sommosse urbane del Rosariazo e del Cordobazo del 1969 – conosce una escalation terribile della lotta armata con azioni di guerriglia ad opera di diverse firme sia di ispirazione marxista rivoluzionaria che di origine peronista e nazionalista: paradossalmente, con il tanto auspicato ritorno della democrazia costituzionale nel 1973 e con la terza presidenza di Peròn, gli attentati terroristici e le azioni di guerriglia non fanno che aumentare per numero e gravità, frutto anche di una lotta intestina al movimento peronista che vede le sue due opposte correnti scontrarsi in un’orda di sangue senza precedenti nel Paese.

I vicini Brasile e Paraguay, invece, vivono rispettivamente e stabilmente da quasi dieci e vent’anni anni sotto un regime militare. Simili premesse vedono nel 1973 un punto di svolta per la sorte di Argentina, Cile e Uruguay: questi Paesi conosceranno presto una lunga «notte della repubblica» nella quale i governi civico-militari non saranno accomunati solo dagli stessi principi ideologici, ma anche da una precisa e ben studiata collaborazione internazionale: il Piano Còndor.

IL «CODE-SHARING» DELLA REPRESSIONE

Il capo della «DINA» Manuel Contreras

Col nome di Piano Còndor viene identificato il disegno politico-militare che, negli anni Settanta e Ottanta, porta a collaborare tra loro quei Paesi dell’America Latina che, pur in momenti e con strategie diverse, avevano già intrapreso la via del governo de facto. Paraguay, Brasile, Perù, Bolivia, Uruguay, Cile e Argentina nel novembre del 1975 si uniscono in un patto di collaborazione per rintracciare ed eliminare «gli elementi sovversivi» sui loro territori – e in qualche caso anche fuori dal Continente – creando un vero e proprio «code sharing» della repressione. Per intenderci: se vi sono sovversivi brasiliani profughi in Cile, le autorità cilene possono rintracciarli, torturarli ed eliminarli «per procura» su indicazione dei servizi segreti brasiliani; se questi ultimi lo preferiscono, possono farseli comodamente rispedire in patria per continuare il «trattamento» a domicilio; cortesia vuole che i servizi segreti brasiliani facciano altrettanto su richiesta dei cileni, a loro «gentile» richiesta.

Ça va sans dire, non si parla di estradizione poiché questo sarebbe un concetto che appartiene alla legalità degli accordi internazionali – legalità che alcuni di questi Paesi cercano di ostentare, in verità con scarso successo, dinanzi all’opinione pubblica interna ed estera; così come del resto non si parla di detenzione legale, quando si tratta di fermare e far sparire in qualche modo i cosiddetti sovversivi.

La paternità del Piano Condor viene fatta risalire a Henry Kissinger, a metà anni Settanta gran suggeritore dietro le quinte del teatro politico internazionale dell’epoca. Secondo altre fonti egli sarebbe piuttosto il «padrino» capace di tenere a battesimo un’idea del capo della polizia segreta cilena, Manuel Contreras: è quest’ultimo che nel novembre del 1975 riunisce i suoi omologhi degli altri Paesi sudamericani (benché formalmente in Argentina viga ancora un governo democratico e costituzionale) per definire la strategia che consentirà agli Stati che si battono sul fronte comune della lotta alle ideologie sovversive di prestarsi mutuo soccorso nell’annientamento di questa minaccia.

Con largo anticipo sul Mercosur, a metà anni Settanta questa è forse la prima se non unica politica di libero scambio veramente efficace, tra i paesi dell’America Meridionale, purtroppo orientata alla violazione dei diritti umani. I sovversivi sono accerchiati e ormai devono capire che non esiste più un porto sicuro in tutto il Continente; è questo il messaggio che si vuole trasmettere ed è ben più che un messaggio: è un ordine operativo che vedrà ben presto i primi frutti.

