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Il grano e la pula. Il difficile compito dei rappresentanti diplomatici durante la dittatura argentina

Michele Riccardi Dal Soglio

Se da un lato le delegazioni diplomatiche dei Paesi non soltanto occidentali non sono mai arrivate allo scontro con le autorità di Buenos Aires in seguito alle violazioni dei diritti umani, è altresì vero che furono in molti i funzionari delle rappresentanze diplomatiche a mettere in salvo quante più persone possibile

È una mattina di fine gennaio 1977 quando la giovane Dagmar, studentessa ancora diciassettenne, si reca senza preavviso a salutare la sua amica Norma con l’intenzione di proporle una gita in spiaggia. Dopo aver suonato il campanello, si vede aprire da un gruppo di uomini pesantemente armati che le intimano di non muoversi. Forse in preda al panico o confidando nelle proprie doti di atleta, la ragazza disobbedisce all’ordine e si lancia in una velocissima corsa lungo il marciapiede. Uno degli uomini, con glaciale calma, si appoggia su un ginocchio, prende la mira e preme il grilletto della sua pistola. La giovane stramazza al suolo, colpita da un unico proiettile alla testa. Viva, ma incosciente, viene caricata su un taxi di passaggio il cui conducente, sotto la minaccia delle armi, sarà costretto a guidare senza fare troppe domande.

Quel che Dagmar non poteva sapere nel momento in cui stava per bussare alla porta della sua amica era che la sera precedente Norma Susana Burgos fosse stata sequestrata da quello stesso «grupo de tareas» della Armada, la marina militare argentina. Anche gli uomini del commando ignoravano però qualcosa: la ragazza che avevano appena portato via non aveva niente a che fare con la donna che stavano cercando, una certa Antonia Maria Berger. Si trattava invece di una argentina-svedese totalmente estranea, caduta per pura coincidenza nella trappola.

LA «VIA D’USCITA» DELL’ENNESIMO GOLPE E L’APPARENTE NORMALIZZAZIONE

Alfredo Astiz, noto come «Cara de angel»

Uno scambio di persona, quindi. La giovane ferita si rivela infatti figlia di Ragnar Hagelin, un cittadino svedese residente in Argentina da anni. L’uomo che ha premuto il grilletto è nientemeno che Alfredo Astiz, detto «Faccia d’angelo». Lo scontro diplomatico che nasce da questo episodio sarà destinato a creare moltissimo rumore a livello internazionale, diventando un emblema della difficoltà e talvolta dell’impotenza delle diplomazie straniere nell’intervenire sulla repressione in atto anche quando questa finirà per toccare cittadini stranieri.

I Settanta sono infatti gli anni nei quali la dittatura militare, impostasi nel marzo 1976 e auto-denominatasi «Processo di Riorganizzazione Nazionale», porta a termine il suo compito primario di eliminare fisicamente tanto i membri e i fiancheggiatori delle organizzazioni armate quanto i semplici dissidenti politici, senza dimenticare i casi «collaterali» — come quello di Dagmar Hagelin — nei quali amici e conoscenti degli obiettivi designati avevano avuto la sventura di trovarsi nel posto e nel momento sbagliati. Le delegazioni diplomatiche straniere, site sul territorio argentino, già mesi prima del colpo di Stato che aveva rovesciato Maria Estela «Isabelita» Peron, avevano sottolineato con evidente preoccupazione nei cablogrammi inviati ai rispettivi ministeri l’incandescente situazione del Paese sudamericano, con un susseguirsi spasmodico e quotidiano di attentati terroristici e omicidi politici da parte di opposte fazioni, tali da rendere, secondo molti, inevitabile la «via d’uscita» dell’ennesimo golpe.

L’apparente normalizzazione seguita al prevedibile colpo di Stato, accolto con un sospiro di sollievo da una vastissima parte dell’opinione pubblica, sembrava però non aver convinto i diplomatici stranieri di stanza in Argentina. In effetti, mentre a Buenos Aires la rigida censura e la manipolazione delle informazioni erano riuscite come previsto a occultare l’attuazione del piano di eliminazione fisica dei dissidenti, le sedi diplomatiche straniere erano state le prime a ricevere segnalazioni e richieste di aiuto non soltanto dai connazionali residenti, ma anche da cittadini argentini privi di qualsiasi passaporto straniero.

