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Parigi, l’Asala armena attacca il consolato turco: scatta l’«Operazione Van»

Sebastiano Palamara

È il 23 settembre 1981: un commando dell’Armata Segreta per la Liberazione dell’Armenia irrompe nel Consolato turco di Parigi e sequestra 56 ostaggi. Tra le richieste dell’Asala, la liberazione di alcuni detenuti politici e il riconoscimento del genocidio armeno

Parigi. Boulevard Haussmann, civico 170, angolo con Rue de Courcelles, a due passi dall’Opéra Garnier. Pieno centro città. Sono le 11.15 di mattina. Sulla scalinata esterna dell’edificio di nove piani che ospita il Consolato Generale e l’Ufficio Culturale dell’Ambasciata turca, un commando composto da quattro uomini a viso scoperto sembra materializzarsi dal nulla. I quattro estraggono prontamente dagli zaini un fucile e alcune pistole, poi tirano le linguette alle granate e si avviano verso l’ingresso dell’edificio. Sta per iniziare l’«Operazione Van»Van è il nome di un’antica città armena che oggi giace in rovina sul territorio turco, teatro  di orrendi massacri durante il genocidio del 1915. I quattro uomini si chiamano Vasken «Sako» Sislian, Kevork Guzelian, Aram Basmadjian e Agop Djufayan e sono militanti dell’Asala, l’Armata Segreta Armena per la Liberazione dell’Armenia[i]. Sono nati a Beirut, culla dell’organizzazione.

Il logo dell’Asala riporta la mappa del territorio armeno sottratto dai turchi ottomani

L’Asala era quella frangia della diaspora armena che aveva scelto la clandestinità e la lotta armata per portare a conoscenza dell’opinione pubblica mondiale la questione armena, e per costringere la Turchia negazionista a riconoscere il genocidio. Negli anni precedenti (1975-1981)  l’attività di «propaganda armata» portata avanti dall’organizzazione era stata intensa: ben diciotto gli omicidi, prevalentemente ai danni di diplomatici e funzionari turchi; centocinquanta, complessivamente, gli attentati e le azioni rivendicative compiute ai quattro angoli del globo, l’Asala aveva colpito da Sydney a Zurigo, da Parigi a Los Angeles, passando per Teheran, Vienna, Belgrado, Roma. E poi ancora, Atene, Milano, Bruxelles, Lisbona.

Alla vista del commando, il personale addetto alla sorveglianza dell’ambasciata aprì immediatamente il fuoco: Vasken Sislian fu colpito all’addome, ma il fuoco di risposta che ne scaturì non diede scampo ad una delle guardie[ii], che morì sul colpo. Nella sparatoria rimasero ferite altre due persone: il vice console Kaya Inal e un altro membro del commando. L’irruzione, però, era riuscita: i quattro si barricarono dentro la struttura, prendendo in ostaggio le decine di persone che si trovavano all’interno e minacciando di far saltare in aria l’intero edificio se solo la polizia francese avesse tentato di intervenire. Riuniti sotto il nome «Commando suicida Yeghia Kechinian», in omaggio al militante Asala giustiziato in Iran pochi giorni prima[iii], i quattro guerriglieri chiesero l’immediata liberazione dalle prigioni turche, e il trasferimento in Francia, dei «prigionieri politici armeni[iv]», di cinque guerriglieri curdi e di alcuni militanti della sinistra radicale turca.

Sebbene Francia e Turchia sapessero per esperienza che gli armeni andavano presi sul serio, da Ankara il ministro degli esteri turco Nazmi Akiman chiuse subito la porta a qualsiasi possibilità di trattativa: «Il nostro governo non tratta con i terroristi». A fargli eco poco dopo, le parole dell’ambasciatore turco a Parigi Adnan Bulak: «Possiamo avere alcuni prigionieri politici turchi di origine armena, ma non ci sono prigionieri politici armeni. E comunque non faremo nessun patto». Un atteggiamento prevedibile, del resto pienamente in linea con la posizione ufficiale che lo Stato turco aveva sempre tenuto di fronte al genocidio, definito «l’invenzione di un popolo mitomane come gli armeni». Posizione mai modificata neanche nei decenni successivi.

