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Alvaro Lojacono, l’invisibile «compagno Otello»

Tommaso Nelli

La legge elvetica non concede l’estradizione: l’unica soluzione sarebbe una richiesta in «exequatur», cioè l’istituzione di un processo in Ticino per i crimini commessi in Italia

«Operazione Invisibilità». Se fosse un film, potrebbe intitolarsi così la storia di Alvaro Lojacono, il compagno «Otello», l’ex brigatista rosso oggi cittadino svizzero. La sua figura ha attraversato gli «anni di piombo» come fosse una sagoma di una puntata di «Blu Notte», fortunato e rimpianto programma RAI. Ogni tanto s’illuminava, a lungo restava spenta. Ma con una sostanziale differenza rispetto ai cartonati televisivi. Loro, al buio, rimanevano al proprio posto. Lui, no. E quando la luce si riaccendeva, era da un’altra parte e aveva pure agito. O così, in certi casi, raccontano abbia fatto. Un dubbio che fa già intuire molto su un personaggio caratterizzato da una vita all’insegna di avventura, politica e mistero. Nato a Milano a metà anni Cinquanta, Lojacono si trasferisce ben presto a Roma dove il padre Giuseppe, iscritto al PCI, collabora con l’Istituto di Studi per la Programmazione Economica. La madre, Ornella Baragiola, discende da una delle più altolocate famiglie del Canton Ticino, Svizzera Italiana. All’agiatezza di famiglia in lui prevalgono però gli ardori giovanili, alimentati dal forte clima di tensione sociale del periodo: gli anni Settanta, dove la politica è partecipazione di massa. Dove di politica, spesso, si muore. Lojacono aderisce a «Potere Operaio», una delle formazioni più calde dell’estrema sinistra: diventa per tutti il compagno «Varo» e vi rimane fino allo scioglimento di PO nel 1974. Aggregatosi ad altri gruppi della sinistra extraparlamentare, il 28 febbraio 1975 Lojacono si trova nei pressi del Tribunale di Roma per manifestare il suo sostegno a tre militanti di «Potere Operaio», imputati per il rogo di Primavalle nel quale due anni prima erano morti due figli di un esponente dell’MSI. Il «compagno Varo» ignora che quel giorno lo avrebbe introdotto per sempre nei misteri d’Italia.

INVISIBILE PER LA MAGISTRATURA, MA NON PER LA «RIVOLUZIONE»

Alvaro Lojacono-Baragiola

All’ora di pranzo un corteo non autorizzato di militanti di sinistra si sposta da piazzale Clodio alla vicina via Ottaviano per assaltare la sede dell’MSI. Negli scontri muore un simpatizzante fascista, il greco Mikis Mantakas. Indicato come uno dei due killer, Lojacono è immediatamente ricercato dalle forze dell’ordine. Nella sua abitazione di Campo de’ Fiori non lo trovano e nessuno sa dove sia: perché «Varo» è già un latitante e lo rimane fino alla sentenza di primo grado del 4 marzo 1977, nella quale viene assolto per insufficienza di prove. Verdetto ribaltato in appello, il 31 maggio 1980: Lojacono viene condannato a sedici anni di reclusione nonostante i tre missini suoi accusatori, al momento del confronto in aula, non lo riconoscano. Ma allora perché quel verdetto? Chi ha ucciso Mantakas? E chi ha aiutato Lojacono nella latitanza?

Mentre è ricercato a Roma per l’assassinio di Mantakas, «Varo» riappare in Toscana. Lo si legge in un documento declassificato (nr. 947/1) dell’ultima Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro: «Nel 1975, su iniziativa di Alvaro Loiacono, nascevano a Firenze le “Formazioni Comuniste Armate”».

Soltanto un fuoco fatuo: Lojacono, a metà 1976, è di nuovo a Roma, dove insieme ad altri compagni, come l’amico di lungo corso Valerio Morucci, entrerà di lì a poco nella neonata colonna di un’organizzazione capace di segnare per sempre un’esistenza: le Brigate Rosse. Come appreso dalle deposizioni nel «Moro-bis» dei pentiti Savasta e Di Cera, Lojacono viene inserito nella «Contro» (o «Triplice»), il settore delle Br che individua gli obiettivi tra magistratura e forze dell’ordine: «Varo» è un irregolare, cioè un militante non in clandestinità, quindi teoricamente rintracciabile, e vi rimane fino alla fine del 1979 col nome di battaglia «Otello».

Ma perché Lojacono ha goduto di tanta libertà nonostante lo scomodo ruolo di imputato in un processo?

MORO, LA SVIZZERA E LA LATITANZA

Mentre attende il verdetto della Cassazione su Mantakas (20 ottobre 1981), che confermerà la sentenza di secondo grado, Lojacono fa perdere nuovamente le sue tracce.

Il suo nome riprende a ventilare nelle indagini sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e della sua scorta a metà anni Ottanta, dopo il pronunciamento della Corte d’Appello del «Moro bis» (marzo 1985) che gli infligge in contumacia l’ergastolo sia per alcune azioni delittuose delle BR durante la sua militanza, sia soprattutto per via Fani.

Chi ha fatto il nome di Lojacono? Valerio Morucci – che fra i rapitori del presidente democristiano ha dato un contributo significativo alla ricostruzione dei fatti dissociandosi però dalla lotta armata soltanto nel luglio 1984 – alla magistratura non aveva mai rivelato l’identità dei membri del commando, limitandosi a indicarli con dei numeri.