LE SEGNALAZIONI TELEFONICHE ALL’AMBASCIATA ARGENTINA DI PARIGI

La strategia della «desapariciòn forzada», scrupolosamente pianificata con la consulenza di membri dei servizi segreti militari francesi che l’avevano adottata durante il conflitto franco-algerino, era esattamente finalizzata a questo scopo: negare pubblicamente l’esistenza di una repressione in atto e nel contempo lasciare nel dubbio e nel terrore tutti coloro i quali ne erano venuti a conoscenza. Se in Argentina la cittadinanza è ignara o spesso incredula dinanzi ai racconti riguardanti persone scomparse nel nulla, le sedi diplomatiche hanno invece una visione differente: i cablogrammi riportano sempre più spesso notizie allarmanti di denunce, sparizioni e torture. Molti argentini, che si vedono respingere le richieste di habeas corpus di amici o parenti – vuoi perché cadono nel nulla vuoi perché i legali che le redigono seguono la stessa sorte dei loro assistiti – ricorrono ai consolati o alle ambasciate dei vari Paesi, in alcuni casi anche alle delegazioni diplomatiche argentine in territorio estero, nella speranza che esse abbiano facoltà di intervenire più liberamente in loro aiuto.

È il caso dell’ambasciata argentina di Parigi che già verso la fine del 1976 e per tutto il 1977 inizia a ricevere segnalazioni telefoniche e accorate domande di aiuto da parte di connazionali residenti all’estero da anni o esiliatisi da poco, che disperati chiedono notizie di parenti irreperibili in patria oppure intendono denunciare casi di sequestri e torture. Come testimoniato da alcuni funzionari di lungo corso dell’ambasciata parigina, la maggioranza di questi impiegati rimangono dapprima increduli e poi sconcertati dalla mole di segnalazioni simili che scoprono arrivare anche presso altre ambasciate argentine nel mondo. Il tutto però viene recepito nello stesso modo che in patria, tra costernazione, silenzi, paura e smentite ufficiali.

LO SCONTRO DIPLOMATICO CON LA SVEZIA

Dagmar Hagelin

Non si può dimenticare come la stessa ambasciata parigina sia stata anche la sede del famigerato «Centro piloto», l’ufficio di controinformazione fortemente voluto dalla marina militare per analizzare e screditare la stampa estera che attaccava l’Argentina sul fronte della violazione dei diritti umani. Il dipartimento perderà la sua coordinatrice Elena Holmberg, essa stessa desaparecida, nonostante l’amicizia personale con Videla, per aver voluto rivelare alla stampa francese le operazioni poco chiare che la Armada stava svolgendo all’interno dell’ambasciata. È necessario infatti ricordare come la gestione del ministero degli Esteri e dei corpi diplomatici in quegli anni sia stata proprio sotto il controllo esclusivo della marina dell’ammiraglio Massera, il che spiega anche il muro di gomma che si venne a creare presso le stesse ambasciate riguardo alle denunce.

Nel caso della delegazione diplomatica svedese, la situazione fu certo molto diversa. La Svezia non soltanto garantiva da anni asilo politico a ogni dissidente proveniente dall’America Latina la cui vita fosse stata in pericolo, ma l’ambasciatore Per Kollberg era intervenuto immediatamente nel caso Hagelin visitando formalmente il ministro argentino Guzzetti che, dal canto suo, in modo cinico e arrogante, aveva negato la giurisdizione svedese nel caso adducendo che la giovane fosse argentina di fatto per esser nata nel Paese. Un telegramma durissimo del ministro degli Esteri svedese Karen Soder avrà l’effetto di dare una forte eco sulla stampa internazionale, portando alla rottura pressoché totale delle relazioni diplomatiche con l’Argentina. Il delegato del Paese sudamericano a Stoccolma ripeterà la stessa versione imposta da casa, ovvero che il nome della ragazza non fosse presente in nessuna lista di detenuti e che del suo destino non si sapesse più nulla.

