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Buenos Aires, 29 maggio 1970. I Montoneros sequestrano il generale Aramburu

Michele Riccardi Dal Soglio

La prima azione del gruppo guerrigliero argentino

Pedro Eugenio Aramburu Silveti

Sono da poco passate le 09.00 del 29 maggio 1970 quando una Peugeut 504 bianca con targa C232687 si ferma davanti al numero 1053 della Calle Montevideo, un condominio moderno ma signorile nel centro di Buenos Aires. L’automobile è condotta da un gruppo di giovani in uniforme militare: tre di essi scendono, si annunciano al portiere e salgono al nono piano dell’edificio. Chiedono del generale Aramburu ex comandante dell’esercito argentino ed ex presidente de facto della Revolucion Libertadora del 1955 che, assieme ai generali Lonardi e Rojas, ha rovesciato quindici anni prima il presidente Juan Domingo Peròn. Due degli uomini in uniforme entrano nell’appartamento e vengono accolti con cordialità dalla signora Aramburu nell’attesa che il marito, svegliato dalla visita inattesa, si vesta il più velocemente possibile; nel frattempo lo informano che il generale Alejandro Agustin Lanusse, comandante in capo dell’esercito, chiede di vederlo e che questa è la scorta assegnatagli per accompagnarlo. Il terzo ufficiale, invece, attende di guarda sul pianerottolo.

La consegna di accompagnare l’ex generale è urgente e l’offerta del caffè viene declinata con marziale cortesia; la signora saluta il marito che – dopo essersi lavato la faccia e aver indossato in fretta e furia il completo della sera prima – scambia due parole con i giovani militari e prende la porta dell’ascensore. E’ perplesso l’ex generale: non si aspettava questa convocazione improvvisa e nemmeno la scorta personale, negatagli nonostante un recente attentato dinamitardo alla sua casa di campagna. La stessa automobile della scorta, poi, non è una delle solite Ford Falcon o Rambler Ambassador scure in servizio alle forze armate. Appena si accomoda all’interno della Peugeot, Aramburu riceve dai suoi accompagnatori la dichiarazione che conferma il suo sospetto: non sono militari, ma guerriglieri che intendono condurlo presso il loro nascondiglio e sottoporlo a un «processo del popolo».

Poco più tardi, dietro lo specchio di una toilette di una caffetteria di Belgrano, una chiamata anonima fa rinvenire un foglio con il seguente comunicato:

«Peròn ritorna.

Comunicato numero 1 al popolo della nazione. Oggi alle 09.30 un nostro commando ha proceduto all’arresto di Pedro Eugenio Aramburu, obbedendo a un ordine emanato dalla nostra dirigenza. Su Pedro Eugenio Aramburu pesano le imputazioni di traditore della Patria e del popolo e di assassinio nella persona di 27 argentini. Noi Montoneros convochiamo la resistenza armata contro il governo “gorila” e oligarca, seguendo l’esempio eroico del General Juan José Valle e di tutti coloro che offrirono generosamente la propria vita per una patria libera, giusta e sovrana. Peròn o morte, viva la Patria.

Commando Juan José Valle»

È l’esordio del gruppo guerrigliero Montoneros.