Il «Commando Yeghia Kechinian» stabilì un ultimatum, fissandolo alle 23.15: se per quel momento le loro richieste non fossero state accolte, avrebbero ucciso un ostaggio ogni ora. Giunse sul posto anche il commissario Marcel Lecrerc della Brigade criminelle, emblematica figura della Polizia francese di quegli anni: Lecrerc lanciò dal megafono un appello di resa, ma l’Asala gli fece sapere che l’unica risposta che erano interessati a dare era contenuta nei due fogli dattiloscritti lasciati al primo piano dell’immobile. Lì, infatti, c’era il «documento-testamento» scritto dal commando prima dell’azione, in cui, oltre alla richiesta di liberazione dei detenuti, si argomentava: «Gli armeni della diaspora sono arrivati ad un punto in cui occorre scegliere (…). O assimilarci alle popolazioni dei paesi in cui viviamo, o condurre una lotta armata di liberazione popolare. Noi abbiamo scelto quest’ultima perché rifiutiamo l’occupazione delle nostre terre da parte della Turchia fascista[v]».

GLI SCONTRI TRA ARMENI E TURCHI ACCORSI FUORI DAL CONSOLATO E LA RICHIESTA DI ASILO POLITICO

Nel frattempo, dall’inizio dell’operazione erano trascorse già due ore. Dalle 13 alle 15 non accadde nulla di rilevante, ma alle 15.08 un membro del commando chiese l’intervento di un medico per curare i feriti. Nessuna risposta. Contemporaneamente, nella zona adiacente al Consolato, si accesero furenti scontri tra i membri della comunità turca e i giovani armeni che, appresa la clamorosa notizia, erano accorsi sul posto. Benché farraginosamente, iniziavano a intavolarsi e a prender forma le trattative tra i membri del commando e le autorità francesi: l’Asala, in cambio della salvezza degli ostaggi e dell’eventuale resa, chiedeva l’asilo politico in Francia. Alle 17.10 la richiesta veniva formulata nuovamente, ma stavolta in forma più convincente: apparve infatti alla finestra, minacciato da un kalashnikov, uno degli ostaggi.         

Un’ora più tardi, alle 18, lo stesso uomo lasciò cadere dal palazzo un messaggio in cui si specificavano i nomi dei feriti e la gravità delle loro condizioni: quindici minuti più tardi, questi venivano evacuati per essere condotti immediatamente in ospedale. Alle 18.30 veniva portato fuori dall’edificio anche il cadavere della guardia turca, mentre alle 20 fu rilasciato dal commando il più piccolo degli ostaggi: un bambino di tre anni. Alle 23 ci fu un attimo di panico, perché si senti esplodere un colpo d’arma da fuoco, ma era solo un falso allarme. Intorno a mezzanotte, venne fatto uscire anche il secondo ferito del commando. Poco dopo, uno degli ostaggi lasciò l’edificio portando con sé un borsone contenente le armi del commando: era il preludio della fine dell’azione. Alle 2.10, infatti, gli ultimi due armeni uscirono dal Consolato. Mentre si avviavano verso i blindati della polizia schierati in serie, furono immortalati dalle decine di fotografi presenti con la mano alzata nel segno della vittoria. Alle 2.15 del mattino l’«operazione Van» poteva dirsi conclusa. La polizia, ammanettati i sequestratori, li spedì immediatamente alla Maison de Correction di Fresnes, a venti chilometri da Parigi. Vista l’entità dell’azione, le autorità francesi ritirarono immediatamente le promesse di asilo politico, ma per l’Asala quella giornata fu ugualmente «un enorme successo: l’operazione richiese abilità, pianificazione, autocontrollo. Si, una persona era rimasta uccisa – la guardia che per prima aveva aperto il fuoco – ma a parte gli stessi soldati e il vice-console, non c’era stato nessun altro ferito. I quattro avevano galvanizzato gli armeni francesi, come pure migliaia di altri compaesani della diaspora, persone che fino a quel momento mai si sarebbero ritenute “simpatizzanti dei terroristi”[vi]».

