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Storie di droga dall’Italia del 1977

Redazione Spazio70

Alcune testimonianze raccolte da Alida Militello e Gianni Mura

Paolo E., di Trento, è morto il 12 giugno 1975 per una dose eccessiva di eroina. Non aveva ancora compiuto 15 anni. Don Valerio Costa, del Cad (Centro assistenza drogati), rievoca la sua storia.

«Paolo non ha mai conosciuto suo padre e inconsciamente lo ricercava frequentando compagnie di adulti. Era un ragazzino vivace, molto intelligente. A 11 anni è stato espulso da scuola e non ha più voluto tornarci. A 12 un rapporto della polizia lo giudicava “teppista precocissimo e avviato sulla strada della delinquenza abituale”. Quando l’ho conosciuto, aveva già cominciato a drogarsi prima con roba leggera poi con l’eroina. Quelli del suo giro notturno lo avevano utilizzato per compiere alcuni furti, specialmente nelle farmacie. Di corporatura minuta, dimostrava anche meno della sua età. Nel febbraio del 1975, l’hanno arrestato in piazza Duomo, a Trento, mentre cercava di spacciare bustine di droga in tandem con un ragazzo di 18 anni: Paolo ne aveva 13 e mezzo. Sua madre gli aveva regalato un motorino, lui l’aveva venduto per 50 mila lire che aveva reinvestito in droga: un tentativo di commercio che non ha mai potuto avviare perché l’hanno arrestato subito. E’ seguito un processo e la condanna a due anni e due mesi di galera. Paolo è stato due mesi nel reparto isolamento delle carceri per adulti, in via Pilati, poi è stato trasferito a Venezia nella casa di correzione Le Zattere, secondo me non casualmente ubicata in via degli Incurabili».

Non è aberrante una condanna inflitta a un tredicenne che si potrebbe recuperare?

«Il procuratore aveva chiesto una pena molto più severa, circa il doppio. Si consideri che, allora, il fenomeno droga era agli inizi, a Trento, e le autorità avevano deciso di colpire con mano pesante. Mentre Paolo era in isolamento qui in città, il giudice mi vietò persino di andarlo a trovare in carcere. Conservo una lettera di Paolo. A un certo punto diceva: “Non ho vergogna della gente, ma non me la sento di restare in questa città che mi ha portato in prigione. I suoi abitanti, in un modo o nell’altro, mi hanno rovinato”. E qualche paragrafo dopo: “Questi giorni di carcere mi hanno insegnato una cosa che non conoscevo: odiare”. Paolo scappa dalle Zattere, lo ritrovo in Val Lagarina e lo convinco a tornarci. Lo rivedo a Trento, il 2 giugno, in licenza per dieci giorni. In carcere aveva contratto una malattia della pelle, doveva curarsi. Lo accompagno dal dermatologo dell’ospedale S.Chiara, ricordo che lui era preoccupato della prospettiva di tagliarsi i capelli lunghi, cui teneva moltissimo. Parliamo della necessità di trovare un lavoro: lui voleva fare l’ambulante, comprarsi un furgoncino e girare per le valli a cercare vecchie cose d’artigianato, io gli prospettavo anche un lavoro da commesso. “Anche questo non sarebbe male”, diceva lui. Nel salutarmi tirò indietro la mano per paura di contagiarmi. Questo succedeva l’11 giugno, in mattinata. L’ho rivisto verso le 11 di sera, gli occhi lucidi. “Ti sei bucato?”, gli ho chiesto. “No, solo una fumatina, adesso vado a casa”. Invece ha chiesto ospitalità a due sue amiche, in una camera d’albergo, si è addormentato pesantemente e quando mi hanno chiamato il pomeriggio dopo era già morto».

Padre Brunetta, del Centro S. Fedele di Milano, racconta la storia di Andrea

«Ha 14 anni. Il padre meccanico vive con un’altra donna: la madre, domestica, con un altro uomo. Da circa un anno Andrea vive fuori casa, con una ragazza di 19 anni. Ha smesso di andare a scuola e si guadagna da vivere trasportando droga da un punto a un altro di Milano. Lui non si droga, nemmeno fuma le sigarette normali. Ogni viaggio gli rende almeno 60 mila lire. Non ne effettua tutti i giorni, ma solo quando lo chiamano per un trasporto. Guadagna un milione al mese e ha verso la droga un atteggiamento distaccato, da professionista. “Se la chiedono, vuol dire che serbe. Mi pagano per fare un lavoro e lo faccio”. Gli piace frequentare con la sua ragazza i ristoranti di lusso. E’ il suo vanto. “Se lei mi trova un lavoro che mi faccia guadagnare la stessa cifra”, mi ha detto, “ io smetto di trasportare droga. Altrimenti, continuo: non c’è nessun rischio e io di sicuro non mi drogherò mai”».