I MILITARI AL GOVERNO CON L’INTENZIONE DI RESTARCI

Il comunicato Montoneros che rivendica «l’arresto» di Aramburu

Per capire «l’air du temps» nell’Argentina del 1970 bisogna fare un breve passo indietro. Il Paese è governato da più di quattro anni da un governo de facto che ha rovesciato il presidente Arturo Umberto Illia, un antico e integerrimo radicale cordobese di origini chiavennasche il cui operato non era piaciuto all’oligarchia agraria. Ilia non aveva goduto nemmeno del sostegno dei peronisti, nonostante la volontà di rimuovere la proscrizione in vigore sulla ricostituzione del loro partito. Il generale Juan Carlos Ongania, l’uomo che ha portato a termine il colpo di Stato del 1966, a differenza del passato, non si è limitato a seguire la tradizione di usare il golpe per rovesciare la presidenza per poi far ritornare il Paese a elezioni costituzionali, seppur «controllate». Ongania si è invece investito del ruolo di guida della Revoluciòn Argentina, un progetto di controllo della società, dell’economia e della cultura, teso a reprimere il rischio di infiltrazione e diffusione del pensiero marxista-leninista mantenendo appunto proscritto il peronismo. Per la prima volta nella storia del Paese i militari hanno insomma pensato di poter governare loro stessi e a lungo: lo stesso Ongania crede di rimanere in carica almeno fino al 1980.

Ma i movimenti studenteschi, la controcultura del Sessantotto, il bisogno delle masse operaie di far sentire la propria voce a lungo repressa alla fine esplodono nelle rivolte urbane del 1969, nelle città industriali di Rosario e poi di Còrdoba: per diversi giorni la popolazione operaia e quella studentesca si uniscono in una protesta durata interi giorni, fermata a fatica dall’intervento dell’esercito. Queste due insurrezioni, passate alla storia come il Rosariazo e il Cordobazo, debilitano fortemente l’immagine e la credibilità di Onganìa: il generale deve fronteggiare non solo il crescente malcontento popolare, ma lo stesso fronte interno costituito da quei militari che ritengono ormai giunto il momento di tornare gradualmente a un governo costituzionale capace di favorire un’uscita degna per le forze armate senza consegnare il Paese alle forze populiste di matrice peronista.

L’ex presidente Pedro Eugenio Aramburu è, assieme al comandante in capo dell’esercito, Alejandro Agustìn Lanusse, uno degli oppositori del regime e un sostenitore della ritorno alla democrazia. Lo stesso Aramburu, dopo aver lasciato l’esercito, si è anche candidato alle elezioni del 1963 con il suo partito, UDELPA, ottenendo – pur senza vincere – un comunque tutt’altro che trascurabile 14 per cento.

UN MOVIMENTO CON UNA GENESI IDEOLOGICA DECISAMENTE PECULIARE

Una bandiera Montoneros

Per caso o forse no, il sequestro di Aramburu avviene esattamente nella stessa data in cui, un anno prima, è esplosa la rivolta di Còrdoba. Per la prima volta l’opinione pubblica argentina sente il nome dei Montoneros, formazione clandestina armata che sceglie proprio questa azione – battezzata Operativo Pindapoy – per farsi conoscere.

Mentre le formazioni di guerriglia e lotta armata nel resto dell’America Latina sono per la maggioranza di ispirazione marxista-leninista o basate comunque sulla teoria del foquismo, di ispirazione cubana, in Argentina quello che si viene a conoscere con il nome di Montoneros ha una genesi ideologica decisamente peculiare: si tratta di un movimento di ispirazione nazionalista, cattolica e peronista, con derivazioni socialiste e «prestiti» ideologici del marxismo, nonostante tra i suoi fondatori vi siano componenti – quali per esempio Fernando Abal Medina – provenienti dal movimento peronista di estrema destra falangista e antisemita noto come Tacuara, già responsabile di un clamoroso dirottamento aereo sulle isole Malvine nel 1966.

Costituitosi come risposta armata alla proscrizione del Partito Giustizialista di Peròn, in vigore dal 1955, i Montoneros si pongono inizialmente come obiettivo principale la resistenza armata per rovesciare il governo non costituzionale presieduto dal generale Onganìa e far così ritornare in patria il «caudillo de los descamisados» dopo anni di esilio imposto dai militari.

