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Cultura di destra, neofascismo e anni di piombo: intervista esclusiva a Giampiero Mughini

Giacomo Di Stefano

Mughini è stato tra i primi giornalisti non schierati a destra ad approfondire il tema del neofascismo. Una ricerca che ha avuto il suo culmine in un documentario «cult», uscito nel 1980, intitolato «Nero è bello»

Giampiero Mughini non è solo un tagliente e sagace opinionista televisivo che polemizza – con un lessico forbito e un eloquio di altri tempi – con ex calciatori, politici, soubrette e giornalisti. La storia pubblica di Mughini affonda le radici negli anni Sessanta, quando da giovane giornalista è tra i fondatori de Il Manifesto (1969) e firma del giornale di Lotta Continua.

Prima di allora, da laureando in Lingue e letterature straniere, Mughini partecipa al maggio francese, nel cuore del movimento del Sessantotto. Sebbene il lato più noto della sua attività da intellettuale sia legata al distacco critico con il mondo della sinistra, Mughini è stato tra i primi giornalisti non schierati a destra ad approfondire il tema del neofascismo: l’antropologia, le idee, i volti, i simboli e le controversie di un mondo noto soltanto nelle cronache più drammatiche degli anni di piombo. Un approfondimento che ha avuto il suo culmine in un documentario cult, uscito nel 1980, intitolato «Nero è bello». Qui si vede lui, ex Lotta Continua, intervistare un ex di Ordine Nuovo come Pino Rauti. O visitare librerie di destra e parlare di questioni identitarie con giovani militanti di destra. A distanza di oltre quarant’anni da quel documento e nell’anno del suo ottantesimo genetliaco, Spazio70 ha fatto una chiacchierata con Giampiero Mughini sulla cultura di destra, su Piazza Fontana e sul terrorismo degli anni Settanta. Con dichiarazioni e prese di posizione spesso sorprendenti.

Nel 1980, il suo documentario «Nero è bello» ha fatto scalpore: per la prima volta, un intellettuale di sinistra parlava con militanti e politici neofascisti, frequentava i loro luoghi di aggregazione e indagava con piglio documentaristico su un mondo sconosciuto a chi non ne faceva parte. Come è nato quel progetto?

«C’era un fatto reale che stava accadendo ovvero la nascita di piccoli gruppi di intellettuali di destra che erano cresciuti non nel fascismo, ma nell’Italia repubblicana. Tra loro Stelio Solinas, Marco Tarchi, Umberto Croppi e molti altri ancora. Questi ragazzi rappresentavano una novità sulla scena politica e culturale e quando mi fu dato l’incarico dalla Rai di fare un documentario su questo mondo, capii che valeva la pena conoscere e indagare l’originalità di certe loro iniziative, come i Campi Hobbit»

Un prodotto televisivo, ricordiamolo, destinato alla prima serata. Un fatto notevole.

«Esattamente. Pensi se oggi in prima serata sarebbe concepibile mandare in onda un programma del genere. Fatto sta che quarant’anni fa, alle 20,30, sul secondo canale, tutta Italia poteva conoscere la storia di questi ragazzi. Con me c’erano il regista William Azzella e un montatore Rai che alle prime battute era molto diffidente sul progetto, visto che avevano un atteggiamento non aggressivo nei confronti dei ragazzi di destra, per poi ricredersi in un secondo momento fino a diventarne entusiasta»

Quali figure della destra dell’epoca rifiutarono di partecipare al documentario?

«Almirante si rifiutò di apparire, perché si immaginava un prodotto ostile. Idem Gianfranco Fini, allora segretario dei giovani missini e Maurizio Gasparri, più tardi divenuto un mio amico»

Pino Rauti però le disse di sì, visto che nel documentario appare…

«Sì, ma c’è un retroscena che vale la pena raccontare. Alla vigilia della proiezione, Rauti fece mandare dal suo avvocato una lettera in cui diffidava di utilizzare la sua intervista nel documentario. Ma io mi presi tutte le responsabilità della messa in onda con il direttore della rete. Morale della favola, il documentario alla fine non subì modifiche e dopo averlo visto Rauti mi mandò una lettera in cui mi definiva un avversario, ma leale»

In generale, quella che descrive appare come un’atmosfera di grande diffidenza.

«Questo era il clima che si respirava in quegli anni. Era impensabile che ci potessero essere dei ponti tra mondi fra cui vigeva l’incomunicabilità più totale. I ragazzi di destra e di sinistra si erano ammazzati nelle strade, i ragazzi della mia generazione, quella da cui è nato il terrorismo rosso e nero»

Anche a livello accademico, i primi studi sul MSI e sulla destra radicale fatti da studiosi non di destra risalgono alla fine degli anni Ottanta o agli anni Novanta, penso a Piero Ignazi o a Franco Ferraresi. Questo ritardo di comprensione, definiamolo così, anche alle più alte sfere intellettuali, ha avuto delle conseguenze politiche e culturali?

«Il tempo della guerra civile, quella del 1943-1945, ha avuto un secondo tempo psicotico negli anni Settanta, dove ragazzi dell’una e dell’altra parte si sono inventati un gioco al massacro che ha provocato tantissime vittime. Uno dei motti più agghiaccianti dell’epoca era “Uccidere un fascista non è reato”, molto in voga nei cortei dell’estrema sinistra. Quando il sangue ha finito di scorrere, e dunque negli anni Ottanta, è stato più agevole raccontare e studiare il mondo della destra radicale»

Poi è arrivato Berlusconi, che ha sdoganato politicamente i neofascisti.

