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Il Gattopardo vaticano: la scomparsa di Emanuela Orlandi (prima parte)

Tommaso Nelli

«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Una frase-simbolo, quella de «Il Gattopardo», che ben si presta per sintetizzare la vicenda della quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983

«Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» dice Tancredi Falconeri allo zio, il principe Fabrizio Salina, mentre la Sicilia è prossima all’annessione al neonato Regno d’Italia. E la frase-simbolo de Il Gattopardo ben si presta anche per sintetizzare il mistero di Emanuela Orlandi. Perché sulla sorte di quella quindicenne cittadina vaticana, figlia (la quarta di cinque) di un commesso della Prefettura della casa pontificia e di una casalinga, nei decenni sono fiorite le piste più disparate e suggestive, che però non hanno mai spostato l’inerzia dei fatti dalla sera della sua scomparsa: il 22 giugno 1983.

UN DRAMMA IMMERSO NEL SILENZIO

Emanuela Orlandi

Roma, corso Rinascimento. Siamo nel pieno centro storico della città più grande e popolosa d’Italia, trafficato a ogni ora del giorno e della notte da turisti, cittadini, politici (c’è la sede del Senato della Repubblica), auto e mezzi pubblici. Sono trascorse da poco le 19 quando Emanuela Orlandi si dirige alla fermata dell’autobus situata all’inizio del corso, di fronte al Senato della Repubblica. È insieme ad altre ragazze, alcune più grandi di lei, altre coetanee, tutte accomunate dalla frequentazione della scuola di musica Tommaso Ludovico Da Victoria, allora situata nella vicina piazza S. Apollinare nell’edificio oggi sede della Pontificia Università della Santa Croce (l’ateneo dell’Opus Dei), dalla quale sono uscite da pochi minuti al termine delle lezioni. Alcune di loro salgono sui rispettivi autobus per fare ritorno a casa, lei no. Rimane a terra. E non è sola, come ricorda ai Carabinieri il successivo 29 luglio una studentessa della scuola presente alla fermata, Maria Grazia Casini. «[…] Emanuela […] già si trovava sul posto unitamente a un’altra ragazza di cui non ricordo il nome, ma posso dire che quest’ultima frequenta la scuola di musica». Sono le ultime notizie che abbiamo di lei. Sembra impossibile sparire in un luogo del genere nei giorni del solstizio d’estate, dove il sole tramonta alle 21, eppure il nome di quell’adolescente dall’espressione gioviale e dall’amore per la musica diventa, fin da subito, sinonimo di depistaggi e dolore.

Pur escludendo il movente a scopo di estorsione – le condizioni economiche della famiglia non avrebbero potuto sostenere il pagamento di un riscatto – il dramma risulta comunque anomalo perché, al netto degli sciacalli, è immerso nel silenzio. A interromperlo, quattro telefonate a casa Orlandi, tra il 25 e il 28 giugno, prospettanti un’altra ipotesi inverosimile: l’allontanamento volontario. A effettuarle, due personaggi ambigui e mai identificati se non per i loro nomi: «Pierluigi» e «Mario». Almeno così dicono di chiamarsi. Dimostrano di conoscere una serie informazioni sul privato di Emanuela note soltanto nel suo ambiente di provenienza (il Vaticano) – astigmatica da un occhio; vergogna a indossare in pubblico gli occhiali da vista bordati di bianco; suonatrice di flauto; sorella che si doveva sposare a settembre – che però miscelano con informazioni fasulle: la ragazza di cui parlano si chiama «Barbara» e non Emanuela; sarebbe fuggita da casa perché stanca di una vita piatta; «Mario» le attribuisce origini venete; «Pierluigi» invece ne ignora la cittadinanza vaticana. Quanto basta per spiazzare gli inquirenti, indecisi se ritenerli attendibili o bollarli come mitomani, visto che non forniscono riscontri alle loro parole e si dissolvono nel nulla dal quale erano apparsi.