Effettivamente, la diaspora armena si ricompattò intorno al gesto eclatante dell’Asala, e il nucleo militante dell’organizzazione si ritrovò così «incorporato» in una cerchia molto più estesa di simpatizzanti e fiancheggiatori. Inoltre, crebbero notevolmente le richieste di ingresso nel gruppo: a decine, nei mesi seguenti, si presentarono nel quartier generale di Damasco chiedendo di poter imbracciare le armi per la causa armena. Se il Movimento Nazionale degli Armeni, attraverso il suo portavoce Ara Toranian (editore del tabloid Hay Bakar, inizialmente stampato grazie all’aiuto di Jean Paul Sartre) chiese «la liberazione immediata dei quattro resistenti armeni. Sanno di aver commesso delle azioni illegali, ma vorremmo che i giudici tenessero conto del diritto alla resistenza di un popolo vittima di genocidio. Quella violenza è la reazione degli oppressi», secondo il Comitato di solidarietà franco-armena (CSFA), l’azione dell’Asala non poteva «in nessun caso essere confusa con un atto di violenza gratuita, in quanto finalizzata a rompere il silenzio intorno al genocidio armeno».

LA COMUNITÀ ARMENA: «NON VIOLENZA GRATUITA, MA REAZIONE DEGLI OPPRESSI». PER LA TURCHIA «BIECO TERRORISMO»

Diversa la posizione della Federazione Rivoluzionaria Armena Dachnaktzoutioun, che pur esprimendo «un sentimento di rispetto davanti al coraggio» dei quattro dell’Asala, e pur condannando «l’arroganza e le manovre dello Stato turco», rigettò tuttavia «la strategia violenta dell’Asala in quanto incoerente con il fine ultimo della causa armena». Ma, come detto, larga parte della comunità armena aveva simpatizzato con l’Asala per l’«operazione Van»: di fronte all’esodo dei sopravvissuti e al decennale silenzio di Ankara sulla memoria negata ad un milione e mezzo di persone trucidate, la violenza di alcune azioni passava in secondo piano, e aveva piuttosto il sapore agrodolce della rivendicazione.

Omicidio volontario, tentato omicidio, sequestro di persona e violazione della legge sulle armi: questi i capi d’accusa a carico del «Commando Kechinian». Uno degli accusati, Kevork Guzelian, rivolgendosi alla corte durante una delle prime udienze del processo, disse: «Qualunque sia il vostro verdetto, la nostra azione è già una vittoria». Molti gli interrogativi a cui l’autorità giudiziaria e la stampa tentarono di dare risposta: «Sono stati in grado di passare attraverso i controlli aeroportuali con il loro carico di armi ed esplosivi? O, piuttosto, è in Francia che si sono procurati gli armamenti? Chi li ha aiutati?[vii]». I quattro armeno-libanesi del commando, infatti, erano arrivati qualche giorno prima da Beirut e, come emerso chiaramente nel corso dell’azione, erano ben armati: kalashnikov, pistole Browninggranate, quattro confezioni di esplosivo. Ad eccezione di alcuni brevi proclami, durante tutto il dibattimento l’Asala rimase fedele alla consegna del silenzio, e l’inchiesta non riuscì mai a svelare come fossero arrivati a Parigi o quale sostegno avessero trovato nella capitale durante la preparazione dell’azione. Nello stesso periodo, furono diverse le manifestazioni a sostegno degli imputati: a manifestare solidarietà anche la vedova dell’eroe della resistenza francese Missak Manouchian e la cantante Liz Sarian.