In ogni caso, l’8 giugno 1988, pochi giorni dopo il mandato di cattura nei suoi confronti spiccato dai giudici del «Moro quater», Lojacono si ritrova le manette ai polsi. A sorpresa, in Svizzera. Dove vive da due anni nella tenuta di famiglia di Villa Orizzonte nell’Alto Malcantone, a due passi dall’Italia. Da alcuni mesi lavorava come ideatore di quiz per un programma della radio ticinese col soprannome di «Capitan Zarro». Ma, soprattutto, aveva preso la cittadinanza elvetica e il cognome della madre grazie a una legge federale. Tanto che dal 28 gennaio 1987 diventa Alvaro Baragiola.

Il 1°dicembre 1994 la Corte d’Assise del Tribunale di Roma conferma l’ergastolo per via Fani: Lojacono viene ritenuto uno dei due terroristi (l’altro è Alessio Casimirri, il compagno «Camillo») a bordo della Fiat 128 bianca che il 16 marzo 1978 si intraversa in mezzo alla strada, dietro l’Alfetta della scorta di Moro, per «bloccare il traffico e rispondere ad eventuali attacchi delle forze di Polizia» (com’è possibile leggere nel «memoriale Morucci», ritenuto la verità ufficiale sul «caso Moro»). Un ruolo di copertura, completato con il passaggio dato a uno dei killer, il brigatista Prospero Gallinari, e l’accodamento alla 132 sulla quale viene caricato Moro. Confermata in Appello e in Cassazione, la decisione si scontra però con le parole, nell’ultima «Commissione Moro», di Raimondo Etro, un altro brigatista, estromesso all’ultimo dal gruppo di fuoco: «Ricordo benissimo che Casimirri mi riferì […] che si erano inceppati diversi mitra e, quindi, lui e Alvaro Lojacono erano stati costretti a intervenire. Ricordo perfettamente che Casimirri mi disse che Iozzino (uno degli agenti della scorta, ndg) era uscito dalla macchina strillando come un’aquila e che loro avevano dovuto sparare. Adesso non ricordo bene se era stato Casimirri o era stato Lojacono».

Subito dopo l’arresto, Ornella Baragiola, intervistata dal «Corriere della Sera», cercò di scagionare il figlio: «Ricordo che quel giorno, nelle prime ore del pomeriggio, io e Alvaro vedemmo insieme alla televisione le immagini del rapimento», nonostante la strage si sia verificata alle 9 di mattina.

LA POSSIBILITÀ DI «PORTARE» IL CASO MORO IN SVIZZERA

Insomma, che ruolo ha avuto Lojacono in via Fani?

Glielo si potrebbe domandare, ma «Otello» non può rispondere. O meglio, lo potrebbe fare solo in Svizzera. La legge elvetica non concede l’estradizione: l’unica soluzione sarebbe una richiesta in exequatur, cioè l’istituzione di un processo in Ticino per i crimini commessi in Italia. In pratica portare il «caso Moro» , sul quale gravitano ancora nebbie nonostante cinque inchieste giudiziarie e numerose commissioni parlamentari d’inchiesta, oltreconfine. Ma nessuno ci ha mai provato. Perché?

E perché invece questa soluzione è stata praticata per un altro omicidio commesso da Lojacono, quello del giudice Girolamo Tartaglione, ucciso a Roma il 10 ottobre 1978? Insieme a lui, travestito con un basco e un paio di finti baffi neri per fare da palo, c’erano Casimirri, il killer, e Massimo Cianfanelli come autista. Un delitto per il quale nel 1990, dopo la Corte di Cassazione elvetica (l’equivalente della nostra Corte di Appello), Lojacono ha ricevuto diciassette anni di carcere. Ma nell’ottobre 1999 l’ex br verrà già rimesso in libertà. Tempo otto mesi ed è nuovamente arrestato sulla spiaggia d’Île-Rousse, in Corsica, dove si trova per una vacanza insieme all’allora compagna nella casa di proprietà della madre. Fuori dai confini svizzeri, niente più immunità. L’Italia si attiva per l’estradizione, ma viene respinta dalla Francia. Per il diritto transalpino il processo in contumacia, previsto dal diritto italiano, è lesivo per l’imputato: con l’estradizione Lojacono sarebbe finito dietro le italiche sbarre. Così, terminato il soggiorno nelle carceri corse, l’ex brigatista rientra in Svizzera dove oggi lavora all’università di Friburgo.

Ma come ci è arrivato? Rimane un mistero. Uno dei tanti della vita di «Otello», ma forse quello che spiegherebbe molto anche dei precedenti. Secondo una sua intervista al «Corriere della Sera» dell’ottobre 2000, il PCI, su richiesta del padre (morto nel frattempo), avrebbe favorito la sua fuga in Algeria dopo averlo presentato al Fronte di Liberazione Nazionale. Una tesi che ha fatto insorgere gli ex responsabili della sezione Esteri di Botteghe Oscure: il PCI, fautore della linea della fermezza, mai avrebbe agevolato un terrorista. Dall’Algeria, dove ha lavorato alcuni anni come architetto, Lojacono si è trasferito in Brasile, Paese dal quale è ritornato in Svizzera. Senza che nessuno, nonostante un mandato di cattura nei suoi confronti dal 1981, si sia mai accorto di nulla. Possibile? Con quale identità? Con quali soldi? Ma soprattutto: con quali appoggi?

Interrogativi, sempre più pesanti da sopportare col passare del tempo, che necessitano chiarezza per evitare che la sua storia non sia l’ennesima matrioska degli «anni di piombo». Ovvero – prendendo in prestito la definizione di un fondatore delle BR, Alberto Franceschini – «quelle bambolette di legno infilate una nell’altra che, sviti e sviti, e non arrivi mai a trovare l’ultima».