LE TELEFONATE DE «L’AMERIKANO» E L’IPOTESI DI UNO SCAMBIO CON AGCA

Ali Ağca a colloquio con Giovanni Paolo II

Altra settimana di silenzio e poi il 5 luglio 1983 una telefonata alla Sala Stampa vaticana proietta la vicenda in un caso di terrorismo internazionale. Uno sconosciuto, ribattezzato dai media «Amerikano» per l’accento anglosassone, afferma che Emanuela Orlandi è stata rapita da un’imprecisata organizzazione, alla quale apparterrebbero anche «Pierluigi» e «Mario», per ottenere la liberazione di Alì Agca, il terrorista turco appartenente alla formazione politica di estrema destra dei «Lupi Grigi» che il 13 maggio 1981 aveva ferito con alcuni colpi di pistola Giovanni Paolo II in piazza S. Pietro. Proprio il Papa, il 3 luglio 1983, all’Angelus, aveva lanciato il primo appello (saranno sette in tutto) in favore della giovane, accendendo su di lei i riflettori di tutto il mondo. L’Amerikano chiede e ottiene anche l’attivazione di una linea riservata con l’allora Segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli, anticipata dal codice 158 (che finisce sui media e che quindi tanto riservato non doveva poi essere…), sulla quale condurre le trattative che hanno il 20 luglio come ultimatum. Per quindici giorni si susseguono, sia da parte sua che di altri soggetti rimasti ignoti e dalle cadenze linguistiche ogni volta differenti, telefonate alla famiglia, a un paio di amiche e ai mezzi di comunicazione. La litania è sempre la medesima: se Agca sarà rilasciato, Emanuela sarà restituita all’affetto dei suoi cari.

Ma è una pista fumosa, oscura e contraddittoria. Mancano prove certe della sua detenzione e che sia ancora viva. Gli unici indizi forniti, la fotocopia della sua tessera d’iscrizione alla scuola di musica e un’altra frase scritta a mano insieme a una registrazione con una sua frase riprodotta all’infinito, al massimo attestano che qualcuno è riuscito a mettere le mani sul suo privato. Come «Pierluigi» e «Mario». Ma soprattutto quelle rivendicazioni non hanno una sigla. Un’assenza non di poco conto. All’epoca il terrorismo politico era purtroppo molto diffuso, sia in Italia che all’estero e non c’era gruppo od organizzazione che non firmasse i propri scempi. Come normale che fosse, perché il criminale attraverso le sue malvagità mira a un riconoscimento sociale. E se vuole ricattare il Papa o il Vaticano, ha tutto l’interesse che il mondo lo sappia. Tutto questo però non c’è in quei giorni dal clima torrido in tutti i sensi. Ma oltre alla forma il copione è cestinabile pure nella sostanza. Perché se Emanuela Orlandi era cittadina vaticana, Alì Agca era stato condannato dalla giustizia italiana ed era già stato perdonato da Wojtyla. Quindi la presunta trattativa non è credibile già nei termini di partenza, carenza non da poco per la sua attendibilità, ed è purtroppo inevitabile che al 20 luglio non succeda niente. Né la liberazione dell’ostaggio, né il ritrovamento del corpo.

DUE STRANE SIGLE: IL «FRONTE ANTICRISTIANO DI LIBERAZIONE TURKESH» E «PHOENIX»