La storia di Franca e Maria raccontata da un’amica di Franca

«Franca e Maria hanno cominciato a fumare quando ancora erano alle medie. I loro genitori non appartenevano alla “gente bene con un mucchio di grana”, eppure avevano deciso di mandare le figlie in una scuola privata. Quando le conobbi, Franca faceva la seconda media e Maria la terza. La famiglia viveva a Grugliasco, un centro di immigrazione nella cintura di Torino, un vero ghetto. Il padre siciliano, un tipo autoritario, faceva l’operaio ma percepiva strane rendite da misteriose proprietà in Sicilia. Avevano un tenore di vita superiore a quello di molte altre famiglie del quartiere. La madre faceva la portinaia. Si era sposata giovanissima, a 16 anni, era succube del marito violento. Diceva sempre di essere stanca delle scenate e dei maltrattamenti ma non trovava mai il coraggio di andarsene. Più volte aveva tentato il suicidio. La morte di un’altra figlia in circostanze tragiche l’aveva resa apatica e depressa. Non seguiva più le figlie e sperava che il fatto di mandarle in una scuola privata servisse ad allontanarle da Grugliasco, dal bar, dal fratello, un vero “balordo” dedito da anni alle droghe pesanti e dalle compagnie “sballate”. Franca e Maria respiravano già in casa loro una certa aria, visto che il fratello a sedici anni si “bucava” e frequentava ormai soltanto il mondo dei drogati. A scuola si vantavano di esser drogate e la voce era giunta agli insegnanti ma tutti, temendo lo scandalo, facevano finta di nulla. Alle suore che le interrogavano rispondevano che era vero e si vantavano con le compagne. Poi un giorno il fratello se ne andò e scomparve per sempre. Franca e Maria vennero a sapere che era fuggito ad Amsterdam e viveva nel mondo dei drogati. L’anno seguente, ormai arrivate al “buco”, decisero di raggiungerlo. Tutti e tre sembravano ormai perduti per sempre. Un giorno incontrai la madre e chiesi come aveva potuto non accorgersene. Mi rispose che l’aveva intuito dallo strano atteggiamento della maggiore, soprattutto, che terminate le medie si mise a cercare un lavoro e una volta trovatolo lo abbandonava dopo due giorni. Si accorse anche che in casa erano spariti quei pochi oggetti di valore che possedevano. Purtroppo capì troppo tardi come stavano realmente le cose. Dopo un anno di lontananza, Franca tornò a casa ma non volle raccontare a nessuno la sua esperienza, neppure a me che ero la sua migliore amica. Disse che voleva uscirne e che lei, a differenza di sua sorella, era ancora in tempo. Si iscrisse alla prima magistrale. Voleva con tutte le sue forze continuare gli studi, ma quando si accorse che le era impossibile decise di cercare un lavoro. Qualcuno le offrì un posto di baby-sitter, a Milano. Da quel giorno non l’ho più vista».

La storia di Bruno raccontata dalla sua maestra Licia C. di Torino. Bruno ha iniziato a fumare a 12 anni ed è arrivato a bucarsi a 13

«Era un mio allievo intelligente e sensibile, primeggiava sugli altri e con i compagni si comportava come un capo. Era adulto anzitempo. Viveva coinvolto nel mondo dei grandi, un mondo brutto che gli faceva rifiutare quello troppo infantile e per lui ridicolo della scuola. Era però brillante, simpatico e amava soprattutto il mondo che gli era mancato, quello della favole. Ascoltava le fiabe norvegesi a bocca aperta e guai a chi glielo faceva notare. Nonostante le ripetute bocciature che l’avevano costretto a frequentare una classe differenziale, possedeva una capacità di apprendimento superiore a quella degli altri ragazzi della sua classe. Lo avevano mandato alle differenziali perché alle normali saltava le lezioni e le rare volte che era presente appariva svagato e insofferente. Per le troppe assenze i maestri non lo potevano classificare. Le sue difficoltà, causate da una insostenibile situazione familiare, erano di ordine psicologico. Bruno non aveva mai conosciuto il padre. Il fatto di essere figlio di una ragazza-madre (portava infatti il cognome della madre) gli pesava e non è mai riuscito ad accettarlo. Si sentiva menomato, diverso. Aveva nove anni quando sua madre portò un uomo in casa, un uomo giovane che avrebbe potuto essere un suo fratello maggiore. Chiamarlo “papà”, accettare passivamente la sua stupida severità, gli sembrava una cosa assurda. Da quest’uomo la madre ebbe un figlio e la presenza di un fratellastro provocò in Bruno un trauma. La gelosia fece aumentare la sua aggressività e il bisogno di fuggire. Fin dalla prima volta che lo vidi notai il suo strano comportamento. Seppi poi che già da un anno fumava. Arrivava in classe con gli occhi pesti e per le prime due ore non era in grado di fare nulla. A volte sul viso e sulle braccia presentava degli sfregi impressionanti, si giustificava raccontandomi che era caduto dalla bicicletta. In seguito mi confessò che aveva cercato di “fare il furbo” e di uscire dal “giro”, ma lo avevano sempre “beccato” e gliela avevano fatta pagare. Un giorno, eravamo alla fine dell’anno scolastico, mi disse che aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno, che non ce la faceva più, voleva uccidersi. La sua confessione non mi trovò impreparata ma mi fece capire quanto poco avrei potuto fare per aiutarlo. “Sono un drogato e un omosessuale”, mi disse. “Ho iniziato a prostituirmi per soldi. Una volta lei mi ha chiesto come potevo permettermi gli abiti eleganti che indossavo e chi mi dava il denaro. Sapeva bene che in famiglia non c’erano soldi, mia madre faceva la portinaia e mio patrigno lo scaricatore ai mercati generali. Le risposi che mi arrangiavo. Era vero, mi arrangiavo prostituendomi. All’inizio mi prostituivo con gli uomini per pagarmi i vestiti e i divertimenti, poi per la droga. Gli uomini con cui andavo erano quasi tutti drogati. Un giorno uno di loro mi fece fumare dell’hashish puro. Mi accorsi che il fumo mi facilitava i rapporti con quei tipi, così ho continuato e alla fine mi pagavano con la droga. Poi sono passato all’eroina e ora non mi posso più tirare indietro. Ho paura di fare una brutta fine”. Da quel giorno non ho più visto Bruno. Ho chiesto notizie a sua madre, mi hanno risposto che è scomparso e nessuno sa più nulla di lui».