I cablogrammi diplomatici dell’epoca e le denunce di Ragnar Hagelin consentiranno invece di dimostrare come il nome di Astiz e la detenzione di Dagmar presso il centro della ESMA fossero informazioni già in possesso delle autorità argentine, anche grazie ai contatti personali tanto del signor Hagelin che dell’ambasciatore Kollberg. Nonostante le pressioni diplomatiche e della stampa internazionale, Dagmar Hagelin non verrà mai rilasciata e risulta a oggi ufficialmente ancora desaparecida anche se la sua sorte fu presumibilmente identica a quella di centinaia di altri detenuti lanciati nel Rio de la Plata.

L’ATTEGGIAMENTO DELLA FRANCIA VERSO LA DITTATURA

L’impudenza e il cinismo dell’apparato repressivo si dimostrarono quindi incontrastabili come accadde anche nella più conosciuta vicenda di Léonie Duquet e Alice Domon, le due suore laiche francesi sequestrate nello stesso anno di Dagmar Hagelin. Il caso, destinato ad alimentare una infuocata campagna da parte della stampa francese contro il governo argentino, portò la dittatura a reagire in due modi. Nel primo — attraverso la manipolazione di informazioni e materiale fotografico forniti alla stampa nazionale — simulando che il sequestro fosse stato operato da una cellula di Montoneros con l’intento di scaricare la responsabilità su quel che rimaneva delle organizzazioni armate dinanzi all’opinione pubblica interna; nel secondo agendo attraverso il succitato Centro piloto di Parigi nel quale la stampa estera veniva analizzata minuziosamente, al fine di controbattere con una propaganda altrettanto pervasiva soprattutto in vista dei Mondiali Fifa del 1978 boicottati da una grande parte delle firme giornalistiche del tempo e dalle organizzazioni per i diritti umani.

Il caso Duquet-Domon mise peraltro in gravissimo imbarazzo il presidente Videla, personalmente legato a una delle due religiose che per anni si era presa cura, fino alla morte, del figlio disabile del generale. Il sospetto che l’ammiraglio Massera fosse stato il mandante del sequestro per screditare proprio Videla, della cui politica economica ed estera era sempre stato un acerrimo avversario, viene oggi ritenuto alquanto concreto. Se da un lato infatti la campagna di stampa francese attaccò duramente Videla, denunciando la situazione argentina, le relazioni diplomatiche tra i due Paesi non si ruppero (anzi, la Francia continuò a vendere armi all’Argentina) e lo stesso Massera si recò spesso a Parigi e nel resto dell’Europa occidentale proponendosi come volto «moderato» della dittatura, intenzionato a ottenere sostegno dai partiti socialdemocratici per la propria campagna presidenziale prevista alla fine della dittatura. È comprensibile dunque che nel caso argentino la diplomazia francese, in considerazione della presenza di un discreto numero di connazionali, nonché di forti interessi economici (basti pensare ai poli industriali IKARenault e Peugeot), sia rimasta molto cauta con l’intenzione di evitare una rottura delle relazioni tra i due Paesi.

IL SALVATAGGIO DEL GIORNALISTA INVESTIGATIVO CHARLES KRAUSE

Tex Harris, il diplomatico USA che denunciò i casi dei desaparecidos

Del resto la figura giuridica del desaparecido, come candidamente ammesso in una celebre e tesa conferenza stampa dallo stesso Videla pochi anni più tardi, non permetteva a nessuno di intervenire in modo chiaro e definito, né a livello interno né estero, poiché la condizione del desaparecido era di per sé quella di un’incognita, una situazione indefinita che non poteva essere trattata allo stesso modo di quella di un detenuto o di un giustiziato. L’efficacia del progetto repressivo della Junta militar — decisa a evitare lo scandalo e il biasimo internazionale toccati al Cile di Pinochet che mostrava in diretta televisiva gli oppositori destinati all’eliminazione fisica accalcati negli stadi di calcio — risiede appunto nell’incertezza della condizione degli scomparsi, la negazione della loro stessa esistenza e il facile gioco di manipolazione delle informazioni sulla loro sorte: esiliati, entrati in clandestinità, morti per mano di altri guerriglieri? Il «muro di gomma» contro il quale finiscono privati cittadini e commissioni internazionali, inclusa quella capeggiata da Patricia Derian su delega dell’amministrazione Carter, si rivelerà veramente efficace nell’impedire una soluzione chiara e immediata per le persone scomparse, ma forse ancora vive nelle mani dei loro carnefici.