«Silvio Berlusconi è il vero sdoganatore della destra neofascista. Un neofascismo che non era più quello dello squadrismo del 1919-1921, ma quello di Gianfranco Fini. E quello di Berlusconi lo ritengo un merito, perché quando devi fare uno sforzo di pacificazione e di comprensione serve qualche atto coraggioso. Il terzo millennio non poteva nascere sulle contrapposizioni degli anni Venti del Novecento»

Lei crede che ci sia stata una cultura di destra oppure no?

«Certamente c’è stata. Il fascismo stesso era, in origine, un movimento che aveva tanti intellettuali. Fiume, i futuristi, gli Arditi, Curzio Malaparte, Mario Sironi, Leo Longanesi, Luigi Pirandello, che si iscrisse al PNF addirittura dopo la morte di Giacomo Matteotti. Il fascismo è stato una cosa seria, un pezzo di storia d’Italia. Chi pensa di cavarsela trattando il fascismo come puro e semplice fenomeno di violenza, di randello e olio di ricino, non capisce nulla»

Almirante ha definito Julius Evola “il nostro Marcuse, ma più bravo”. Sono davvero accostabili Julius Evola e Herbert Marcuse o quella di Almirante è stata una forzatura?

(Ride).«Almirante faceva il propagandista per la sua parte politica. Evola è una figura molto interessante, io sono stato nella sua casa romana quando era già morto. Alle pareti c’erano le copie dei suoi quadri (Evola è stato un apprezzato pittore dadaista ndr) perché quelli originali se li era comprati l’editore trotzkista Arturo Schwarz. L’antisemitismo di Evola era evidente, anche se con una sfumatura non biologista ma di natura spirituale. Direi di lasciar perdere i paragoni con Marcuse, che non c’entrano nulla. Diciamo che Evola è un signore con cui si deve fare i conti, come in Francia non si possono dimenticare Pierre Drieu La Rochelle o Robert Brasillach. In Germania bisogna considerare personaggi come Ernst Junger o giganti come Martin Heidegger o Carl Schmitt. Tutti esponenti di quella che a tutti gli effetti si può definire una cultura di destra. Chi pensa, poiché di sinistra, di avere una superiorità intellettuale è un cretino»

Quindi è in disaccordo con le teorie di Furio Jesi, un altro pioniere dello studio della cultura di destra?*

«Sì, con tutto il rispetto per lo spessore del personaggio e per la sua tragica fine, sono in disaccordo con le conclusioni a cui è arrivato Jesi. Nonostante conoscesse bene la cultura di destra, lui aveva un atteggiamento di opposizione totale, come qualcosa che si dovesse solamente combattere e non anche capire. Ricordo che in occasione della morte di Jesi, un giovane esponente della destra missina, di cui non farò il nome nemmeno sotto tortura, mi disse: “Ben gli sta, a noi di destra ha augurato ogni male, quindi lo ricambiamo della stessa moneta”. C’era grande ferocia»

Quali sono stati i politici e gli intellettuali di destra che ha stimato maggiormente o con cui ha avuto anche un rapporto umano?

«Rauti lo conoscevo abbastanza bene. Oppure Paolo Signorelli, che difesi insieme ai Radicali quando era accusato di essere uno stragista. Infine citerei Pino Romualdi, un personaggio sicuramente significativo per la destra del dopoguerra»

Quali sono invece le figure più controverse del mondo della destra italiana del dopoguerra?

«Gli assassini. Quelli di Ordine Nuovo che hanno messo le bombe sui treni e sulle piazze. E sono stati parecchi. Franco Freda è stato sicuramente un teorico della delinquenza politica. Lui e Giovanni Ventura erano una bella coppia di farabutti. Ma non erano esponenti organici del Movimento Sociale Italiano»

Qual è la sua opinione sul mondo anarchico nelle fasi più dure della strategia della tensione? Il giudice Guido Salvini in un’intervista che mi ha rilasciato tempo fa lo ha definito un “mondo molto confuso e fluttuante”. È possibile, a suo avviso, che essendo per definizione realtà porose e prive di una solida organizzazione, i gruppi anarchici di fine anni Sessanta siano stati strumentalizzati o, al peggio, utilizzati?

«Possibilissimo. Che Pietro Valpreda non fosse un mostro di coerenza intellettuale mi pare evidente. Nel mondo anarchico c’era di tutto e la linea divisoria tra il fanatismo e la follia malefica non era di ferro. Gli anarchici hanno messo bombe per tutta la loro storia. Ma non avanzo ipotesi di cui non ho elementi. Certo, se un giorno mi dovessero dire che Valpreda c’entrava con le bombe, non mi stupirei»

Lei sulla strage di Bologna che idea s’è fatto?

«Non ho nessuna idea, ma sarà dura convincermi che i responsabili siano stati Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che conosco bene personalmente. L’idea che quella coppia sia andata a mettere una bomba in una stazione frequentata da donne e bambini mi sembra assurda. Loro hanno confessato tutto quello che di atroce hanno fatto, ma su Bologna hanno sempre respinto ogni accusa»

Cosa pensa della pista palestinese?

«L’ipotesi della pista palestinese mi sembra plausibilissima. Di amici dei palestinesi in Italia ce n’erano e ce ne sono tanti ed erano disposti a tutto»

E dell’ipotesi di un coinvolgimento di Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi nell’organizzazione della strage di Bologna?

«Mi viene da ridere, o forse da piangere. Un duetto straordinario: il gastronomo dell’Espresso e un collaboratore di Leo Longanesi che diventano stragisti. Baggianate che fanno spavento»

 

* Nel 1979, lo studioso Furio Jesi dava questa definizione della cultura di destra: «La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra»