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L’ascesa criminale di Giuseppe Mastini, alias «Johnny lo Zingaro»

Matteo Picconi

Una vita segnata fin da giovanissimo: furti, rapine, evasioni e il primo omicidio commesso a soli quindici anni nel dicembre del 1975

Dannati, spietati, intraprendenti e spregiudicati, di bell’aspetto o dal passato difficile: nella storia della criminalità comune ci sono dei personaggi che sembrano usciti dal cast di un film d’azione, capaci di affascinare il grande pubblico, a volte riuscendo addirittura a mettere in secondo piano il fatto di essere dei malavitosi o, talvolta, degli assassini. Di personaggi così se ne possono citare molti: da Pietro Cavallero a Ljubisa «Manolo» Vrbanovic, da Vallanzasca al «lupo» Luciano Liboni. Tra questi non manca di certo all’appello Giuseppe Mastini, meglio conosciuto come «Johnny lo Zingaro», di recente tornato alle cronache per una delle sue rocambolesche imprese, ossia l’evasione (l’ennesima) dal carcere sardo di Bancali, avvenuta nel settembre del 2020, quando l’ormai sessantenne, già condannato all’ergastolo, non è rientrato allo scadere di un permesso premio salvo poi essere riacciuffato insieme a due complici nell’immediata periferia di Sassari due settimane dopo.

La storia di Mastini è nota: in molti lo ricordano per la lunga scia di sangue e violenze lasciata in occasione di un’altra lunga e drammatica fuga, nel corso del 1987, culminata dapprima con l’uccisione dell’agente Michele Giraldi e poi con l’omicidio (mai confessato dal bandito) del console italiano in Belgio Paolo Buratti avvenuto nella villa di quest’ultimo a Sacrofano, a nord della Capitale. Ma la storia di Johnny lo Zingaro parte da lontano, all’alba degli anni Settanta, nelle periferie est di Roma, quando fin da giovanissimo si rende protagonista di una lunga serie di reati che lo portano ben presto nel carcere minorile di Casal del Marmo.

1973, BATTESIMO COL SANGUE

L’Unità sull’episodio riguardante Mastini e Cannavò il 14 gennaio 1973

Giuseppe Mastini nasce a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, il 6 febbraio 1960. Si sa veramente poco della sua primissima infanzia in nord Italia: i Mastini sono una larghissima famiglia di etnia sinti e i genitori di Giuseppe sono giostrai, girovaghi, che difficilmente si fermano a lungo in un posto. Tuttavia nel 1970 si stabiliscono nella Capitale, sistemando giostre e roulotte dalle parti della stazione Prenestina, tra via di Portonaccio e il quartiere popolare di Villa Gordiani. Ed è nelle borgate sparse tra la Prenestina e la Tiburtina che il piccolo Mastini, un ragazzino vivace con la venerazione per lo zio capoclan, brucia le tappe nel mondo della microcriminalità. Le giostre, infatti, gli vanno strette e ben presto entra in contatto con altri «ragazzi di vita». Per tutti è semplicemente Johnny – il soprannome «zingaro» gli verrà attribuito successivamente dai media – che a soli undici anni si mostra abilissimo nel rubare le auto e, soprattutto, nel guidarle.

«Sua madre lo conosceva bene, gli infilava dei soldi nella tasca prima di uscire. Il denaro», si legge in Johnny lo Zingaro: è soltanto un giro di giostra (Sovera Edizioni, 2018) scritto da Renilde Mattioni, in collaborazione proprio con Giuseppe Mastini, «non mancava mai, anche se la vita che conducevano era da poveri (…). Tra i coetanei era il più scaltro, ma la povera donna non si dava pace. Johnny lo sentiva dentro le ossa il suo bisogno di scalciare sempre, da quando era nato. Irrequieto, indomabile. Inutile continuare a mettere i soldi nelle tasche, non avevano odore né valore. Lui guardava altrove. Non era questione di ricchezza, era piuttosto una questione privata di rivalsa e di potere che gli chiudeva la bocca dello stomaco e lo faceva scendere per la strada ogni giorno a combattere la sua guerra. Era quella vita, la sua, l’unica che conosceva».