La scelta di Pedro Eugenio Aramburu in tal senso è non solo emblematica, ma appare quasi come un ovvio regolamento di conti: l’ex generale – facente parte del triumvirato delle forze armate che nel 1955 aveva deposto il presidente Peròn – è colpevole di essere l’acerrimo nemico della dottrina populista del caudillo, al punto da aver proscritto per legge il Partito Giustizialista e ogni forma di associazione politica peronista a esso assimilabile. Tale è il rigetto di Aramburu nei confronti del culto della personalità adottato dal governo di Peròn che egli propone una vera e propria «desperonizaciòn» del Paese, facendo rimuovere con il metodo della damnatio memoriae monumenti, targhe, dediche e toponimici che riportino il nome di Peron e della sua seconda moglie, Eva Duarte detta Evita. Egli è convinto infatti che se i militari non devono governare il Paese, perché non è questo il loro mandato, le democrazie costituzionali dovranno essere esenti dal rischio del ritorno dell’autoritarismo populista che l’Argentina ha conosciuto nei primi anni Cinquanta.

L’opera di rimozione del culto della personalità è tale che Aramburu è artefice della sparizione dal Paese del corpo imbalsamato della defunta Primera Dama, fatto prima scomparire nel 1955 dalla sede della Confederazione Generale del Lavoro, in cui era esposto all’ossequio degli iscritti al sindacato peronista, e in seguito fatto arrivare in Italia e lì inumato sotto false generalità nel cimitero Maggiore di Milano con l’aiuto del Vaticano. Nel 1956, inoltre, la giunta di Aramburu reprime un tentativo di insurrezione da parte di ufficiali fedeli a Peròn guidata dal Colonnello Juan José Valle: i militari insorti vengono passati per le armi e con loro, con grande scalpore dell’opinione pubblica, anche un gruppo di civili loro fiancheggiatori che vengono brutalmente eliminati in un campo alla periferia della località di José Leòn Suarez.

IL «PROCESSO DEL POPOLO»

Volantino di cattura dei capi Montoneros indicati come responsabili del sequestro (Norma Arrostito, Eduardo Firmenich e Fernando Abal Medina)

Torniamo al 29 Maggio 1970. Ormai già fuori città, il terzetto di finti militari che ha sequestrato Aramburu – composto da Fernando Abal Medina, Emilio Maza e Ignacio Vélez – si ricongiunge con gli altri componenti del gruppo, tra cui Mario Firmenich, Carlos Ramus e Norma Arrostito. Inizia così una staffetta di autoveicoli rubati e abbandonati lungo il cammino che porta alla località bonaerense di Timote dove, nella cantina della quinta di campagna della famiglia di Carlos Ramus, viene organizzato per l’ex presidente de facto il primo «carcere del popolo» nella storia del Paese.

I due capi di imputazione del cosiddetto «processo del popolo», che la direzione dei Montoneros dichiara nel suo comunicato stampa il giorno seguente, fanno appunto riferimento ai fatti sopra descritti: la giusta pena per le fucilazioni dei militari peronisti insorti e per l’occultamento del corpo di Eva Duarte de Peròn al popolo argentino. Sebbene una buona parte dell’opinione pubblica più giovane non conosca quasi i fatti di José Leon Suarez e i riferimenti a Evita siano ufficialmente proibiti da anni, nelle famiglie di antica fede peronista il ricordo della Abanderada de los Humildes non solo è ancora vivo ma è rafforzato dalla mitizzazione del personaggio, paradossale effetto collaterale della proscrizione.

La gioventù argentina di classe media che vive gli anni della contestazione e del fermento sessantottino sotto il governo reazionario e culturalmente repressivo del generale Ongania, nella ricerca di una icona di ribellione in cui identificarsi, sceglie non tanto Che Guevara – argentino sì, ma dedito a una causa diversa da quella nazionale e a una ideologia comunque straniera – bensì la figura di Eva Duarte, nella sua versione idealizzata di pasionaria nazionalista fanatica e antioligarchica. Proprio la scarsa conoscenza imposta dalla censura fa sì che questa gioventù non conosca o non capisca il pensiero fortemente antilibertario, antifemminista e ultrareazionario di Eva Duarte e la eriga a ideale eroina ardente delle cause, vicine al socialismo, della libertà dei popoli.