I «SOVVERSIVI»

Il governatore della provincia di Buenos Aires Ibérico Saint Jean

Bisognerebbe ovviamente spendere due parole sull’identità di questi «sovversivi»: indiscutibilmente tra di essi ci sono terroristi – guerriglieri facenti parte di questo o quel movimento armato – che pensano di poter conseguire a suon di bombe e sparatorie la giustizia sociale e la felicità del popolo, nonostante non sia sempre chiaro quanto il popolo condivida questo fervore. Tra di loro ci sono anche quelli che oggi chiameremmo attivisti politici; sindacalisti – non solo quella certa minoranza corrotta e oscura che rivaleggia a suon di calibro 38, ma proprio qualunque rappresentante sindacale di ogni firma e orientamento; artisti di avanguardia, scrittori, giornalisti, avvocati, insegnanti, rappresentanti dei movimenti studenteschi; in generale chiunque non condivida apertamente il nuovo orientamento repressivo e ultra conservatore della nuova società che si vuole instaurare estirpando ogni forma di anarchia, disobbedienza o semplice dissenso.

E’ quanto per esempio l’allora governatore della provincia di Buenos Aires Ibérico Saint Jean dichiara apertamente allo International Herald Tribune di Parigi in una intervista del 1977: «Per prima cosa elimineremo i sovversivi, dopodiché i loro collaboratori, poi gli indifferenti e infine i timidi»; non è necessario «aver fatto qualcosa» per rientrare nella lista dei desaparecidos, come illusoriamente pensa una parte della società credendo di essere al riparo da quelle azioni brutali di cui si sente vociferare. Chiunque letteralmente può essere un obiettivo del proprio governo e pertanto anche del Piano Condor. La CIDH (Comision Interamericana de Derechos Humanos) stima, nel 1979, come solo un ottavo dei desaparecidos appartengano in qualche modo alla militanza armata: tutti gli altri hanno la colpa di essere militanti politici, sindacali, artistici, religiosi.

PROVE GENERALI: IL CASO PRATS

Il generale Carlos Prats

L’idea comune che l’agire della repressione sia prerogativa dei governi dittatoriali e rivolto quindi esclusivamente nei confronti di rivoluzionari e dissidenti si scontra infatti con la realtà di episodi come questo: è quasi l’una del mattino del 30 Settembre 1974, una tiepida notte di un lunedì di primavera, quando una coppia di mezz’età, a bordo di una Fiat 125, rientra nella sua elegante abitazione situata nell’esclusivo quartiere Palermo, a Buenos Aires. L’uomo scende per aprire la rimessa, poi si ravvicina nuovamente all’autovettura in cui è ancora seduta la sua signora, ma non fa in tempo ad afferrare la maniglia della portiera del conducente, ancora spalancata, che una deflagrazione improvvisa distrugge l’automobile uccidendo sul colpo la coppia. L’esplosione, causata da un ordigno piazzato sulla scatola del cambio della berlina, scaglia i corpi martoriati dei due sventurati a metri di distanza e fa scoppiare i vetri di tutto il vicinato, che si sveglia di soprassalto.

Quando la Policia Federal arriva sul posto, identifica immediatamente le vittime che non sono certo giovani militanti né rappresentanti della cultura alternativa: si tratta del generale Carlos Prats e della sua sposa Sofia Cuthbert, di nazionalità cilena. Carlos Prats non è un nome qualunque: dal 1970 fino al colpo di Stato dell’11 Settembre 1973 è stato comandante in capo delle Forze Armate del Cile, designato a questa carica dallo stesso Salvador Allende, il quale gli ha poi riconfermato la sua fiducia nominandolo vicepresidente ad interim durante i suoi viaggi all’estero e, verso la fine della sua tumultuosa vicenda presidenziale, anche Ministro della Difesa.

Carlos Prats è quindi un perfetto rappresentante dell’establishment militare, la quintessenza di quella visione delle Forze Armate vissuta fino in fondo come baluardo della Costituzione e a tutela della vita democratica da ogni rischio di tirannide, quale che ne sia la provenienza. Oggi questa postura di fedeltà totale – nobile e quasi romantica agli occhi di chi ha visto l’operato delle forze militari nell’America Latina degli anni Settanta – può sembrare poco credibile, ma è invece una realtà presente seppur minoritariamente nei ranghi degli eserciti dell’epoca. Il nuovo corso degli eventi si incarica di isolare, quando non di eliminare fisicamente, presenze come quella del generale; Prats sconta il peccato mortale di aver difeso strenuamente e fino all’ultimo il presidente cileno nonostante le sempre maggiori dimostrazioni di sfiducia, pubbliche e private, che, nel corso dell’ultimo anno e mezzo di presidenza, Allende ha ricevuto dai suoi stessi pari e da una grande fetta dell’opinione pubblica del suo Paese.