Su Giuseppe Mastini è stato scritto moltissimo. Tanto in rete quanto nelle pubblicazioni giornalistiche o letterarie, sulle sue note biografiche, il primo arresto viene fatto risalire al 1971 quando all’età di soli undici anni si sarebbe reso responsabile di una sparatoria con la polizia nella quale avrebbe riportato la ferita alla gamba (un particolare che tornerà spesso in altre vicende giudiziarie) che lo renderà claudicante per tutta la vita. In realtà, l’evento in questione non risale al 1971 bensì al 13 gennaio 1973. Quella notte oltre a Johnny ci sono altri due ragazzini di borgata: Salvatore Cannavò, undici anni, e Luigi Agostini, tredici anni. Intorno alla mezzanotte i tre rubano una BMW in zona Centocelle e cominciano a scorrazzare per la città. La segnalazione scatta grazie a un benzinaio in servizio sulla via Tiburtina al quale i ragazzini non pagano la benzina. Le fonti giornalistiche sono discordanti su chi fosse alla guida: per L’Unità è proprio Mastini, mentre il Corriere della Sera indica invece l’undicenne Cannavò, il quale, nonostante la giovane età, si è reso già protagonista di due episodi simili nei mesi precedenti. Intorno alle 2.30 i tre vengono intercettati dalle forze dell’ordine. Segue un rocambolesco inseguimento, con posti di blocco forzati ad altissima velocità, conclusosi con le maniere forti in zona Pietralata ben due ore più tardi.

«Un sottoufficiale di polizia», si legge sull’edizione del Corriere della Sera del 13 gennaio 1971, «ha sparato contro un’auto rubata da tre ragazzini e ne ha ferito uno durante la drammatica caccia alla macchina lanciata a tutta velocità (…). Cannavò e il suo amico Luigi Agostini sono stati bloccati mentre il terzo, Giuseppe Mastini, riusciva a far perdere le tracce. Solo questa mattina è stato rintracciato in un accampamento di zingari, accampati alla periferia della città. Il ragazzo ha una ferita a una gamba, che era stata medicata alla meglio. Il colpo esploso dal sottoufficiale lo aveva raggiunto, fortunatamente, senza conseguenze troppo gravi».

La notizia fa scalpore, ma i quotidiani si concentrano principalmente sul più giovane della compagnia, Salvatore Cannavò, il «pilota prodigio», mentre sul ferimento di Mastini L’Unità parla addirittura di «episodio gravissimo» condannando la brutalità degli agenti responsabili di aver sparato a degli adolescenti. Quasi tre anni più tardi Johnny torna nuovamente alle cronache, ma i toni dei media non saranno certo gli stessi.

CASO BIGI, UN DELITTO INSPIEGABILE

Da sinistra Giuseppe Mastini, Mauro Giorgio e la vittima Vittorio Bigi

Nel corso del 1975 Giuseppe Mastini viene arrestato in due occasioni per furto e, in seguito alla seconda detenzione nel carcere minorile di Casal del Marmo, viene rimesso in libertà all’antivigilia di capodanno. La sera seguente, il 30 dicembre, è in compagnia di Mauro Giorgio, per gli amici «Mauretto», un coetaneo residente nella lontana borgata La Rustica, situata lungo la via Collatina. I due passano la serata nel popolare rione di Trastevere; bevono, forse (come ammetteranno più avanti) assumono sostanze stupefacenti, e sul finire della serata decidono di tornare alle vecchie abitudini.

Mezzanotte, piazza Mastai. Mastini e Giorgio prendono un taxi chiedendo di essere portati a Lunghezza, a est di Roma. Una volta giunti a destinazione il tassista, Domenico Ialungo, sente una automatica calibro 22 puntata alla tempia. A impugnarla è proprio Johnny che gli intima di scendere dall’auto. Percosso e rapinato delle poche lire che aveva con sé, Ialungo viene lasciato a terra mentre i due ragazzi salgono a bordo del taxi e si dirigono nuovamente verso la Capitale. Quando si allontanano Mastini spara due colpi in aria dal finestrino dell’automobile; a confermarlo sono i bossoli rinvenuti nell’abitacolo del taxi che viene ritrovato la mattina seguente in fondo a via dei Monti di Pietralata, tra le borgate di Casal Bruciato e Casal Bertone, a circa seicento metri dalla rimessa ATAC di via di Portonaccio.

«In via dei Monti di Pietralata», riporta L’Unità nell’edizione del 14 gennaio 1976, «avviene l’incontro con Vittorio Bigi che era sulla sua 128 ed aveva lasciato da pochi minuti il deposito ATAC di Portonaccio, diretto a casa, a Montesacro alto. I due giovani avrebbero fatto lampeggiare i fari del taxi inducendo Bigi a fermarsi. “Ci si è fermata la macchina, ci dai un passaggio?” e Vittorio Bigi non ha avuto esitazioni a farli salire».

Una gentilezza che il trentottenne dipendente dell’ATAC paga molto cara. Arrivati in un tratto isolato della poco distante via delle Messi D’Oro, in zona Pietralata, Johnny gli punta la pistola alla tempia e, come fatto poco prima con Ialungo, lo fa scendere dalla vettura. Ma in questo secondo tentativo di rapina qualcosa va storto. Condotto in un buio campo di cavoli lontano dalla strada, il Bigi, a cui vengono sottratte diecimila lire e un orologio «Timex», per due volte cerca di sottrarsi alle violenze dei due giovani: la prima volta viene rincorso e nuovamente picchiato; il secondo tentativo di fuga, invece, gli è fatale. Il trentottenne viene raggiunto da due colpi di pistola, una alla schiena, il secondo alla testa, morendo sul posto. La sua 128 viene data alle fiamme e ritrovata in via Dameta (a pochi passi da casa di Mauro Giorgio). Sempre nelle vicinanze viene ritrovato anche il suo orologio, poi regolarmente denunciato da un residente.

Per una settimana i familiari di Vittorio Bigi, sposato con due figli, non sapranno nulla. Poi, il 6 gennaio 1976, il macabro ritrovamento a Pietralata. Inizialmente la soluzione del caso appare difficilissima. La vita del giovane dipendente dell’ATAC è irreprensibile: non ha nemici bensì una famiglia normale, perfino un secondo lavoro. Poi la svolta investigativa con le testimonianze di Ialungo e di altri due tassisti che, pochi giorni prima, hanno subìto lo stesso tipo di rapina da due giovani che, presumibilmente, possono essere Mastini e Giorgio. Nei loro racconti emerge che in una di queste rapine i due banditi erano accompagnati dalle rispettive fidanzate; spunta fuori anche un nome, Stefania, di anni tredici. Non trovando i due sospettati, il 13 gennaio le forze dell’ordine si recano a casa di questa ragazza, residente in via Diego Angeli, a Casal Bruciato, e trovano proprio Mauro Giorgio che viene subito tratto in arresto.

Il giovane della borgata La Rustica confessa subito e indica il suo amico come l’autore materiale dell’omicidio di Bigi. Mastini intanto si rende irreperibile. Il padre, Andrea, dichiara di non vederlo da molto tempo. Braccato, con la sua foto segnaletica su tutti i giornali, Johnny si costituisce il 16 gennaio 1976 con il suo legale, per l’occasione la celebre avvocatessa Maria Causarano. Inizialmente anche lui prova a scaricare la colpa su Mauro Giorgio, ma alla fine confessa l’omicidio; un delitto inutile, inspiegabile, che il giovane non riesce a motivare se non perché spinto dall’eccessivo uso di droghe. A Casal del Marmo per lui si spalancano nuovamente le porte; questa volta, però, non sarà un soggiorno breve.

SOGGETTO SOCIALMENTE PERICOLOSO, LA PRIMA EVASIONE

Ritaglio del Corriere della Sera sull’evasione da Casal del Marmo di Mastini e Giorgio nel febbraio 1976

Ladro, rapinatore, violento, ora anche assassino. La «specialità della casa», quando si parla di Johnny lo Zingaro, è però senza dubbio l’evasione. Se ne conteranno sette nel corso di quattro decenni, ma sono le prime due (da minorenne) a essere considerate le più clamorose. La prima avviene nella notte tra l’1 e il 2 febbraio 1976, appena due settimane dopo essersi costituito per l’omicidio Bigi, quando Giuseppe Mastini si rende protagonista di una fuga dal carcere minorile insieme a Mauro Giorgio e ad altri tre diciassettenni, ossia Franco Mazza, Claudio Casaroli e Fabrizio Mancinesi.

«Era quasi l’una di notte», riporta il Corriere della Sera del 2 febbraio 1976, «e i cinque detenuti hanno bussato alla porta della loro cella. All’agente di custodia hanno chiesto di aprire perché dovevano andare al gabinetto. La guardia, Franco Stassi, senza pensarci due volte, ha fatto ruotare la chiave della serratura. Improvvisamente i cinque gli sono piombati addosso, sospingendolo dentro la cella. Lo hanno rinchiuso e poi sono scesi rapidamente al piano di sotto. Sul loro cammino si è frapposta un’altra guardia, Mario D’Achille. I banditi se ne sono liberati colpendolo con spranghe di ferro. Ultimo ostacolo il cancello esterno. Per farlo aprire i cinque hanno picchiato l’altro agente di custodia».

Un’evasione da Casal del Marmo, all’epoca, «non fa più notizia» come si legge sul medesimo articolo del Corriere. Ciò che colpisce, infatti, non è tanto l’inadeguatezza della struttura o la carenza del personale, quanto l’incredibile brutalità con la quale i cinque minorenni si sono liberati di ben tre agenti di custodia. Per buona parte dei quotidiani, inoltre, a guidare il piccolo commando è sempre lui, Johnny; qualche cronista comincia a chiamarlo «lo Zingaro», nomignolo che lo accompagnerà fino ai nostri giorni. È lui, insomma, la mente del piano di fuga, il ragazzo analfabeta, senza fissa dimora, criminale puro, che dal carcere descrivono come soggetto imprevedibile e violento, «socialmente pericoloso».

C’è anche un’altra particolare versione sulla prima evasione di Mastini e a fornirla è un nome importante della malavita romana di quegli anni, ossia Maurizio Abbatino. In «La verità del Freddo», il libro intervista realizzato con la giornalista Raffaella Fanelli, il Crispino racconta di essere stato coinvolto in prima persona nella tanto rocambolesca, quanto casuale, fuga dal carcere minorile romano:

«L’ho conosciuto. Sono stato io a farlo evadere da Casal del Marmo (…). Ma non era lui che volevo far evadere, bensì Franco Mazza, detto il “Monchetto”. Era uno in gamba, promettente… Lo volevo nella banda. Ne parlai con Giuseppucci, che riuscì a farmi avere un incontro col ragazzo attraverso Monsignor Agostino Casaroli. Fu il Monsignore ad aprirmi le porte del carcere minorile di Casal del Marmo. Pochi giorni dopo, Franco il “Monchetto” scappò portandosi dietro Johnny lo Zingaro e il suo complice, Mauro Giorgio, quello con cui aveva ucciso l’autista (…). Dormirono tutti e tre in un appartamento che avevo trovato alla Magliana. La mattina dopo, lo Zingaro e il suo amico se ne andarono, con la testa rasata a zero per non essere riconosciuti».