Detto questo, se le cancellerie straniere durante la seconda metà degli anni Settanta non possono o non vogliono imporsi in modo netto in quello che in fondo è un affare interno di un Paese sovrano, è pur vero che non mancano le azioni di intervento diretto, sia a livello ufficiale che personale, per aiutare diverse persone a mettersi in salvo da quella indefinita e spaventosa sorte che è la «desapariciòn forzada». È il caso della delegazione statunitense. L’ambasciatore Robert Hill, i cui cablogrammi a Washington denotano una crescente preoccupazione per il protrarsi e l’aggravarsi della repressione nel Paese, interviene per mettere in salvo diversi connazionali residenti a Buenos Aires, come il giornalista d’indagine Charles Krause già noto per il suo reportage, che gli costò quasi la vita, sul culto del reverendo Jim Jones sfociato nel suicidio di massa di Jonestown. Questi, dopo aver seguito le indagini sulla sparizione di Elena Holmberg e investigato sulle responsabilità della marina nel caso, viene minacciato di morte e riesce a uscire dal Paese solo grazie all’interessamento dell’osservatore internazionale inviato da Carter, Tex Harris, il quale da mesi ha iniziato a ricevere denunce di sparizione da cittadini argentini che si rivolgono disperati presso i locali l’ambasciata.

IL CASO ITALIANO: ENRICO CALAMAI

Anche se in teoria il suo compito sarebbe unicamente quello di fornire eventuale assistenza ai soli cittadini statunitensi e in particolar modo monitorare il trattamento nei confronti della consistente comunità ebraica argentina, Harris non si rassegna a respingere le richieste di aiuto di chiunque gli si presenti con una denuncia. A tal fine fa creare un ingresso apposito e nascosto presso l’ambasciata affinché da fuori sia impossibile individuare chi si stia recando a presentare denuncia. La successiva, dura, presa di posizione dell’amministrazione Carter dinanzi al rifiuto di collaborare con la commissione Derian, e ai continui attacchi nei confronti dei suoi rappresentanti, si traduce in una drastica riduzione degli aiuti economici all’Argentina e in una progressiva crisi delle relazioni tra i due Paesi, tradizionalmente alleati sotto l’egida della gestione Kissinger.

Una situazione simile si verifica anche con la delegazione diplomatica italiana, con un caso che ricorda molto quello di Giorgio Perlasca: si tratta di Enrico Calamai, allora giovanissimo delegato del consolato di Buenos Aires che, come tale, a differenza dell’ambasciata non godeva di extraterritorialità. È giusto ricordare come la posizione ufficiale dell’Italia nei confronti del governo de facto argentino e della sua politica sui diritti umani non si sia mai distinta in modo chiaro e soprattutto non abbia, come nel caso della Francia, avuto una presa di posizione della stampa e dell’opinione pubblica molto netta nei confronti di quanto sembrava verificarsi nel Paese.

Con l’eccezione di pochi notevoli professionisti come Italo Moretti e Gian Giacomo Foà, le voci di accusa della stampa si levarono per lo più da testate di sinistra e si focalizzarono sul caso cileno e sulle sue ben più patenti violazioni dei diritti civili e umani. Questa mancata presa di posizione netta a livello di delegazione diplomatica ebbe certamente un suo motivo nella tutela degli enormi interessi economici italiani in Argentina e nella presenza di una grandissima popolazione di italiani residenti nel Paese: non si può evitare di ricordare come gli organismi preposti a queste relazioni, nell’Italia della seconda metà degli anni Settanta, siano state capillarmente infiltrate dai membri della Loggia P2 di Licio Gelli, non a caso designato delegato d’affari dell’ambasciata italiana a Buenos Aires al rientro di Perón e nominato console onorario dell’Argentina a Firenze, unico caso al tempo di cittadino straniero con diritto ad avere un passaporto argentino senza rinunciare alla cittadinanza natìa.