Quando il colpo di Stato contro il presidente cileno ha tristemente successo, Prats deve farsi da parte e lasciare il Paese. E’ il 15 settembre 1973 quando assieme alla sua signora si presenta come richiedente asilo al punto di frontiera di Las Cuevas, sul lato argentino della Cordigliera. E’ lo stesso Peròn – che pochi giorni dopo sarebbe stato rieletto per la terza volta presidente costituzionale dell’Argentina – a dare appoggio alla sua ricollocazione nel Paese. Prats si rifà una vita come rappresentate delle pubbliche relazioni di un’azienda privata di Buenos Aires e sembra non essere in alcun modo interessato a riprendere il suo ruolo di militare: anzi, consapevole di non essere del tutto al sicuro ottiene una proposta per una cattedra provvisoria a Madrid città nella quale sta programmando di trasferirsi per almeno un anno. Probabilmente sa che la sua fedeltà alla Costituzione e il tuo tentativo di rendere possibile un’uscita istituzionale alla crisi cilena sono state interpretate presso certi ambienti del suo Paese come una professione di simpatia alle teorie marxiste rivoluzionarie: se non lo sa, sono invece sicuri di saperlo i vertici della DINA, la direzione dei servizi segreti cileni il cui direttore è appunto Manuel Contreras futuro fondatore del Piano Condor.

Siamo nel 1974: Peron è morto da poche settimana, ma in Argentina è ancora in vigore un governo democraticamente eletto e retto – almeno formalmente – dalla vedova del generale, Maria Estela «Isabelita» Martìnez: eppure non è difficile per Contreras coinvolgere lo statunitense Michael Townley – agente della CIA che fa il lavoro sporco per conto della DINA (è lui ad aver piazzato la bomba) – e ottenere appoggio e protezioni nel paese del Plata attraverso la rete della SIDE – il servizio di intelligence argentino – e la Policia Federal della capitale. Lo stesso Peron e sua moglie Isabelita si sono già circondati da prima del loro ritorno al potere di figure estremamente oscure che in quegli anni di virtuale esercizio democratico organizzano una repressione violentissima ai danni  di quella che considerano la sovversione marxista e anche contro la stessa corrente di sinistra del Peronismo;  guidati dal Ministro del Welfare, ed ex segretario personale di Peron, José Lopez Rega, gli squadroni della morte della Triple A seminano il terrore nella capitale e dintorni. Lo stesso giorno in cui il generale Prats viene assassinato, si tengono i funerali del fratello dell’ex presidente Arturo Frondizi – l’avvocato e attivista Silvio Frondizi – barbaramente trucidato su ordine di Lopez Rega.

Il Piano Condor vedrà formalmente la luce un anno dopo, ma le prove generali sono già in atto da tempo.

UN ALTRO CASO ESEMPLARE: ENRIQUE RODRIGUEZ LARRIETA PIERA

E’ la notte tra il 13  il 14 luglio 1976 quando un «grupo de tareas» della polizia segreta argentina irrompe, sfondando la porta, in un’appartamento del centro di Buenos Aires. I residenti, il signor Enrique Rodriguez Larrieta Piera e la nuora Raquel Nogueira Paullier, cittadini uruguaiani, vengono incappucciati, prelevati e condotti a forza su una camionetta. La loro «colpa» è quella di aver a più riprese denunciato la scomparsa del rispettivo figlio e marito – il giornalista uruguaiano Enrique Rodriguez Larrieta Martìnez – che dai giorni del colpo di Stato di Bordaberry si è trasferito con la famiglia in Argentina. Un’altra colpa è quella di aver depositato un habeas corpus tramite il loro avvocato dopo ripetute conferme che non risultava nessun mandato di cattura nei confronti dello scomparso Larrieta Martìnez.

