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Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Il documento collettivo prodotto dal «Circolo 22 marzo»

Redazione Spazio70

Lo scritto vebbe pubblicato sul n.43 della rivista «Ciao 2001», 19 novembre 1969

«No. Il nostro gruppo non ha mai avuto né sedi né depositi di armi. La nostra azione si è svolta e si svolge solo ed esclusivamente in piazza e tra il popolo. Noi vogliamo abolire la dominazione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Vogliamo che gli uomini, uniti da una solidarietà cosciente e voluta, cooperino tutti volontariamente al benessere comune. Vogliamo che la società sia costituita allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani il massimo benessere possibile, il massimo sviluppo morale e materiale, la massima felicità individuale e immaginativa. Vogliamo per tutti pane, libertà, amore e scienza. Ci battiamo per una società veramente senza classi, che integri il lavoro manuale con quello intellettuale. Per il raggiungimento di questi scopi, sentiamo l’esigenza di una rivoluzione sociale che miri alla formazione nell’uomo, d’una coscienza individuale e collettiva, cioè determini l’autogestione della società da parte del popolo, mediante il rovesciamento di ogni forma di potere e autorità. Né dio, né stato, né servi, né padroni. Per questo ci battiamo.

«LA NOSTRA MATRICE IDEOLOGICA SI RIFÀ A BAKUNIN E PROUDON»

Prima di costituirci in gruppo operavamo già individualmente come rivoluzionari militanti e come anarchici inseriti nei vari movimenti di contestazione giovanile. La nostra matrice ideologica si rifà all’anarchismo, da Proudon a Bakunin; è necessario però un aggiornamento per comprendere la società odierna e il nemico che bisogna combattere. Potrebbe essere valida la definizione di “azione esemplare”, azione cioè che, anche partendo da un limitato gruppo di individui, riesce a coinvolgere il massimo numero di persone, e che, nello stesso momento in cui viene fatta, da se stessa è superata, perché indica a tutti quelli che vi hanno preso parte un altro obiettivo da colpire, un’altra azione esemplare da compiere che riesca a coinvolgere un numero sempre maggiore d’individui. In questo senso nasce e si sviluppa il nostro gruppo “22 Marzo”; accettando la prassi degli “arrabbiati” di Nanterre.

La teoria nasce dall’azione e non viceversa; dalla dinamica quotidiana della lotta del popolo, che vive e si organizza da sé, giorno per giorno, nasce l’unica valida teoria rivoluzionaria, accettata da tutti perché elaborata da tutti. E questa è una teoria che esclude il “teorico da tavolino”, il dirigente con “la linea politica in tasca”, il “sincero rivoluzionario” reso invincibile dal pensiero e dall’azione di altri; che esclude qualsiasi autorità, dottrina, dogma, che smaschera in continuazione tutte le tendenze borghesi, autoritarie e chiesastiche in chiunque (noi compresi). Il nostro gruppo si è mosso come base e mai autodefinendosi “avanguardia rivoluzionaria” sia nelle fabbriche, stimolando la libera discussione tra gli operai (solo in questo modo possono sorgere strutture capaci di contrapporsi efficacemente ai padroni), sia tra gli studenti, portando il discorso dei comitati di lotta, capaci di superare nelle loro azioni e discussioni la divisione tra studenti ed operai; sia nei comitati di quartiere sia nei comitati-inquilini per estendere la lotta, gestita dal popolo stesso, nell’ambito cittadino.

«NESSUN ORDINE PUÒ VENIRE DALL’ALTO»

Tutto questo, tenendo presente la reale volontà d’autogestirsi delle masse, in una visione dinamica del socialismo libertario, volontà che ha avuto le sue valide esperienze storiche, boicottate o distrutte dalla reazione autoritaria di destra o di sedicente sinistra: dalla Comune di Parigi ai consigli operai del 1919-1920 in Italia, dai Soviet in Russia alla socializzazione della Catalogna nel 1936, dalla comune dei cittadini e dei marinai di Kronstad al movimento ucraino della macknovicina, alle libere comuni agricole dell’Andalusia, fino alla autogestione in Francia di alcune fabbriche e quartieri durante il periodo Maggio-Giugno 1968. Ogni gruppo deve avere la più ampia libertà d’azione e di pensiero in seno al movimento rivoluzionario, pur tenendo presente una comune tematica. I gruppi di affinità, di intervento, di studio e di lavoro, si uniscono alla base tra di loro, per poi formare, in uno stadio più avanzato, le federazioni locali o provinciali ecc. Questo, beninteso, avviene per un semplice scambio di informazioni e con la massima “deburocratizzazione” possibile. Per quanto riguarda la vera organizzazione rivoluzionaria, potremmo descrivere il modello e il funzionamento nei minimi dettagli solo nel momento in cui le masse l’avranno realizzata. Purché non leda la libertà e il lavoro degli altri, il gruppo può svolgere la sua attività nella più completa autonomia.