LA POLIZIA FRANCESE: «GLI OSTAGGI ERANO CALMI E IN BUONE CONDIZIONI»

Durante un’udienza del processo, Lucien Houdart, la donna immortalata in una delle fotografie che avevano fatto il giro del mondo, minacciata da un’arma alla finestra del consolato, dichiarò: «Ho fatto presente che sono malata di cuore e che avevo bisogno di una medicina. Me l’hanno procurata immediatamente. Non ho mai avuto un momento di panico. A dispetto della situazione, era tutto molto calmo». Lo stesso commissario capo Lecrerc confermò che «alla fine dell’azione nessuno degli ostaggi aveva ricevuto maltrattamenti o violenze. Erano tutti calmi e in buone condizioni[viii]». Il 27 gennaio del 1984, il quotidiano Libération scrisse che la stessa Lucien Houdart, prima di un’altra udienza, insieme ad altri ex ostaggi, scambiò un saluto con gli accusati.

Il verdetto della Corte d’Appello di Parigi giunse il 31 gennaio 1984: Vasken Sislian, Kevork Guzelian, Aram Basmajian e Agop Dyufalyan furono condannati a 7 anni di reclusione. In molti, sulla stampa francese e internazionale, sospettarono che queste condanne così leggere fossero il frutto di un accordo stretto nel gennaio 1982 tra l’Asala e il governo socialista di Mitterrand, arrivato all’Eliseo nel maggio del 1981 dopo una clamorosa vittoria alle elezioni presidenziali: secondo alcuni, in cambio di quella condanna soft, l’Asala si sarebbe impegnata a non compiere ulteriori attacchi sul suolo francese. Pare inoltre che il governo francese avesse concesso all’organizzazione il «libero uso» degli aeroporti del territorio nazionale[ix]. Come prevedibile, da parte turca il verdetto provocò proteste furenti e rabbia. Lampante, infatti, era il contrasto con l’esito di processi analoghi che, nello stesso periodo, si erano svolti negli Stati Uniti e in Jugoslavia contro attivisti armeni: il diciannovenne Hampig Sassounian, per esempio, era appena stato condannato all’ergastolo da una giuria di Los Angeles per l’omicidio del console turco Kemal Arikan [x]. Se il governo turco definì il processo come una «pagina vergognosa nella storia dei rapporti tra i due paesi», non furono più teneri i commenti della stampa nazionale: il primo quotidiano di Istanbul, Hurriyet, titolò: «La giustizia è stata assassinata dalla propaganda comunista armena», mentre secondo il quotidiano conservatore Tercuman, il processo fu solo «un’ignobile commedia». Sislian, Guzelian e Dyufayan furono rilasciati dalla prigione di Fleury-Mérogisin Francia il 5 agosto 1986 ed estradati in Libano: di lì, i primi due si trasferiranno in Armenia. Il quarto membro del commando, Aram Basmajian, si era suicidato l’anno prima in carcere. Era il 1985. Aveva 25 anni[xi].

L’ATTENTATO A ORLY E LA SPACCATURA INTERNA AL GRUPPO: MONTE MELKONIAN FONDA «ASALA MR»

L’«Operazione Van» segnò l’apice della «propaganda del fatto» che l’Asala portava avanti da anni, ma negli anni immediatamente successivi al fatto le spaccature già presenti all’interno del gruppo divennero insanabili. In una durissima riunione avvenuta ad Atene nella seconda metà del 1981, subito dopo l’assalto al Consolato di Parigi, parte dell’organizzazione aveva suggerito di dichiarare chiusa la fase di «propaganda armata» in Europa, necessaria per ottenere visibilità e riempire le file dell’organizzazione, per intraprendere, insieme al Pkk di Abdullah Öcalan, una lotta armata di lungo periodo nei territori armeni e curdi occupati dalla Turchia al confine con la Siria. La lapidaria risposta di Hagop Hagopian[xii] – capo storico dell’indipendentismo armeno – fu pressappoco: «Chi imbocca questa strada si mette contro di me». Ma la goccia che fece definitivamente traboccare il vaso fu l’attacco all’aeroporto di Orly del luglio 1983, quando una bomba fatta esplodere nei pressi della sede delle linee aeree turche provocò la morte di 6 persone e il ferimento di altre 48. Buona parte dell’Asala condannò quell’azione come «inutilmente sanguinaria e contraria ai principi dell’organizzazione», biasimando la «deriva omicida» di Hagopian.