L’odissea del signor Enrique Rodriguez Larrieta Piera è appena iniziata: dopo che la camionetta su cui si trova assieme alla nuora si ferma per raccogliere altri due «sovversivi» lungo la strada, il gruppo viene fatto scendere in un ambiente freddo, ampio e sudicio in cui ai lamenti degli altri detenuti si sovrappone in continuazione il rumore di motori di automobili e camionette. Enrique ancora non lo sa, ma si trova in quello che si saprà poi essere uno dei centri di  tortura e smistamento dei prigionieri del Piano Condor, il famigerato garage Automotores Orletti.

Zelmar Michelini, fondatore del PVP sequestrato e desaparecido a Buenos Aires

Come da protocollo Enrique è sottoposto a più sessioni di tortura, durante le quali intravede sotto la benda intrisa di sangue e sudore un ritratto in bella mostra di Adolf Hitler – chiaro riferimento ideologico di molti repressori – sulla parete della camera di supplizio. Tra una sessione di «trattamento» e l’altra, ha modo di riconoscere la voce di Margarita Michelini: non è solo una connazionale e sua conoscente, ma è anche la figlia del giornalista nonché ex senatore e candidato alla vicepresidenza dell’Uruguay Zelmar Raùl Michelini.

Questi, dirigente di un gruppo parlamentare di sinistra e strenuo oppositore del governo di Pacheco Areco prima e di Bordaberry poi, si trova casualmente a Buenos Aires quando nel 1973 avviene il colpo di Stato nel suo Paese restando esiliato da quel giorno in Argentina. Da là, nonostante le minacce di morte e gli atti intimidatori già ricevuti sia in patria che a Buenos Aires, Michelini continua la sua opera di denuncia della violazione dei diritti civili e umani in Uruguay fino al giorno del suo sequestro, il 18 maggio 1976, e poi, poco dopo, del ritrovamento del suo corpo. Il giornalista e senatore era già stato a sua volta ospite del centro Automotore Orletti nel quale aveva subito torture da militari argentini; in un secondo momento era stato prelevato da due militari uruguaiani in trasferta che poi avevano proceduto alla sua sommaria esecuzione. Quello di Michelini è un assassinio che desta scalpore, tuttavia sono già tanti i suoi connazionali che passano dallo stesso centro di detenzione senza che l’opinione pubblica se ne renda conto.

Il signor Enrique scopre che il figlio è stato anch’egli là detenuto: infatti gli interrogatori posti in essere durante le sessioni di tortura che lo riguardano sono finalizzati  ad estorcergli eventuali nuove informazioni sul possibile coinvolgimento al Partido por la Victoria del Pueblo, di ispirazione anarco-marxista, fondato nella capitale argentina da diversi esuli uruguaiani. Tra i fondatori, i sindacalisti Gerardo Gatti Antuna e Leon Duarte – anch’essi incontrati dal signor Enrique durante la sua permanenza nel centro di detenzione – che risulteranno poi tra i desaparecidos del Piano Condor. Nei giorni in cui è imprigionato presso Automotores Orletti, Enrique si accorge che mentre la maggioranza dei detenuti sono uruguaiani, i torturatori sono tutti argentini che ogni tanto ricevono visita e supporto da un gruppo che si riconosce con la sigla OCOA (Organismo Coordinador de Operaciones Antisubversivas) composta da elementi della polizia e dell’esercito uruguaiani.