GLI ANNI NOVANTA E IL GIUDICE GARZON

Enrico Calamai

Tuttavia il giovane Calamai, che aveva già prestato servizio presso l’ambasciata italiana a Santiago del Cile durante gli anni del golpe e della repressione, diventa dopo il 1976 il punto focale dell’assistenza a quei cittadini argentini che, anche senza vantare cittadinanza italiana, gli chiedono aiuto per poter uscire dal Paese. All’inizio le denunce e richieste di aiuto che gli arrivano sembrano frutto di fantasie o cattiva informazione, ma presto Calamai – già formatosi durante la tragica esperienza transandina – capisce che qualcosa di orrendo sta accadendo anche in Argentina. Mentre la nostra ambasciata rifiuta formalmente questo tipo di assistenza, qualcuno sottovoce indirizza i richiedenti asilo presso il consolato dove, di propria iniziativa e a rischio della sua stessa vita, nell’arco di tre anni Calamai protegge, nasconde e aiuta a uscire dal Paese oltre trecento persone, a vario titolo perseguitate dal regime militare.

La scelta del console italiano è una dimostrazione che, stante la volontà di intervenire seppure in segreto, si sarebbe veramente potuto fare molto di più e di concreto per salvaguardare i diritti umani: è altresì naturale che una tale situazione non poteva essere resa di dominio pubblico, anche a salvaguardia degli stessi richiedenti asilo, tanto che di questo caso si conosceranno i dettagli solo venti anni più tardi quando in Argentina si ritornerà a lavorare per revocare quei decreti che avevano di fatto amnistiato i colpevoli delle violazioni dei diritti umani e impedito quindi anche le indagini sui casi rimasti ancora aperti.

È infatti verso la fine degli anni Novanta che i movimenti per i diritti umani, sull’onda delle richieste di estradizione per genocidio effettuate dal giudice spagnolo Garzón, si rimettono in marcia nell’esigere la riapertura dei processi e la revoca di fatto dell’immunità acquisita dagli amnistiati secondo la giurisdizione argentina: tralasciando la pur inizialmente necessaria fallacia giuridica e antropologica dell’imputazione per genocidio, l’azione intrapresa prima dal magistrato spagnolo e successivamente nel resto dei Paesi europei ha avuto il merito di intraprendere nuovi processi nell’ottica dei crimini contro cittadini stranieri residenti in Argentina.

LA FIGURA DEL NUNZIO APOSTOLICO PIO LAGHI

È in quest’ambito che nel 1997 una eminente figura diplomatica, quella del nunzio apostolico Pio Laghi, viene riportata all’attenzione dell’opinione pubblica a seguito di una serie di accuse e denunce che lo identificherebbero come collaboratore attivo della repressione militare e addirittura partecipe, secondo alcuni, delle sessioni di tortura che si tenevano presso la ESMA e negli zuccherifici della provincia settentrionale di Tucumán. Nasce in questo periodo la cosiddetta «leggenda nera» che ancora oggi circonda il nome del diplomatico vaticano, la cui vicenda si innesta con quella della Chiesa argentina già a partire dal 1974: designato da Paolo VI come nunzio apostolico a Buenos Aires, Laghi viene accreditato per una coincidenza della storia proprio il 1° Luglio di quell’anno giorno in cui il generale Perón muore dopo una breve e convulsa presidenza, alla quale segue un periodo ancora più incerto e violento di quello già in corso all’arrivo del diplomatico.

Laghi non piace alla nuova presidente Isabelita Perón né al suo onnipotente consigliere Lopez Rega, ma ancora di meno piace ai vescovi della Chiesa cattolica locale, fratturata su due posizioni opposte, quella tradizionalista, anticonciliare e fortemente nazionalista, fautrice della mano dura militare e quella terzomondista e filo-rivoluzionaria che da anni, più o meno consapevolmente, fomenta e propizia la violenza armata tra i più giovani. La sua missione di riconciliare questa divisione e riportare sotto il controllo diretto del Vaticano una Chiesa così fortemente indipendente e nazionalista come quella argentina è di per sé un compito arduo e ingrato: se per i primi due anni di mandato Laghi sembra restare in disparte, è con l’arrivo della nuova Junta militar che sembra cercare e ottenere un reciproco ascolto.

Nell’apparente ritorno all’ordine portato dal colpo di Stato, pesa una sua omelia riferita dalla stampa durante una visita ufficiale del 27 giugno 1976: «Il Paese ha un’ideologia tradizionale e quando qualcuno pretende di imporre altre idee diverse ed estranee, la Nazione reagisce come un organismo, con anticorpi di fronte ai germi, e nasce così la violenza. I soldati adempiono il loro dovere primario di amare Dio e la Patria che si trova in pericolo. Non solo si può parlare di invasione di stranieri, ma anche di invasione di idee che mettono a repentaglio i valori fondamentali. Questo provoca una situazione di emergenza e, in queste circostanze, si può applicare il pensiero di san Tommaso d’Aquino, il quale insegna che in casi del genere l’amore per la Patria si equipara all’amore per Dio».