Hagop Hagopian

A seguito di quel fatto si consumò la definitiva scissione: l’ala marxista e libertaria guidata da Monte Melkonian si costituì in Asala–Movimento rivoluzionario, decisa a iniziare una nuova stagione politica e militare. Nel 1985 due uomini armati uccisero per le strade di Atene Hagop Hagopian: mandanti ed esecutori di quell’omicidio sono sempre rimasti ignoti, sebbene lo stesso Monte Melkonian avesse palesato apertamente, insieme ad altri militanti, la volontà di risolvere in maniera definitiva il «problema Hagopian», personaggio controverso che si era fatto parecchi nemici, anche tra i servizi segreti di diversi paesi del Medio Oriente. Alla fine degli anni Ottanta, buona parte dei militanti dell’Asala confluì nei territori dell’allora Armenia sovietica[xiii] per partecipare, insieme al nascente Esercito Armeno, alla prima guerra del Nagorno Karabakh (1988-1994), l’exclave armena contesa con l’Azerbaigian, tornata prepotentemente alla ribalta di recente per la recrudescenza di un conflitto mai veramente sopitosi dal «cessate il fuoco» di quasi trent’anni fa[xiv].

Il terzo uomo da destra è Monte Melkonian. Foto scattata durante la prima guerra del Nagorno Karabakh.

Le ragioni dell’indipendentismo armeno affondavano nella storia di un popolo e di una nazione abbandonati alla disperazione: quei militanti erano i figli del genocidio più feroce che, almeno fino all’avvento di Hitler, il Novecento avesse conosciuto. Un milione e mezzo di morti, centinaia di migliaia di profughi. Un abominio simile a un’utopia strangolata, una melodia composta con le note della ferocia, una ferita scura e mai richiusa. Una tragedia rimossa a lungo come polvere torbida sotto il tappeto sanguinolento della Storia.

I massacri hamidiani[xv] del 1894-96 erano stati solo il preludio alla sistematica «soluzione finale» attuata, a partire dal 1915 e poi negli anni immediatamente successivi, dal «triumvirato della morte» dei «giovani turchi» Djemal, Enver e Talaat. A seguito della crisi di inizio Novecento e della perdita dei territori balcanici, la Turchia aveva vissuto una radicalizzazione nazionalista culminata con l’orrendo sterminio degli armeni, tragico completamento di una lunghissima campagna di discriminazioni e persecuzioni che, sia pure in misura minore, aveva coinvolto anche i curdi e le altre minoranze dell’impero ottomano in disfacimento (come assiri e caldei).

Per decenni, prima di intraprendere la lotta armata, gli armeni avevano tentato con ogni mezzo pacifico di ricordare al mondo la loro tragedia, il Medz Yeghérn (il «Grande Male»), ribadendo il diritto di abitare le terre in cui avevano vissuto da tempi immemorabili, sebbene eternamente minacciati, frazionati e contesi dai grandi imperi (ottomano, persiano, russo).

Le marce pacifiche, le petizioni all’Onu, le pubbliche denunce, gli appelli agli altri organi internazionali, non avevano però sortito alcun effetto. Nel 1965, cinquantenario del genocidio, anche il patriarca Ignazio Pietro Batanian XVI aveva lanciato un appello, lamentando «la liquidazione della questione armena e la cospirazione del silenzio sul genocidio». Nemmeno le sue parole ebbero miglior sorte, forse rimaste vittime della stessa «cospirazione» che volevano denunciare. Ma anche tra i superstiti aveva dilagato lentamente un sentimento tormentato e pieno di paura, vergogna, rabbia sepolta. Sembrava che il destino avesse voluto scagliare oltre i confini della memoria cosciente quel doloroso macigno, come in un’osmosi verticale dell’omertà. Come se anche all’interno della comunità una sorta di timidezza invincibile avesse reso tabù quegli argomenti, come se un involucro rimbombante avesse a lungo covato e moltiplicato un isolamento inesprimibile, un’assurda responsabilità.

NELLA MEMORIA DEI GIOVANI ARMENI RIAFFIORAVANO I RACCONTI DEI SUPERSTITI: «A NOI CI HANNO MASSACRATI»

Ma se i genitori dei giovani armeni degli anni Sessanta e Settanta avevano addotto alla coscienza una moltitudine di motivi per giustificare l’accettazione passiva di un destino che li aveva designati come vittime sacrificali, a cavallo degli anni Sessanta il destino sembrava voler prendere un’altra piega: qualche fugace ed imbarazzata commemorazione iniziò a non bastare più. La memoria sembrò riaffiorare come collera, per strappare dalla tomba del passato un destino inconcepibile e subdolo, che lo scorrere del tempo non aveva saputo dissipare e che nessuna polvere da sparo aveva mai potuto annerire. Nella memoria di una nuova e combattiva generazione di armeni iniziavano a tornare a galla i racconti dei superstiti. L’ex militante dell’Asala Karekin Kricorian racconta le parole che talvolta sentiva pronunciare da suo nonno [xvi]: «Ciartezin mesì» («A noi ci hanno massacrati»).

Anni di rimozione sembravano voler riaccendere i propositi più arditi, come un fuoco insolente che destasse dal sonno un dormiente irrigidito da un indugio troppo lungo. Come se occhi rimasti per lungo tempo opachi avessero improvvisamente ricominciato a fiammeggiare. Quando la Cattiveria organizzata aveva impartito l’ordine della deportazione («ehcir ve taktil»[xvii]), camuffata sotto il nome di «evacuazione militarmente necessaria dalle zone di guerra», su decine di villaggi era caduto un fulmine funesto, e una densa nube di morte si era sparsa lungo le terre dell’Eufrate. Mèta della deportazione, il Nulla. Per un intero popolo la strada dell’esistenza divenne solo un sentiero imbrattato di sangue. Da Van a Bitlis, da Etchmiadzin ad Ak-Issar, da Iglir ad Aleppo, risuonò spaventoso il lugubre tintinnio generato da quella gigantesca collana di morte.

Immagini e suoni tremendi tornavano spesso a tormentare i giovani armeni che, di lì a poco, avrebbero imbracciato le armi: erano le urla delle migliaia di persone massacrate tra i rododendri di Diyarbakir, le grida folli e sanguinarie degli zaptié, le coltellate sulla schiena, i calci dei fucili che fracassavano le ossa, l’acciaio che penetrava nella carne, le gole tagliate.

Come se le ombre dei morti sparpagliati tra gli sterpi di Adanà avessero ricominciato a danzare, forse per uccidere una volta per tutte il dolore. Come se quelle migliaia di braccia scheletriche si protendessero verso di loro chiedendo aiuto; figure simili a spettri che svanivano come in un sogno febbrile, sciami di cicale umane che levavano le loro grida acute. Ombre ammutolite per troppo tempo, dolori innominabili che talvolta si defilavano, per poi tornare sempre, ancora una volta, inesorabili. Come se la morte, in quei corpi così ignominiosamente violati, avesse deciso di non tralasciare nulla del suo orrendo repertorio. Fu l’odio, a poco a poco, ad assumersi il compito di riparare in favore di tutti quei morti. Forti di un risentimento mai placato, e anzi acuito dalla frustrazione dell’oblio e della rimozione, le nuove generazioni di armeni avanzarono decise nell’oceano del conflitto. Un oceano contraddittorio, contemporaneamente agitato e immobilizzato da venti opposti.