La figura di Eva e l’assenza del suo corpo, perfettamente conservato, si trasformano insomma in un Santo Graal dell’ideario rivoluzionario peronista del cui riscatto l’organizzazione dei Montoneros si fa carico con questa azione.

L’ESECUZIONE DI ARAMBURU

Funerali di Aramburu, davanti al feretro il figlio Eugenio e l’allora presidente de facto Alejandro Agustin Lanusse

Il giorno successivo, viene emesso un terzo e ultimo comunicato, in cui si avvisa che si è proceduto al processo e alla giusta esecuzione di Aramburu: il corpo dell’ex presidente verrà recuperato solamente a metà luglio, interrato nello stesso scantinato della estancia La Celma dove è stato ucciso con tre (secondo altre ricostruzioni quattro) colpi di pistola da parte dello stesso Abal Medina.

Sono ancora oggi contrastanti le versioni su chi abbia premuto il grilletto e quanti colpi siano stati sparati: in ogni caso, il corpo dell’ex presidente non sarà rivenuto fino al 17 luglio dello stesso 1970, frettolosamente occultato sotto le assi del pavimento della cantina in cui è stato assassinato. Nel frattempo, la notizia della sua uccisione innesca comunque un meccanismo che ha una serie di conseguenze.

La prima è la reazione di sconcerto dell’opinione pubblica: non solo si tratta del primo omicidio di una figura istituzionale di alto livello, ma è il segnale che anche l’Argentina è entrata ufficialmente nel novero dei Paesi colpiti dal terrorismo organizzato e dalla guerriglia armata; le sommosse, gli occasionali attentati e i sabotaggi alle infrastrutture lasciano il posto a un gioco di ben altro livello. La seconda è il definitivo discredito del presidente Onganìa: lo stesso generale Lanusse, insieme ad altri ufficiali, lo fa deporre una settimana dopo l’assassinio di Aramburu per sostituirlo con la brevissima reggenza militare del generale Levingston. Poche settimane dopo, Lanusse assumerà lui stesso la presidenza argentina.

La terza conseguenza è, sempre seguendo le indicazioni del generale Lanusse, il processo di restituzione del corpo di Eva Duarte. L’anno successivo il colonnello Cabanillas della SIDE (l’intelligence argentina) ricontatta a Milano il Generale Superiore dell’Ordine di San Paolo per l’America Latina, Don Giulio Madurini, per incaricarlo di procedere alle pratiche di riesumazione del corpo di tale Maria Maggi de Magistris, sepolta nel Cimitero Maggiore di Milano dal 1957, per poi traslare la salma fino alla residenza madrilena di Puerta de Hierro dove il General Peròn vive in esilio con la sua terza moglie Isabelita. La restituzione della salma di Eva al vecchio generale è un gesto di distensione politica e un segnale di apertura verso il tanto atteso ritorno del caudillo in Patria.

Tuttavia nel corso degli anni si sono succedute versioni differenti sull’azione dei Montoneros e sulla veridicità della stessa, pure rivendicata – con orgoglio, sfacciataggine e molti dettagli – tre anni più tardi sulla rivista ufficiale dell’organizzazione guerrigliera argentina.

IL «CASO» ARAMBURU

Ritrovamento della salma di Aramburu a seguito del trafugamento del 1974 sempre a opera di Montoneros