Con un processo per omicidio in itinere, Johnny Mastini viene persuaso dai familiari a rientrare in carcere. Sia per lui che per Mauro Giorgio, infatti, la fuga non dura neanche ventiquattro ore: si consegnano la notte dello stesso 2 febbraio. «È nato tutto per uno scherzo», si legge sempre sul Corriere della Sera il 3 febbraio che riporta le dichiarazioni dei due ragazzi, «ci siamo lasciati prendere la mano. La nostra fuga non era stata organizzata». Nessuno ovviamente crede alla casualità della loro evasione. Ad attenderli fuori dal carcere minorile gli agenti hanno visto una macchina (una Renault rossa); essendo però in troppi, risulta che due dei cinque evasi abbiano perfino dovuto ricorrere al furto di una Fiat 500, parcheggiata poco distante. Ma non è soltanto l’imminente processo Bigi a preoccupare lo zingaro: in quei giorni Mastini viene accostato a un altro caso giudiziario che ancora oggi fa discutere e sul quale, ritengono in molti, ancora non si è giunti a una verità.

JOHNNY, «PINO LA RANA» E PPP

Mastini Pelosi Pasolini

Prime ipotesi di un legame tra Mastini e Pino Pelosi in relazione al delitto Pasolini

«Chiunque si occupi del delitto Pasolini», scrivono Simona Ruffini, Stefano Maccioni e Valter Rizzo in Nessuna pietà per Pasolini, uscito nel 2016, «non può non imbattersi nella figura di Giuseppe Mastini detto Johnny lo Zingaro».

Com’è noto a molti, per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, uno dei maggiori intellettuali del Novecento, Pino Pelosi è stato riconosciuto come l’unico responsabile. Una storia che non ha mai convinto del tutto: diversi indizi, mai del tutto smentiti nel corso della lunga vicenda processuale, hanno in più riprese dimostrato che «Pino la Rana», all’epoca diciassettenne, non poteva aver agito da solo all’Idroscalo di Ostia. La complicità di ignoti, insomma, non è mai stata del tutto esclusa, ma sono in molti a ritenere che le indagini su questi ultimi non siano mai state portate a termine fino in fondo.

La «pista Mastini» viene intrapresa qualche giorno dopo la sua evasione da Casal del Marmo. Proprio in quei giorni, infatti, si apre il processo Pasolini con Pelosi unico imputato. I primi a sottolineare alcune similitudini tra il caso Bigi e il delitto di Ostia sono proprio i media: tanto per le dinamiche dell’omicidio, quanto per i suoi protagonisti, molti cronisti evidenziano il fatto che i due delitti siano maturati nello stesso ambiente. Successivamente emerge, inoltre, che Pino e Johnny si conoscono molto bene, frequentano lo stesso circolo di via Donati, a Casal Bruciato, sede dell’Unione Monarchica Nazionale (di fatto una bisca di quartiere), e condividono qualche mese di detenzione a Casal del Marmo.

Intuizioni che si trasformano ben presto in potenziali indizi. Il 14 febbraio 1976 vengono tratti in arresto i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, giovanissimi, rispettivamente di quindici e tredici anni. La loro cattura è frutto dell’operazione di un carabiniere infiltrato, Renzo Sansone, appartenente alla Compagnia Carabinieri di Monterotondo coordinati dal comandante Giuseppe Gemma. Le informazioni raccolte da Sansone potrebbero riaprire il caso e chiamano in causa proprio Giuseppe Mastini.

«A tirarli in ballo», scrive in La macchinazione (Rizzoli, 2015) lo scrittore e regista David Grieco, «è un carabiniere, Renzo Sansone, infiltrato in mezzo a un gruppo di balordi della borgata di Casal Bruciato. Sansone ha riferito che Giuseppe Borsellino gli avrebbe detto in confidenza di aver partecipato all’uccisione di Pasolini insieme a suo fratello e a un altro ragazzo che si fa chiamare Johnny lo Zingaro. In commissariato, però, i fratelli Borsellino smentiscono Sansone. Ammettono di aver raccontato ciò che riferisce il carabiniere, ma garantiscono che l’hanno detto soltanto per “vanteria”, nel tentativo di apparire, agli occhi di Sansone, criminali di grosso calibro».