Roberto ha 26 anni, abita a Milano nel quartiere Lorenteggio. Ha smesso di drogarsi (eroina) da circa un anno e collabora con Gino Galli al centro anti-droga di via Zurigo

«Ho cominciato a 14 anni, col fumo. Non avevo carenze di affetto in famiglia, anzi i miei genitori mi sono sempre stati molto vicini anche se hanno patito molto per me e per un mio fratello che s’è suicidato per colpa della droga. Ho cominciato nei giardinetti del Giambellino, volevo entrare in un gruppo e in quel gruppo si fumava. Così ho fumato anche io. Che cosa provavo? Nei primi tempi era bello. Non tanto per il fumo in sé, quanto per l’amicizia, la solidarietà, il senso del gruppo. Ma erano altri tempi: sembravano persino belle le celle di San Vittore, tutte decorate a fiorellini. Adesso si drogano duro e subito, ma non si può più vivere bene. A San Vittore sono entrato per la prima volta nel 1969, a 18 anni appena compiuti. Mi avevano beccato in farmacia con una ricetta falsa di cardiostenolo. Mi hanno appioppato un anno per acquisto, uso, detenzione e spaccio di stupefacenti. In verità non ho fatto in tempo a comprare e a usare un bel nulla, ma pazienza. Sei mesi a San Vittore, sei mesi in Sardegna, a Mamone. Lì ti trattano come nessuno: c’era un maresciallo che, appena arrivavi, ti obbligava a baciargli i gradi, alla minima protesta ti spogliava nudo e ti davano un sacco di botte. Alla droga pesante sono passato dopo un bel po’ di tempo. Son finito dentro – sei mesi – per mezzo grammo di hashish. Giuro, mezzo grammo. A questo punto che importanza ha? Però era mezzo grammo. Sei mesi più una settimana a Mombello, all’ospedale psichiatrico. Sono scappato perché non sopportavo il braccio ammanettato al letto. Mio padre mi ha convinto a tornarci e ci sono tornato. Con l’etichetta di “pericoloso drogato”, perché avevo dato una scarpata a uno che cercava di farmi la fotografia e io alla pubblicità non ci tenevo. Attraverso le pastiglie di amfetamina sono arrivato all’eroina. Rubavo mangianastri sulle automobili: mi hanno beccato, altri sei mesi. Ho anche spacciato, ma senza guadagnarci una lira, altro che macchine di lusso. Un’angoscia pazzesca, piazzare tutta la merce per avere una dose. E io ero onesto. Tanti morti di questi ultimi mesi sono morti perché si spaccia eroina sporca, tagliata col lattosio, col talco, col bicarbonato, ma, quel che è peggio, tagliata anche con la stricnina. Ho deciso di smettere perché non era più vita. Nel giro c’erano troppe pistole, troppi coltelli, gente che per i soldi s’era ridotta a strappare le catenine d’oro dal collo dei bambini, a scippare le vecchie: non erano cose che potevo fare. Ho smesso senza medici. Sono stato in casa, chiuso in camera mia. Cambiavo le lenzuola tre volte al giorno, perché quando sei abituato a bucarti e non ti buchi sudi come una bestia e così mi è passata. Non mi buco dal 31 luglio del 1976, ho tenuto il conto. Fino a che non ho cominciato con l’eroina, lavoravo come meccanico. E mi piaceva. Per me è un lavoro creativo, come il muratore».