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Morire in un prato di Cesano Boscone per overdose. La storia di Umberto C

Redazione Spazio70

In tasca gli trovano una sola moneta da dieci lire: l'abbigliamento scarno, il volto consumato, le braccia massacrate dagli aghi. Aveva soltanto ventitré anni

Cesano Boscone, periferia di Milano. Sono i primi giorni di novembre e l’inverno 1974-75 è ormai alle porte. In un prato tra i palazzoni-dormitorio del grosso centro lombardo gli inquirenti rinvengono il corpo senza vita di un ragazzo. Nessuno ne aveva ancora reclamato la scomparsa: se non fosse stato per un pensionato, che si aggirava da quelle parti col proprio cane, quelle povere spoglie sarebbero rimaste lì per chissà quanto tempo. Attraverso le impronte digitali si riesce però a risalire all’identità del ragazzo: si tratta di Umberto C., un perugino arrivato a Milano nel 1970, piuttosto noto alle forze dell’ordine e all’interno della comunità «hippie» del capoluogo meneghino. Arrestato qualche anno dopo in una retata, inizialmente dedito al consumo di droghe leggere, era poi passato all’eroina. In tasca gli trovano una sola moneta da dieci lire: l’abbigliamento è scarno – del tutto inadatto per un inverno che si preannuncia pesante – il volto consumato, le braccia massacrate dagli aghi. Umberto aveva soltanto 23 anni e a ucciderlo è stata l’ultima dose di eroina. Della sua giovane vita, ben tredici anni sono trascorsi tra collegio, prigione e tossicodipendenza. Per le statistiche, solo un caso. Un numero in più. Per i suoi parenti, una «vergogna». Per lui, Umberto, la fine di un incubo descritto minuziosamente e coscientemente in una sorta di diario tenuto durante la carcerazione a San Vittore. La grafia pulita, di chi ha una discreta cultura, capace di raccontare la vita di un tossicomane dietro le sbarre. Ventotto paginette ben scritte nelle quali vengono raccontate anche le giornate passate in compagnia di Gian Franco Bertoli, il terrorista che nel 1973 uccide quattro persone con un attentato davanti alla Questura di Milano.

UN GRANDE AMICO PRONTO A FARE LA RIVOLUZIONE

Una vita, quella in carcere, caratterizzata da spazi angusti, inizialmente squallidi, poi «rimodellati» con scritte, disegni, foto, calore umano. Una cella che, da totalmente impersonale, acquista col tempo una impronta rispondente a quella della persona che ci vive: una dimensione, una parvenza di normalità, che viene brutalmente messa a soqquadro a ogni perquisizione delle guardie carcerarie, a ogni trasferimento.

«Mi ricordo che circa un mese fa vennero all’improvviso nel pomeriggio», scrive Umberto nel suo diario, «vennero in silenzio: erano venti o forse più e si misero a frugare in ogni cella, in ogni pertugio, persino nei cessi comuni che sono all’ultimo piano del secondo raggio. Quando dopo quasi un’ora lasciarono finalmente libero il campo, mi recai nella mia cella. Era la 47. Avevano devastato tutto: letti, scatoloni, armadietti nei quali mettevamo le scorte alimentari. Tutto, insomma. Ma la cosa che più mi faceva rabbia era il fatto che si fossero accaniti contro le cartoline che avevo incollato al muro. Le avevano stracciate, rese impossibili da recuperare. Perché? Nonostante mi sforzassi non riuscivo a trovare una spiegazione. Ero infuriato, mi sentivo umiliato come un cane bastonato. Quando andai a vedere cosa avevano combinato nelle altre celle scoprii, con sommo stupore, che avevano devastato soltanto quelle abitate da giovani come me. Da Roby il genovese, accusato di omicidio a scopo di rapina, si erano limitati a fare una ispezione sommaria senza arrecare il minimo danno».

I trasferimenti, appunto. A volte benedetti, a volte maledetti. Quando a San Vittore arriva un certo «signor Masu», la direzione decide il trasferimento di Umberto e dei suoi amici Walter, «Fedayn» e Maurizio. Masu viene considerato una spia, un «soffia», un infame e per questo le autorità carcerarie temono possibili rappresaglie durante l’ora d’aria. Ma Umberto ha un grande amico dietro le sbarre, uno pronto a fare letteralmente la rivoluzione per lui. Il suo nome è Gian Franco Bertoli. E’ apparentemente il più calmo e docile di tutti, ma quando Umberto gli racconta la storia del trasferimento, Bertoli chiama la guardia e il suo atteggiamento muta. «Senta», dice al superiore, «io sono ormai un ergastolano e non ho niente da perdere se invece di quattro morti ne faccio cinque o sei. Quindi se Umberto e compagnia lasciano il raggio, io alla prima occasione utile taglio la gola di chi ha permesso questo». La guardia capisce subito che non è uno scherzo. «Se Umberto e gli altri promettono di non fare rappresaglie», risponde, «io parlo con il capo e faccio sistemare tutto».

«GIAN FRANCO? È PIÙ SPIGLIATO DI UN ANTICO TOSSICOMANE DI BOMBAY»

E’ proprio grazie a questo rapido scambio di battute che non si concretizza alcun trasferimento. Tranne quello nella cella di Bertoli. «Quando ne ebbi i coglioni pieni per come ero costretto a lavorare, visto che mi pagavano 22 mila lire al mese», annota Umberto nel suo diario, «andai a farmi mettere nella cella degli ozianti. Andai da Gian Franco e dopo aver incassato la sua approvazione andai dallo scrivano che a sua volta mi mandò dalla guardia, la quale ovviamente negò il permesso di stare in cella con Bertoli. Mi disse di trovarmene un’altra, ma due giorni dopo Gian Franco mi venne a portare un foglio, firmato dal comandante, nel quale si dava ordine tassativo di farmi mettere in cella con lui. Ecco cosa cambia quando hai le spalle coperte».

La cella di Bertoli è la numero 31. E’ piccola e lugubre, ma ha quattro disegni eccezionalmente belli tra cui un «hippie» che suona la chitarra e un viso di donna che assume la tipica espressione della risata a crepapelle. Il terrorista della Questura di Milano sembra proprio un sentimentale. Venezia, in particolare, evoca in lui, quarantenne in un raggio pieno di ventenni, ricordi struggenti. A volte fa preoccupare tutti perché si sente poco bene, ma forse si tratta di uno strano modo di chiedere attenzioni. Fa quasi tenerezza per le sue piccole manie. A volte cucina i tortellini al sugo e mentre si mangia sembra preoccuparsi che possano non essere sufficientemente buoni. «Neppure mia madre ha avuto con me di questi sbattimenti», scrive Umberto, «tanto era ricca e faceva venire i piatti già cucinati! Gian Franco ha quarant’anni, ma credo sia in realtà più giovane di noi. Ed è più spigliato di un antico tossicomane di Bombay».

«MI SOGNO LE SIRINGHE ANCHE DI NOTTE. HO TANTA VOGLIA DI UN BEL BUCO DI EROINA»

I giorni passano, a San Vittore, e i nuovi arrivi non mancano. Tra gli ultimi ingressi si segnalano Antonio e «Claudio, il biondo». Sono due tossici e stanno male: la brusca astinenza dall’eroina li sta mettendo a dura prova. Anche Umberto, nei primi giorni di carcere, è stato malissimo: il medico, quando lo ha visitato, ha ordinato due fleboclisi immediate che però non sono mai arrivate. In compenso, dall’esterno, continua ad arrivare qualcos’altro. «Sembra strano», scrive Umberto nel diario, «ma nessuno può capire come ti tolga dalla merda un po’ di eroina. In fondo uno come me, che viene ripudiato dai genitori, che viene abbandonato da tutti, e ha passato ben tredici anni tra collegi e prigioni avendo solo ventitré anni, non vede molte alternative per potersi risollevare. Fare l’operaio per otto ore al giorno e passare il resto della giornata distrutto per la stanchezza? No, grazie. Non fa per me. In fondo ci vorrebbero sfruttare come servi della gleba. Guardate Bertoli: ha lanciato una bomba davanti alla questura perché non poteva crearsi un compromesso valido alla sua morale. Perché non ne poteva più di essere considerato inferiore a un qualsiasi ragioniere Rossi che per trent’anni ha leccato il culo al suo padrone solo per ritrovarsi una utilitaria e un appartamento in periferia. Io non ho scelto di buttare una bomba, ma mi sono creato il mio mondo artificiale. Ho trovato un compromesso più sottile, ma più efficace: la droga! Ho tanta voglia di un bel buco di eroina. Così tanta da sognarmi le siringhe anche di notte. Verrà presto il giorno che tornerò alle mie vecchie bombe endovenose. Quando morirò vorrei essere proprio seppellito con una siringa conficcata in vena. Che idea… sto proprio impazzendo qua dentro».

«NESSUNO SCRIVE E SENZA LA BELLEZZA DEL CIELO SERENO, PEGGIORA TUTTO»

Ultimi passi del diario di Umberto. «30 settembre 1974. Siamo alla fine del mese e sono le ultime giornate di sole. La vita trascorre lenta e ti fa notare ogni mutamento di ciò che avviene alle poche piante ancora esistenti. Non ricevo notizie esterne: mia madre non si degna nemmeno di scrivermi le parolacce. Nessuno che mi ricordi. Eppure avevo tanti amici, molte conoscenze. Domani ricominceranno le scuole anche per la mia sorellina Francesca. Non vedo l’ora di uscire e andare davanti a quel monumentale edificio di cultura e aspettare che esca. Mi ha sempre riempito di gioia andare a prenderla a scuola. Però c’è questa apatia che ti svuota. L’unica possibilità che ti lascia è quella di combatterla con letture poco impegnative: fumetti sexy e folli, rabbiose masturbazioni… Riescono a non farti pensare, a non notare la merda che ti circonda. Non siamo più essere umani, ma bestie lebbrose che possono attaccarti il morbo mortale. Dovremmo essere qui per capire i nostri errori? Boh, io finora sono riuscito a capire soltanto i loro. Cosa darei per un poco di eroina! Il profumo già mi farebbe risollevare da questo putridume che mi soffoca. La stagione sta cambiando. Da qui, senza più neppure la bellezza del cielo sereno, peggiora tutto. L’umore è a terra, solo l’affiatamento con Gian Franco riesce a farmi sbollire il nervosismo che mi frigge dentro. Nessuno scrive e tutto si fa buio».

Quando il dottor Antonino Mento, dirigente della polizia scientifica di Milano, viene avvisato del ritrovamento del corpo di un giovane ragazzo in un prato, nei pressi di via Don Sturzo a Cesano Boscone, la prima cosa che fa è quella di confrontare i segni presi dai tecnici della sua squadra, sulle mani del morto, con quelli raccolti nell’archivio della questura. La ricerca ha successo: risulta che il giovane era già conosciuto dalla polizia. Su uno dei fogli segnaletici vengono, infatti, trovate delle identiche impronte digitali. Non è certamente la prima volta che un ragazzo distrutto dalla droga muore così, senza un rifugio, senza nemmeno un soccorso quando anche gli ultimi compagni dei momenti di effimera gioia sono scomparsi. La conferma di questa nuova tragedia avverrà qualche giorno dopo a seguito di un esame necroscopico, già rimandato per la sosta di lavoro dovuta a un ponte festivo.