Una volta appurato che Johnny e Pino la Rana si conoscono benissimo, sono sostanzialmente due gli indizi che portano a individuare una eventuale complicità del primo nell’omicidio Pasolini. Innanzitutto l’anello che Pino Pelosi ha smarrito sul luogo del delitto: inizialmente il presunto assassino nega la provenienza di quell’anello, regalatogli proprio dal Mastini. Di qui, il primo tentativo di voler a tutti i costi scagionare lo zingaro da qualsiasi partecipazione ai fatti dell’idroscalo. Il secondo indizio è il plantare ritrovato nell’abitacolo dell’auto dell’intellettuale: non appartiene con certezza né all’assassino né alla vittima; potrebbe invece essere di Giuseppe Mastini, che abitualmente lo utilizza da quando è stato ferito dalle forze dell’ordine nel già citato episodio del 1973. L’agguato all’Idroscalo di Ostia, inoltre, avviene nella notte tra il primo e il 2 novembre 1975 e Johnny, in quel frangente, risulta essere a piede libero (viene nuovamente tratto in arresto per furto il successivo 6 novembre).

A tirare in ballo Mastini c’è un’altra controversa versione dei fatti che ruota tutta attorno a un altro personaggio piuttosto misterioso che, forse, ha recitato un ruolo chiave nella tragica notte del 1975: Antonio Pinna, classe 1942, all’epoca un giovane pregiudicato di Monteverde. Il giorno in cui i carabinieri arrestano i fratelli Borsellino, Pinna fa perdere definitivamente le sue tracce. Secondo le indagini condotte spontaneamente dal pittore Silvio Parrello, anche lui residente al quartiere Monteverde (recitò nel ruolo de «er pecetto» nel film Ragazzi di vita), Antonio Pinna avrebbe partecipato insieme ad altre persone all’agguato dell’Idroscalo. Nel 2017, durante l’ennesima evasione di Johnny lo Zingaro, Parrello ottiene una testimonianza eccellente: presso la sua bottega di via Ozanam si presenta il quarantenne Antonio Pinna jr, nipote omonimo del pregiudicato, il quale gli svela particolari clamorosi sulla vicenda Pasolini.

«Ciao Silvio, io sono Antonio Pinna», riporta il dialogo sempre David Grieco su Globalist.it il 30 giugno 2017: «Mio zio quella notte era all’Idroscalo. E la macchina che ha ucciso Pasolini era la sua. Però non c’era lui al volante. C’era Johnny lo Zingaro…».

Il processo Pasolini è stato riaperto diverse volte, ma non si è mai arrivati a individuare e incriminare altri responsabili che quella notte parteciparono all’atroce delitto. L’indiretta rivelazione di Pinna non avrà valore probatorio finché quest’ultimo non rientra in Italia. Per l’avvocato Nino Marazzita, che dal 1987 rappresenta la difesa dei familiari di Pasolini, Giuseppe Mastini è senza dubbio la chiave di volta di tutta la vicenda: «Aveva un legame con Pelosi che nessuno ha mai voluto approfondire», si legge sul IlDubbio.it il 21 dicembre 2017, «la Procura non voleva la verità».

FUGA DA L’AQUILA, LA CONDANNA PER L’OMICIDIO BIGI

Mastini processo Bigi 1977

Ottobre 1977, Johnny Mastini in aula al processo Bigi

1977, Mastini ha diciassette anni e alle spalle una dozzina di reati che vanno dalla rapina all’omicidio. È un detenuto difficile, ad alto rischio, e dopo un nuovo tentativo d’evasione da Casal del Marmo, nel marzo del 1976 (fallito), viene trasferito dapprima nella sezione minorile dell’Ucciardone, a Palermo, e in seguito (9 settembre 1977) nella prigione-scuola dell’Aquila, struttura contigua al vecchio carcere di San Domenico, ritenuto quantomeno idoneo a contenere il ragazzo per qualche settimana, con il processo Bigi ormai alle porte. Ma la notte del 24 settembre 1977 Johnny Mastini colpisce ancora. Con lui evadono in cinque, tutti diciassettenni: Giuliano Febo, originario di Pescara, e quattro romani, Marco Corbelli, Marcello D’Alessandro, Aurelio Chimenti e Massimo Leone (quest’ultimo, però, si riconsegna poche ore dopo l’accaduto). Rispetto all’episodio di Roma, il piano di fuga è ben architettato.