Le testimonianze di Eduado Pérez Alat, ex direttore dell’intelligence ai tempi della presidenza di Aramburu, nonché suo amico personale, coincidono con quelle del figlio dell’ex presidente de facto nell’addossare almeno una parte della responsabilità del sequestro e dell’uccisione a Ongania e al suo braccio destro, l’allora ministro degli Interni Imaz. I due sono acerrimi nemici di Aramburu; sanno che lo devono temere perché è un forte oppositore del disegno di Ongania di continuare a mantenere il potere e sta lavorando con altri politici e militari perché questi venga rimosso: già l’anno precedente infatti Aramburu avrebbe visitato più volte Augusto Timoteo Vandor, il dirigente del Sindacato della UOM (Uniòn Obrera Metalurgica) leader della corrente di destra del Peronismo, considerato da molti il fautore addirittura di un «peronismo sin Peròn». Con lui Aramburu avrebbe voluto stringere un’alleanza per tornare a un governo democratico, possibilmente a direzione radicale, in cui i peronisti sarebbero nuovamente stati parte della vita politica e costituzionale, ma con una limitata influenza del caudillo. Lo stesso Vandor era però stato ucciso in un attentato nel 1969 a opera della frange di estrema sinistra del peronismo, anticipando quella che negli anni successivi si sarebbe sviluppata in una sanguinosa lotta interna al movimento.

Non è un caso che dopo il rinvenimento del comunicato numero 1 nella caffetteria di Belgrano, il ministero degli Interni non abbia agito e informato i media dell’accaduto se non dodici ore dopo il sequestro: nessun posto di blocco né rastrellamenti se non dal giorno successivo e in posti evidentemente inutili. Qualcuno sostiene anzi che la direzione dei Montoneros dell’epoca sarebbe stata a più riprese contattata da emissari della SIDE che avrebbero offerto appoggio logistico all’operazione Pindapoy. Il commando dei Montoneros negherà queste affermazioni, ma di fatto la minuziosa preparazione durata settimane e i frequenti sopralluoghi operati direttamente dal collegio marista Champagnat, posto dinanzi all’abitazione di Aramburu, non incontreranno alcun ostacolo.

Da settimane la famiglia Aramburu aveva chiesto una scorta fissa per via di alcuni avvertimenti; la loro quinta di campagna era stata fatta esplodere con una bomba, ma la scorta verrà loro negata perché l’ex presidente non ricopriva alcun incarico istituzionale. Il diniego verrà così giustificato dal ministro degli Interni Imaz che però l’aveva concessa all’ex ammiraglio della marina Isaac Rojas, responsabile con Aramburu del colpo di Stato che aveva rovesciato Peròn nel 1955, nonostante anche quest’ultimo non ricoprisse più da tempo alcun incarico istituzionale.

Lo storico Juan Alonso riporta addirittura testimonianze di un militare e amico personale di Aramburu, Aldo Luis Molinari, e del brigadier Sandoval (allora autista personale del generale Levingston) secondo cui l’ex presidente non sarebbe morto nella quinta La Celma a Timote sotto i colpi dei Montoneros, ma a seguito di un sopravvenuto infarto nell’Hospital Militar di Buenos Aires ove era trattenuto «in custodia speciale». Questa ultima versione non è mai stata definitivamente comprovata, ma negli anni a seguire emergerà un quadro sempre più accusatorio nei confronti del governo di Ongania che con l’eliminazione di Aramburu aveva forse creduto di rimuovere un ostacolo alla propria permanenza al potere decretando invece la propria rovinosa caduta.

Un ultimo, macabro e sinistro capitolo di questa vicenda si aggiunge pochi anni dopo quando nel luglio 1974, subito dopo la morte del presidente Peròn, un altro gruppo di Montoneros trafuga la salma di Aramburu custodita nel cimitero monumentale de La Recoleta. L’azione, che viene ampiamente coperta dai media, è tesa a ricattare il governo di Isabel Peròn perché avvenga subito il rimpatrio da Madrid della salma di Eva Duarte, allora più che mai divenuta icona della lotta armata per il movimento guerrigliero peronista.

Il ricatto sortirà il risultato desiderato e la salma di Aramburu verrà fatta ritrovare pochi giorni dopo, mentre il corpo imbalsamato di Evita rientrerà più tardi, in ottobre, dopo un lungo esilio in un Paese ormai già immerso nel caos e nella violenza.

Ma questa è un’altra storia, che racconteremo a breve.