Questo frammento dell’omelia verrà allegato come dimostrazione dell’appoggio di Laghi alla Junta militar dall’organizzazione Madres de Plaza de Mayo, capeggiata da Hebe de Bonafini. Forti delle testimonianze raccolte assieme ad altri sottoscrittori della stessa area politica, Bonafini e l’organizzazione denunceranno Laghi come repressore attivo e partecipante alle sessioni di tortura dei «desaparecidos».

1980: LAGHI VIENE DICHIARATO «PERSONA NON GRATA» DA MASSERA

Pio Laghi

Sebbene la stampa abbia spesso riportato più volte come un fatto la sua amicizia personale con l’ammiraglio Massera, le varie denunce nei confronti del nunzio apostolico, se analizzate attentamente, si riassumono in una serie di accuse che vertono principalmente sul seguente assunto: in qualità di diplomatico della Santa Sede, Laghi «non poteva non sapere» della repressione in atto durante la dittatura militare. Il suo interessamento nei casi di alcuni scomparsi, inoltre, non si sarebbe tradotto nella liberazione degli stessi.

Di fronte alla prima accusa, che certamente ha suo fondamento storico e morale, è in effetti difficile replicare così come è vero che il suo rapporto con i militari al potere non poteva, almeno inizialmente, essere improntato allo scontro e alla rottura diplomatica: sarebbe ingenuo pensare che questo avrebbe potuto portare alcun giovamento alla situazione dei diritti umani in un Paese comunque cattolico, soprattutto se consideriamo la necessità della mediazione vaticana verso al fine del 1978, rivelatasi essenziale nel disinnescare il conflitto armato tra Cile e Argentina seguito all’annosa tensione per il canale del Beagle.

Riguardo alla seconda accusa, mentre le testimonianze a carico di Laghi si sono rivelate molto parziali e inconsistenti, si sono invece susseguiti negli ultimi anni documenti e testimonianze che dimostrano non solo che Pio Laghi operò personalmente per conoscere le sorti di circa 2388 desaparecidos, riuscendo a organizzare la fuoriuscita dal Paese di diversi cittadini argentini, ma che le sue presunte relazioni amichevoli con la giunta militare non erano poi tali: oltre a un certo ostruzionismo da parte dei vescovi argentini, lo stesso apparato dittatoriale continuava a negare con tenacia e con una certa impazienza, nelle persone di Videla stesso e del ministro Harguindeguy, le richieste di informazioni e di salvaguardia inoltrate dal nunzio, che in varie lettere testimonia la sua frustrazione. Queste relazioni tra la nunziatura apostolica e la Junta finiscono infatti per deteriorarsi rapidamente, in particolar modo a causa delle relazioni inviate da Laghi alla Segreteria di Stato vaticana che culmineranno in una nota di biasimo ufficiale nei confronti del governo de-facto e nelle pressioni pontificie. Sempre più intense dopo l’elezione al soglio di Giovanni Paolo II, le sollecitazioni vaticane faranno via via mancare a livello internazionale una legittimazione religiosa che il regime potrà avere soltanto dal fronte interno, con la Chiesa nazionale. La vicenda di Laghi come nunzio apostolico si conclude verso la fine del 1980, quando viene formalmente dichiarato «persona non grata» dallo stesso Massera e rimandato presso la Santa Sede.

In ultima analisi è vero come storicamente, per loro stessa funzione, le delegazioni diplomatiche dei Paesi occidentali non siano mai arrivate allo scontro o alla rottura diplomatica in seguito alle violazioni dei diritti umani in Argentina, come è giusto ricordare che i Paesi del blocco comunista e lo stesso delegato dell’URSS rifiutarono di avallare qualsiasi denuncia contro la giunta militare per evidenti interessi commerciali; è altresì vero che furono numerosi i delegati che — a titolo personale o con il supporto della propria cancelleria — non si limitarono a far conoscere la realtà che si profilava nel Paese, ma si attivarono concretamente per mettere in salvo quante più persone possibile, nonostante la storia si sia spesso disinteressata di loro.