A fine di luglio sono costoro che infatti lo prelevano assieme a un gruppo di altri suoi connazionali e lo portano, bendato e ammanettato, alla base aerea militare attigua all’Aeroparque Jorge Newbery urbano di Buenos Aires: qui lui e altri prigionieri si rendono conto che l’aereo su cui vengono fatti salire è un Fairchild in uso alla Fuerza Aerea Uruguaya, operato dalla compagnia aerea di bandiera PLUNA, che li porta all’aeroporto militare di Carrasco, vicino a Montevideo. Almeno in questo caso la destinazione dei desaparecidos non è lo stesso Rio de La Plata come accade ad altri meno fortunati passeggeri dei voli della morte. Questo è infatti quanto il mayor Gavazza, il loro nuovo «custode» nel centro di prigionia clandestino in cui viene trasferito il signor Enrique, ripete più volte ai nuovi arrivati: essi sono stati fortunati perché i militari argentini sono delle bestie e li avrebbero sterminati tutti. Invece, in patria, avranno salva la vita se si comporteranno bene e se magari, nel caso specifico, accetteranno di partecipare a una azione simulata di guerriglia mascherati da sovversivi – per farsi successivamente arrestare in modo da creare un caso che dia prestigio e appoggio all’operato delle forze armate uruguaiane da parte dell’opinione pubblica. La totalità dei detenuti rifiuterà la propria collaborazione per l’attuazione di un simile progetto nonostante la minaccia, fortunatamente non mantenuta, di essere rispediti presso il centro di tortura argentino.

Le minacce del mayor Gavazza hanno però un fondo di verità: delle 175 vittime uruguaiane desaparecidas durante la repressione militare operata dal governo di Bordaberry, ben 130 sono quelle sequestrate ed eliminate direttamente in Argentina a conferma della terribile efficienza del Piano Condor.

Il signor Enrique verrà ricondotto al suo domicilio e rimesso in libertà solo nel dicembre del 1976 e successivamente la sua testimonianza prestata alla CONADEP sarà utile a identificare il centro di detenzione Automotore Orletti così come le vittime e i carnefici che vi erano transitati.

IL PIANO CONDOR SVELATO AL MONDO

Copertina di «Istoé», edizione brasiliana, sullo scandalo del tentato sequestro di Lilian Celiberti e Universindo Rodriguez

E’ il novembre del 1978 quando Lilian Celiberti e il compagno di militanza Universido Rodriguez, entrambi uruguaiani, si trovano in un appartamento di Porto Alegre, nel Sud del Brasile. Ambedue sono membri del PVP, quello stesso Partido por la Victoria del Pueblo fondato a Buenos Aires nel 1975 da «emigrés» uruguaiani e di cui quasi tutti i fondatori e militanti sono già stati inghiottiti in quell’antro oscuro che è il centro di detenzione clandestino Automotores Orletti di Buenos Aires.

Lilian e Universindo hanno due storie particolari: lei maestra elementare e attivista femminista, dopo aver subito l’arresto, la detenzione e la tortura nel suo Paese a causa della sua militanza politica, si è esiliata in Italia e precisamente a Milano dove ha continuato il suo impegno politico sostenuta dalla rete di donne che lottano per il riconoscimento dei loro diritti sociali. Universindo è un ex studente di Medicina, di umili origini, militante di area anarchica, che si è avvicinato alla causa durante i suoi anni da studente e ha militato attivamente contro la svolta autoritaria di Bordaberry fino al colpo di Stato. Anch’egli si è esiliato, in Svezia, dove continua la sua attività politica.

Essi, come gli altri esuli superstiti del PVP,  individuano nell’assoluta clandestinità e nell’isolamento, con cui i membri fondatori hanno operato, il punto debole del partito e la ragione per cui la repressione da parte dei militari argentini, operanti su richiesta dei loro colleghi d’Oltrefiume, ha avuto gioco facile. E’ quindi dall’autocritica che i membri superstiti effettuano, ritrovandosi a Parigi nel 1977, che si decide la nuova strategia: riavvicinarsi alla militanza in modo visibile, agendo nella legalità e in collaborazione con le altre forze di opposizione che in Brasile stanno prendendo sempre più forza. Dei Paesi aderenti al Piano Condor è infatti quest’ultimo quello in cui la dittatura, che prosegue ininterrotta dal 1964, ha avviato un processo di distensione in vista di un vicino ritorno alla democrazia; l’aria che tira, in termini di possibilità di azione politica, è certamente più respirabile che negli altri Paesi membri di questo club della repressione.