È da poco passata la mezzanotte quando i due agenti di custodia, Giuseppe Simone e Antonio Pellecchia, lasciano il loro posto di guardia per soccorrere un ragazzo che si mette a gridare per un malore improvviso. È il segnale atteso: Mastini e Febo, compagni di cella, forzano le sbarre con un crick per automobili (non è stata fatta chiarezza sulla provenienza dell’oggetto). Una volta fuori dalla loro cella aggrediscono con una spatola per muratori i due agenti tornati alla loro postazione, li legano e li imbavagliano. Dopo aver preso possesso delle chiavi aprono tutte le celle del settore, ma a seguirli sono solo in quattro. Qui un altro colpo di scena: nella loro cella Febo e Mastini hanno sfondato parte del soffitto che dà sul tetto della struttura e una volta fuori, con gli altri fuggitivi, si calano nel cortile col più classico dei sistemi, un’improvvisata corda di lenzuoli legati l’un l’altro. Dopo aver eluso con facilità la sorveglianza dell’agente esterno, raggiungono un distributore di benzina, rubano un’automobile e lasciano il capoluogo abruzzese. L’allarme viene lanciato solo due ore più tardi, quando i due agenti riescono a liberarsi.

Tutti gli evasi si ripresentano spontaneamente in carcere nel giro di una settimana. Tutti tranne Johnny. Perfino il padre lancia un pubblico appello al figlio affinché si costituisca. Proprio in quei giorni, i genitori di Mastini vengono ascoltati dai professori Bollea e Ferracuti, incaricati di predisporre una nuova perizia psichiatrica sul figlio in vista dell’imminente processo Bigi. Lo zingaro questa volta non si presenta e aggrava la sua situazione: viene intercettato e arrestato dieci giorni dopo nella Capitale, sulla via Casilina, a bordo di una Fiat 500 rubata poco prima. È l’ultimo colpo di coda di Johnny, da minorenne.

Il 23 ottobre 1977, nel corso della quarta udienza del processo Bigi, viene esaminata la seconda perizia psichiatrica dei due imputati. Rispetto alla prima, risalente a un anno e mezzo prima, la posizione di Mastini cambia nettamente. Quando vennero arrestati, sia lui che Mauro Giorgio furono considerati immaturi e quindi non imputabili di omicidio in quanto incapaci di intendere e di volere; nella seconda perizia, invece, i già citati Ferracuti e Bollea traggono le seguenti conclusioni, riportate in parte dal Corriere della Sera il 24 ottobre 1977: «Gli imputati sono due tipici esempi di sottocultura di borgata, una coppia in cui le decisioni e l’agire hanno il carattere di un gioco grave e pericoloso, ma vissuto senza adeguata percezione della sua antisocialità e senza una vera e coerente pianificazione criminale».

Una perizia che, di fatto, tiene conto della pericolosità sociale dei due giovani. Per Johnny lo Zingaro, inoltre, già esecutore materiale dell’omicidio, grava l’aver commesso altri reati, da detenuto e non, nel periodo successivo al delitto. La sentenza del 29 ottobre seguente toglie ogni dubbio: undici anni a Mastini, tre a Giorgio. Quattro mesi dopo, raggiunta la maggiore età, per Johnny si aprono le porte del carcere romano di Rebibbia e non si riapriranno più per altri dieci anni. Poi, nel 1987, arriva il primo permesso premio, ottenuto per buona condotta: per Johnny Mastini, a un anno dalla fine della pena, si presenta l’occasione per cominciare a ricostruirsi una vita, un’esistenza normale. Invece evade, un’altra volta, lasciandosi dietro una lunga scia di rapine, un sequestro di persona e due omicidi. Di qui la famosa caccia all’uomo nelle campagne di Monterotondo, alla periferia di Roma, l’arresto e la condanna all’ergastolo, che mette la parola fine ai sogni di libertà dello «zingaro», a cui resta sempre e solo una possibilità: fuggire. Evade infatti altre volte. Probabilmente non smetterà mai di provarci.