IL RIEMERGERE DI UN DEMONE MAI ESORCIZZATO PER VENDICARE QUEI DELITTI INDIMENTICABILI

Iniziava forse l’azione dei «demoni» che Plutarco aveva chiamato «giustizieri implacabili», i «vendicatori del sangue sparso» che perseguono il ricordo di antichi delitti non dimenticati? Di certo, quei propositi di vendetta sembrarono a molti il solo proposito etico in grado di riparare ad un’ingiustizia a lungo rimasta quasi impronunciabile. Come nelle parole di Elettra, tornava prepotentemente alla ribalta un male limpido, indissolubile, che «mai potrà essere dimenticato», come un’Arcadia che nutre la collera. Come l’ira epica di Achille, una memoria temibile il cui stesso nome andava pronunciato con cautela. Come unico principio esplicativo, l’indimenticabile. Quando gli armeni decisero di saltare da un bordo all’altro del destino, il dramma del passato prese un altro significato. Forse, se confrontata ai nebulosi accessi della rassegnazione, a quel vuoto peggiore delle lacrime, la determinazione risoluta di questa nuova generazione era quasi un beneficio, come fosse l’insperata presenza di una compagna nella peggiore delle sventure. Quelle coscienze abitate da una tormenta di vicissitudini, ad un certo punto avevano deciso di stracciare il sinistro catalogo della negazione. Il lento e monotono trascorrere del tempo non aveva mai sciolto quell’amarezza dalla loro anima, come se ogni luna fosse atroce, ogni sole amaro, ogni vento insopportabile. Quel grande demone mai esorcizzato, come una lontana diceria mormorata dagli spettri di un popolo «che dorme senza sepoltura», era riemerso una volta per tutte. E non si sarebbe fatto sotterrare. Yerbek (mai più).

 

 

[i] Armenian Secret Army for the Liberation of Armenia.

[ii] Cemal Ozen.

[iii] Il 17 settembre 1981. Insieme a lui fu giustiziato anche Zaven Apetian, un altro militante dell’organizzazione.

[iv] Tra questi, due religiosi della Chiesa armena: Manuel Yergatian e Hrant Guzelian.

[v] I militanti dell’Asala avevano formulato anche altre richieste: garanzia della libertà di espressione e sviluppo della tradizione culturale armena per i propri concittadini rimasti nelle terre occupate dalla Turchia; garanzia di controllo e sorveglianza da parte delle organizzazioni culturali internazionali sui monumenti armeni situati nelle stesse.

[vi] Markar Melkonian, Una vita per la libertà, Ed. Clandestine.

[vii] Le Monde, 12 ottobre 1981.

[viii] Libération, 27 gennaio 1984.

[ix] Vero o presunto che fosse l’accordo (e sembra verosimile), la tregua tra Francia e Asala terminò con l’attacco all’aeroporto di Orly.

[x] Continua tuttora – nel 2020 – a scontare la sua pena.

[xi] È sepolto nel cimitero di Père-Lachaise.

[xii] Nato nel 1940 a Mosul, in Iraq, fu colui che si era presentato come «portavoce» alla conferenza stampa unificata dell’Asala e del PKK nel 1980. Il suo vero nome era Harootyoon Takooshian.

[xiii] L’Armenia dichiarò la sua indipendenza dall’Unione Sovietica il 21 settembre 1991.

[xiv] Il Nagorno Karabakh fu assegnato al governo di Baku da Stalin, sebbene la popolazione armena rappresentasse la larghissima maggioranza degli abitanti. A partire dal 1988 Armenia e Azerbaigian si sono affrontate per il controllo della regione, ma il conflitto è esploso soprattutto a seguito della “liquefazione” dell’URSS nel 1991, a seguito della quale entrambi i paesi hanno ottenuto l’indipendenza. Nel maggio 1994, anno del cessate il fuoco, l’Armenia aveva conquistato in battaglia non solo l’intero Nagorno Karabakh, ma anche diverse porzioni di territorio azero adiacente. Viceversa, il conflitto recente (2020) ha segnato una durissima sconfitta militare per l’Armenia, e la ridefinizione del possesso territoriale di parte della regione a favore dell’Azerbaigian, che ha ripreso il controllo di circa un terzo del Nagorno Karabakh (compresa la seconda città della regione, Shushi), oltre ad avere ottenuto la restituzione di tre dei sette distretti “cuscinetto” che dal 1994 erano rimasti sotto il controllo armeno.

[xv] Dal nome del sultano Abdul-Hamid.

[xvi] Testimonianza contenuta nel documentario RAI i «I figli dell’Ararat», realizzato da Piero Marrazzo.

[xvii] Letteralmente, «deportazione e massacro».