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De Gaulle in Sudamerica: un’analisi dell’effetto della «terza via» sulla politica mondiale

Redazione Spazio70

Da un articolo originariamente pubblicato su «L'Astrolabio» (1963)

A metà della sua maratona di prestigio nel Sudamerica, de Gaulle è giunto finalmente a Buenos Aires dove decine di migliaia di uomini gli si sono stretti attorno per festeggiarlo trionfalmente. Ma ecco che lo slogan inventato al Quai d’Orsay prima della sua partenza, e da diffondere come una astuzia che, dopo tutto, non dovesse dispiacere troppo neanche a Washington, “Meglio de Gaulle che Castro”, si è sguaiatamente mutato nelle grida: “De Gaulle-Peron, un solo corazon”, e nella scritta sugli striscioni: “De Gaulle-Peron, tercera posicion”. L’ultima cosa che il Generale si sarebbe augurato doveva essere questo affiancamento al più rozzo dei dittatori del nazionalismo sudamericano.

Ora, riflettendoci sopra, de Gaulle incomincia a pensare (lo abbiamo letto anche su qualche corrispondenza italiana) che forse il suo viaggio non era stato ben preparato; che lo avevano illuso sul tono delle accoglienze e sul modo di meritarle; che, dopo tutto, il grande viaggio renderà meno, alla Francia, di quanto lui e i suoi consiglieri avevano sperato.

L’AMICO DELLA “TERZA VIA”

De Gaulle fotografato in occasione di un incontro con il cancelliere tedesco Adenauer (4 luglio 1963, Archivio federale tedesco, Ludwig Wegmann)

Certo, a scorrere le cronache e a giudicare dalla prima apparenza, de Gaulle non si dovrebbe lamentare. Dappertutto, o quasi, un trionfo di massa; spesso, a rivolgersi a lui, e lui a loro, sono stati i giovani, studenti e operai, la gente che ha qualche cosa, o tutto, da sperare in un paese che, per quanto venga pur modificandosi, resta una plaga affamata, senza continuità politica che meriti di essere desiderata, e in cui l’inflazione galoppante distrugge l’indomani ciò che ieri e oggi si era tentato di valorizzare.

Se si unisce questo stato d’animo alla lunga esasperazione dello sfruttamento coloniale antico, e al sospetto di quello attuale degli Stati Uniti, si capisce l’eccitazione nazionalistica, e si intende senza difficoltà che l’uomo che viene da lontano per combattere, come de Gaulle ripete in ogni capitale, qualunque imposizione di egemonia, sia accolto come l’annunciatore di una verità a lungo cercata e male espressa, e che trova finalmente la propria esatta formulazione. Dappertutto de Gaulle si presenta come l’amico che suggerisce la “terza via”: indipendenza da ogni satellitismo USA, ma, nello stesso tempo, accantonamento della via “cubana”.

Eppure, se anche sembra che de Gaulle si identifichi naturalmente con una nostalgia o un’esigenza o una ripugnanza, o anche con una paura di molti strati popolari, si ha egualmente la sensazione che la sua missione sia destinata a non fondare nulla di profondo o di nuovo. Un incontro di simpatia con le masse sudamericane, sì; ma una effettiva rappresentanza internazionale delle loro esigenze o dei loro diritti, una vera e propria alleanza, invece, no; non c’è e non potrebbe esserci. Il governo francese e de Gaulle debbono saperne, meglio anche di noi, le ragioni.

LA FRANCIA HA POCO DA OFFRIRE

21 settembre-16 ottobre 1964: viaggio del presidente francese De Gaulle in Sud America (opera propria, autore Kimdim)

Primo, de Gaulle non ha molto da offrire. Questo si sapeva in Francia anche prima della sua partenza e infatti il progetto finanziario dell’impresa è stato calcolato in poche centinaia di milioni di NF, sotto forma di aiuti tecnici, assistenza e consulenza. Sappiamo a un dipresso di che si tratta; per esempio: l’Électricité de France sta eseguendo il progetto della intera elettrificazione del Venezuela. Senonché questo è niente, in confronto ai problemi che assediano un paese in cui, mentre si estraggono giornalmente 3 milioni e mezzo di barili di petrolio, questa operazione occupa in tutto 35 mila venezuelani e la fame di terre di un popolo di infima miseria si esprime in continui scontri tra il proletariato e una polizia ormai ben capace di fare la guerriglia: e siamo in una repubblica dove nessuno nega le buone intenzioni del Presidente Leoni.