Installarsi nel Sud del Brasile vuol dire essere strategicamente più vicini all’Uruguay e far sentire la propria voce di sostegno in modo molto più forte e decisivo che non dall’esilio europeo: è in questo contesto che Universindo e Lilian si trasferiscono a Porto Alegre e la loro certezza di poter agire entro un ragionevole ambito di rischio deve essere reale, tanto che Lilian porta con sé anche le figliolette di 3 e 7 anni: è qui che il 12 novembre del 1978 un gruppo di militari del Departamento de Orden Politico e Social, su richiesta dei servizi segreti uruguaiani, entrano a forza nel domicilio dei due e li sequestrano assieme ai figli di lei.

Il loro obiettivo è di torturarli per arrivare fino al leader del partito, Hugo Cores, che è nascosto a San Paolo, e poi trasferire i militanti nel loro Paese d’origine. E’ durante la sessione di tortura cui vengono sottoposti Universindo e Lilian che uno dei militari perquisisce la borsetta della donna e vi trova un numero di telefono di Parigi: con una mossa rivelatasi controproducente, obbliga la donna a chiamare quel numero di telefono per capire chi si trovi dall’altra parte. Lilian riesce a mettere in allerta il suo interlocutore, che a sua volta dalla Francia chiama Hugo Cores per avvisarlo che qualcosa non va; questi, a sua volta, chiama un giornalista della rivista Veja, Luiz Claudio Cunha, il quale con il fotoreporter  Joao Scalco si rega nell’appartamento di Lilian e Universindo. Entrambi finiscono per trovarsi faccia a faccia con i militari che nel frattempo erano tornati nell’appartamento convinti di trovare nei nuovi visitatori altri militanti del PVP: qualificatisi come rappresentanti della stampa nazionale, i due giornalisti verranno invece lasciati andare. La spiegazione ottenuta dai militari su quanto visto – un arresto in piena regola per «detenzione di materiale sedizioso e documenti sovversivi» – non poteva ovviamente essere credibile.

Cunha e Scalco – nonostante lo spavento e l’incredulità per il fatto di non esser stati anche loro catturati e torturati – fanno immediatamente esplodere il caso giornalistico: nelle ore  e nei giorni seguenti la stampa e gli organismi dei diritti umani rendono noto l’episodio, il che comporta un vero e proprio scandalo internazionale. Le figlie di Lilian vengono quindi restituite ai familiari della coppia sane e salve, mentre la donna e il suo compagno di militanza, anziché sparire nel nulla come inizialmente previsto, sotto la sorveglianza continua degli organi di stampa, sono avviati dal governo uruguaiano a una detenzione legale in carcere «per attività sovversiva» fino al 1984, anno in cui verranno liberati con la fine della dittatura.

Quella Celiberti-Rodriguez sarà una l’unica operazione fallita del Piano Condor soprattutto a causa della grande attenzione mediatica sul caso. Un’altra conseguenza collaterale sarà il fatto che l’esistenza della collaborazione internazionale tra le forze di repressione dei regimi sudamericani diventerà da quel momento in poi di pubblico dominio e non più una realtà oscura oggetto di conoscenza da parte dei soli i diretti interessati.

I tre casi sopra esposti sono paradigmatici e possono essere emblematicamente presi ad esempio: la pur difficile ricostruzione della verità ha avuto il suo difficile percorso, laddove è stato possibile, nei singoli Paesi coinvolti in questa strategia repressiva. E’ però importante ricordare il suo capitolo giudiziario nel nostro Paese dove, nel 2015, ha avuto inizio il processo contro i responsabili in capo del Piano Condor focalizzato sulla scomparsa di 30 cittadini di origine italiana. Alla fine del 2017 sono state emesse varie condanne all’ergastolo per Luis García Meza Tejada, presidente della Bolivia dal 1980 al 1981, Juan Carlos Blanco, ministro degli Esteri dell’Uruguay, già condannato nel suo paese per scomparsa della maestra Elena Quinteros e per gli omicidi di Zelmar Michelini e Héctor Gutiérrez Ruiz  a Buenos Aires; Rafael Cerruti Bermudez, presidente del Perù dal 1975-1980 per omicidio e Pedro Richter Prada, generale, ex primo ministro del Perù e German Luis Figueroa, capo dei Servizi del Perù.