Nessun ordine o direttiva può venire dall’alto mistificandosi dietro la volontà del popolo: niente strutture verticali; è solo la base e i singoli individui che sulle proprie esperienze, decidono il campo di intervento. Nessuno subisce il volere ed il potere della maggioranza; le minoranze o i singoli gruppi possono esprimersi in piena autonomia e libertà scegliendosi la propria linea di condotta. Solo così ogni individuo e gruppo esprime autenticamente se stesso in una dinamica che va dal tema economico al tema sessuale, senza paura da parte di sedicenti funzionari partitici che intendono sempre interpretare, parlare ed agire in nome degli altri. In senso libertario, il concetto di felicità presuppone la fine dell’alienazione e dell’angoscia esistenziale, ciò che in termini di struttura socio-economica equivale alla fine del potere dell’uomo sull’uomo. Non bisogna d’altra parte pensare che la felicità possa essere un’acquisizione di tipo meramente biologico e naturistico, poiché in tal caso non di felicità si tratterebbe, bensì di evasione nella sfera degli istinti e della natura semplicemente animale dell’uomo. In altri termini, un concetto moderno di felicità, non può eludere l’altro concetto, quello di coscienza, di coscienza della felicità. La felicità non può essere un dono elargito alle masse, come certuni pretendono; non può essere una conquista cieca e mitica, dietro i simboli del nuovo autoritarismo o di un diverso ma sostanzialmente antico fideismo. Non basta infatti sostituire i simboli della “felicità” della società dei consumi, con i simboli della “felicità” futura promessa dal “Maotsetungpensiero”, non basta una bandiera o un credo assoluto per realizzare in terra quella felicità, quel paradiso, che altre religioni trasferiscono nelle sfere celesti. Tuttavia, la felicità non è nemmeno l’affermazione egoistica della biologia, istintuale tensione verso il piacere. La felicità nasce da una gestazione e da una presa di coscienza e può essere una felicità dolorosa, e cioè profondamente umana. Noi non respingiamo il dolore che proviene dall’accertamento della verità; non respingiamo la dialettica, per limitarci ai dogmi e alle inutili “certezze” di coloro che sanno già tutto e ritengono di essere felici, di poter così elargire tale felicità dottrinaria al popolo diseredato.

«IL CONCETTO LIBERTARIO DI FELICITÀ E’ UN CONCETTO APERTO»

La felicità è riconquista della natura umana, sottratta all’ambiguità e all’astuzia intellettuale, alla corruzione etica e colta; è libertà dei rapporti umani e sociali, al di là non solo delle convenzioni ma anche come responsabilità nei confronti della specie. Non è l’accettazione supina del costume delle classi in decadenza, ma la costruzione di un modo di essere diverso, che non sia compiacimento cerebrale verso il piacere, ma senso nuovo che si rivela all’uomo e di cui prende coscienza assieme agli altri problemi. La morale borghese collega il problema della felicità al problema del potere e del successo: si è felici se si può esserlo; l’anarchismo capovolge i termini del problema: la questione della felicità umana non è più qualcosa che presupponga necessariamente vinti e vincitori, vittime e carnefici, oppressi e despoti, non è più qualcosa che riguardi il potere e la ricchezza, bensì la libertà diventa autocoscienza, per la quale i rapporti individuali (tra uomo e donna, per esempio) divengono realmente nuovi, basati su ciò che è di reciproco interesse, e non sono più basati sulla disuguaglianza, sulla forza, sul denaro.

Per concludere, il concetto libertario di felicità è un concetto aperto, disponibile cioè all’evoluzione dei rapporti umani, sulla base delle reali esigenze dell’uomo storico che non è il cavernicolo dell’età della pietra o il felice autoctono dell’Amazzonia ma l’essere che conosciamo e che si è formato nel corso della storia della civiltà e della cultura: un tipo di felicità, dunque, che è a un tempo biologica, culturale e scientifica».