In una situazione di questo genere, la Francia può, sì, facilmente confermare i “legami spirituali” che uniscono una civiltà latina europea a quella sudamericana; ma questo non significa andare molto lontano in una relazione che dovrebbe essere profonda, impegnare la Francia in investimenti radicali, esporla anche a lavorare sull’incerto, come è fatale in un’area così soggetta a sommovimenti e involuzioni politiche ed economiche. Ma lo stato francese non ha capitali per investimenti massicci; e i privati francesi (ed europei in generale) sono disposti a investimenti nel Sudamerica solo (o soprattutto) dove si diano garanzie politico-economiche di stabilità dei profitti.

L’ONU ha documentato di recente che i capitali affluiscono ormai abbastanza regolarmente nelle zone più avanzate; ma che nei paesi più depressi del Sudamerica, dopo una punta di 1227 milioni di dollari complessivi nel 1960, siamo discesi, nel 1962, a 877 milioni: un altro taglio si è verificato di certo nel 1963. E proprio a Parigi del resto si è riunito il 1° ottobre il consiglio di amministrazione di un consorzio internazionale per investimenti nel Sudamerica, l’ADELA (Atlantic Community Development Group for Latin America) di cui fanno parte 19 aziende americane e 33 europee (anche 3 italiane). Ebbene il presidente dell’Adela, il banchiere svedese Wallemberg, ha detto insistentemente alla stampa che “la società eserciterà la sua attività solo in quei paesi del Sudamerica che offrono un clima favorevole agli investimenti e dove la stabilità economica e politica dà le dovute garanzie alla iniziativa privata” (così lo “Handelsblatt” del 2 ottobre).

IL RUOLO DEGLI AMBASCIATORI USA DOPO LE VISITE DI DE GAULLE

Il Caravelle presidenziale utilizzato da de Gaulle

Questa è la Francia (e staremo per dire l’Europa, se il generale la rappresentasse) che de Gaulle aveva e ha dunque dietro di sé in Sudamerica: una Francia che non può molto, dati gli impegni cui già deve far fronte sia in Algeria sia nell’Africa francofona; e dove l’economia privata non intende rischiare troppo. Ora, siccome è solo a questa condizione, di un aiuto profondo e di una energica spinta economica che la “terza via” predicata da de Gaulle diverrebbe qualche cosa di più concreto che una parola polemica, si constata subito che difficilmente la sua missione andrà al di là della commozione e del piacere di certe parole ascoltate o proclamate.

Si deve poi anche aggiungere che de Gaulle è venuto a predicare apertamente contro il castrismo, e implicitamente contro gli Stati Uniti, giusto forse un momento troppo tardi. Lo prova il fatto che in ogni capitale del Sudamerica, appena egli se ne allontana, il governo si affretta a ricevere l’ambasciatore Usa e ad assicurare che nulla è mutato. Ma questo è tanto più vero per i paesi nei quali sarebbe tecnicamente più facile sospingere il capitale e la polemica politica francese, come ad esempio il Cile e il Brasile: due stati che proprio ora, per le loro interne vicende politiche ed economiche, sono invece portati a riavvicinarsi con più fiducia e più richieste agli Stati Uniti.

De Gaulle è giunto infatti nel Sudamerica quando il punto più alto del risentimento antiamericano è momentaneamente superato e quando il castrismo incomincia a perdere efficacia. Sino a cinque anni fa l’antiamericanismo era violento; poi venne l’Alleanza per il progresso e nel Sudamerica si dovette deplorarne la troppo modesta misura finanziaria. La morte di Kennedy e la successione di Johnson non hanno certo favorito il rialzo Usa, dal momento che il nuovo presidente ha imposto, per gli aiuti al Sudamerica, la condizione politica delle disposizioni favorevoli o comunque anticastriste del paese beneficiato.

“UN FATICOSO SACRIFICIO FISICO DEL QUALE NON SI INTRAVEDE LO SCOPO”

Il presidente argentino Arturo Umberto Illia riceve de Gaulle durante la sua visita in Argentina

Ma a questa rigorizzazione nordamericana, che è avvenuta sei-otto mesi fa, succede ora una fase meno tesa; si incomincia a constatare che l’Alleanza, avendo distribuito un po’ più di 2 miliardi di dollari, ha già operato alcuni progressi specie nel settore della casa, della scuola e della assistenza sanitaria; e soprattutto che alla lunga se non si ha il coraggio di bruciare tutti i ponti come Cuba, perché dell’America del Nord tutti hanno bisogno. Questa generalizzata e amara impressione riduce via via a eccezioni i paesi dell’OSA (l’Organizzazione degli stati americani) che serbino rapporti con Cuba; il castrismo serpeggia dappertutto ma non riesce ad affermarsi — e dunque decade.

Venire ora in questi paesi a dire “meglio de Gaulle che Castro” ha meno significato, dunque, di quanto il generale potesse supporre: ma ne ha poi poco o nulla, se de Gaulle non ha come alternativa a una insorgenza veemente e libera qual è il castrismo nulla di concreto da offrire se non un apporto di tecnici quali se ne trovano tutto sommato in ogni parte del globo. Persino il fatto di venire dall’Europa è a doppio taglio, in quanto, infine, il Sudamerica non conosce altro colonialismo che quello europeo. Oppure rappresentare l’Europa potrebbe anche essere una forza; ma ecco che de Gaulle propriamente rappresenta oggi solo se stesso.

Ma se la Francia è andata in Sudamerica o pressapoco a mani vuote; se non ha forse scelto neppure il momento più acuto nel quale proporre davvero una terza via — tant’è vero che la propaganda gollista tiene a sottolineare che, dopo tutto, de Gaulle si offre di integrare, più che di contrastare, l’azione degli Stati Uniti nell’America latina — perché eseguire una “missione” che almeno in superficie (ed è il parere polemico della “Pravda” ovviamente) è una provocazione, una punzecchiatura di ogni ora, un attrito premeditato nei confronti della “supremazia” USA nel Sud America? Il “New York Times” ha commentato il viaggio di de Gaulle come un faticoso sacrificio fisico di cui non si capisce bene lo scopo, soggiungendo che probabilmente con la sua eccezionale capacità di vedere nelle profondità della storia, il generale soltanto intimamente sa che cosa anche a lunga distanza potrà derivarne.

LA COSTRUZIONE DI UNA POSIZIONE FRANCESE SULLO SCENARIO MONDIALE

Il dittatore Alfredo Stroessner utilizzò la visita di de Gaulle per legittimare il suo regime (già decennale) in Paraguay

Ora nessuno crede che ne debba venir fuori chi sa quale clamorosa rottura della dottrina di Monroe o una “scandalosa” rivolta “europea” delle repubbliche sudamericane: delle pochissime a regime democratico, delle più numerose a sistema dittatoriale, militare o assimilabile. Ma nello stesso tempo, bisogna pure domandarsi se davvero de Gaulle non ha voluto fare altro che una esibizione di “grandezza”. Non sarebbe la prima (lo stesso trattato di riconciliazione coi tedeschi è poco più di questo) e non sarà l’ultima. Eppure quando sembra che il generale non intenda fare altro che cercarsi nuovi piedistalli, un disegno politico c’è sempre e sarebbe assurdo non cercare di decifrarlo.

Non è un disegno elettorale: de Gaulle non ha bisogno di andare a cercare nei consensi e negli applausi dell’America latina una conferma, dinanzi ai francesi, delle sue buone carte per essere rieletto alla Presidenza. Non ha avversari della sua statura o portatori di programmi così travolgenti da abbattere il suo. Meglio: i programmi radicale e socialista meriterebbero questa valutazione solo se arrivassero a farsi volontà di massa e se fossero quindi intrecciati con il programma e le forze comuniste. Ma in questo caso si avrebbe tutta una “rifusione” della Francia democratica che per ora non è in vista.

È dunque un disegno di politica estera a guidare la scelta sudamericana di de Gaulle ed è sempre lo stesso: approfittare dello sbloccamento della guerra fredda, della dislocazione e del rallentamento di compattezza del campo atlantico, della perplessità mondiale di fronte all’ascesa cinese, per ricostruire una “posizione Francia” di carattere mondiale. Tutto ciò che può strumentalmente servire a questo scopo, di distacco e contrapposizione, rispetto agli Stati Uniti, di una proposta francese, tutto e può essere fatto e ricercato.

IL VERO OBIETTIVO? FAR SENTIRE AGLI USA L’ACULEO FRANCESE

In questo caso allora la missione sudamericana non vale tanto per ciò che può conseguire, quanto come strumento di pressione per la politica, sia europea che asiatica, degli Usa. In Europa, Johnson ha intenzione di avviare con la Nato un nuovo discorso organico che dovrebbe spingere questa alleanza sulla via della “non aggressione” coi paesi del patto di Varsavia e associarne i membri a nuovi patti di disarmo con l’Urss. In Asia si tratterà di vedere che cosa Johnson sia in grado di fare dopo la sua rielezione: ma non sembra che gli Stati uniti possano all’infinito condurre innanzi una guerra disastrosa e perduta. Ora nell’uno come nell’altro caso de Gaulle (che non ha accettato la moratoria di Mosca) è in condizione di negoziare daccapo quel suo progetto di Direttorio-Nato che è stato sempre respinto, ma che ai suoi occhi può apparire sempre attuale se si vuole chiedere e ottenere il suo consenso a una iniziativa Nato di distensione.

In Asia sudorientale, de Gaulle può addirittura ritenere di essere lui il mediatore di quella soluzione neutralistica per cui i due Vietnam potrebbero scegliersi e conservarsi ambedue il loro regime interno, accettando una “neutralità” di tipo austriaco, garantita da Usa, Cina, Francia e Urss (con patente esclusione dell’Inghilterra). Imponendosi così in Europa come in Asia, de Gaulle finirebbe per raccogliere i frutti della sua politica dal 1958: senza di essi, invece, tutto sarebbe ridotto a un atto — la pacificazione con l’Algeria — di indubbia saggezza politica, ma corrispondente a una visione generale che è esattamente quella del depotenziamento francese, anziché della sua grandezza (parliamo, si intende, dal punto di vista “classico” che è quello gollista della “potenza”). Il viaggio nell’America del Sud sarebbe da questo angolo una pedina mirante non a una riconquista economico-culturale di un continente, che si è subito manifestata un sogno di megalomane, ma idonea a forzare gli Usa ad accorgersi finalmente dell’aculeo francese. Sinora essi hanno dimostrato fastidio ma non dolore, noia, ma mai preoccupazione. Sinora, in una parola, gli Usa hanno dato l’impressione che dovunque la Francia cercasse lo scontro questo non avveniva perché operavano su piazze diverse o ad altezze diverse.

De Gaulle è andato questa volta fino alla porta di casa degli americani, per ricordargli che il mondo è piccolo, che lui è sul posto, e che dipende dagli americani dargli abbastanza ascolto da farlo rinunciare al disegno di gridargli continuamente una impertinenza nelle orecchie. Il frutto della missione sudamericana si raccoglierebbe allora in Europa, in Asia, nella Nato, nelle trattative con l’Urss; davvero cioè su quel piano mondiale dove de Gaulle vuole contare e gli americani dimenticano invece persino che egli sia presente. Riesca o no in questo progetto, esso è probabilmente il solo che si possa attribuirgli in piena considerazione della coerenza testarda di una politica di potenza. Per molti osservatori fuori di Francia questa pretesa, questa presunzione, non ha più senso; per de Gaulle ne ha abbastanza, da forzarlo alle lunghe veglie d’estate in cui mandava a memoria discorsi in spagnolo e portoghese, poi ad altre lunghe ore di viaggio sui cieli americani e infine alla demagogia mal sopportata di chi, credendo di lusingarlo, lo avvicina adesso al più grossolano dei dittatori contemporanei: Juan Peron.