Nell’ultima settimana di luglio l’inchiesta passa dal sostituto procuratore Margherita Gerunda a Domenico Sica. Il pm dei «misteri d’Italia» parte forte. Vuole ricostruire gli ultimi istanti di quella maledetta sera su corso Rinascimento e focalizza la sua attenzione sulla scuola di musica. Una scelta coerente con l’abc dell’investigazione, cioè partire dal luogo del misfatto, ma tra agosto e settembre l’irruzione di due sigle risucchia l’indagine in altri torbidi vortici. Quella del cosiddetto «Fronte Anticristiano di Liberazione Turkesh» riattualizza lo scambio con Agca, mostrando un’impressionante quanto non casuale similitudine con la modalità comunicativa di «Pierluigi» e «Mario». Elenca una marea di particolari su Emanuela, alcuni inventati e altri attendibili, noti soltanto alla cerchia dei famigliari. Il SISMI, l’allora servizio segreto militare responsabile della sicurezza dei confini nazionali, attiva i suoi centri all’estero, Turchia compresa, per saperne di più su questa formazione. Ma l’esito è negativo. Nessuno la conosce, né l’ha mai sentita nominare. Normale, è un nome inventato. Da chi? Non si saprà mai. È invece certo che i sette messaggi spediti in poco più di due anni (4 agosto 1983-27 novembre 1985) cessano non appena è in dirittura d’arrivo il processo a tre cittadini bulgari: il caposcalo della «Balkan-Air» Sergej Antonov, l’addetto militare dell’ambasciata bulgara Jelio Vassilev e il cassiere Todor Ayvazov. Accusati di essere stati i complici di Agca nell’attentato al pontefice, saranno poi assolti per insufficienza di prove. Pochi giorni dopo gli spari in piazza S. Pietro sulla scrivania di Sica, tra i primi a occuparsi del caso, era arrivata una delirante rivendicazione a firma Turkeş. Soltanto una coincidenza? Sì. A essere ingenui.

L’altra sigla è «Phoenix». Fa apparire cinque missive (una è in duplice copia) in un tempo ristretto (22 settembre-8 ottobre 1983), ripesca «Pierluigi» e «Mario», ma con la frase «coordinatori traffico internazionale bambole» sposta l’attenzione su un altro movente, a sfondo sessuale. O forse su quello della pedofilia ecclesiastica, visto che le lettere vengono fatte ritrovare quasi sempre in luoghi sacri? Ed è a questo americ(k)ano (Phoenix è la capitale dell’Arizona) marchio che si deve rinviare sul piano investigativo l’audiocassetta giunta anonima il 17 luglio 1983 alla sede romana dell’Ansa, e sempre inerente alla vicenda, dove erano incisi gemiti di una donna con ogni probabilità vittima di una violenza sessuale? Altre domande che non avranno mai una risposta. Come chi fosse il ghostwriter di «Phoenix».

LO SCARSO APPORTO INVESTIGATIVO DEL VATICANO

Intanto l’inerzia dei fatti prende il sopravvento e il «giallo» vaticano esce dalle cronache. Finché il 18 febbraio 1985 ai Carabinieri del Reparto Operativo di Roma arriva la segnalazione di una signora alto-atesina, Jospehine Hofer-Spitaler, ai colleghi di Terlano, paesino della provincia bolzanina, relativa a un episodio che sarebbe avvenuto nei giorni di Ferragosto del 1983. Una quindicenne, somigliante a Emanuela Orlandi, sarebbe stata tenuta prigioniera per alcuni giorni nel piano sottostante a quello della casa dove lei era impiegata come collaboratrice domestica. Il 19 agosto poi un uomo proveniente dalla Germania e proprietario dell’abitazione l’avrebbe portata via insieme ad altre due persone. È la cosiddetta «pista di Terlano», che porta all’iscrizione di quattro persone nel registro degli indagati poi prosciolte perché del tutto estranee alle accuse mosse nei loro confronti.

Dalla tramontana dolomitica al ponentino capitolino. Alla fine del marzo 1985 l’inchiesta è avocata dalla Procura Generale che la affida al giudice istruttore Ilario Martella, già impegnato con quella sull’attentato al Papa: sarà la definitiva trasformazione dell’affaire Orlandi in un intrigo politico internazionale. Si batte così anche il sentiero cosiddetto turco-tedesco, prefigurando un rapimento orchestrato dai Lupi Grigi capaci di tenere la ragazza prigioniera nell’allora Germania Ovest. Nel registro degli indagati finisce anche il turco Oral Celik, controverso personaggio al centro di più di una vicenda giudiziaria, esponente dei Lupi Grigi e amico di Alì Agca. Ma il capillare lavoro della giudice Adele Rando, che nel 1990 aveva ereditato il fascicolo dal collega, non approda ad alcun risultato significativo in merito e scaduti i tempi per un’ulteriore proroga delle indagini, è costretta all’archiviazione, ufficializzata con la sentenza del 19 dicembre 1997. In essa si esplicita come la pista finora seguita sia un depistaggio: «L’impossibilità di acquisire certi riscontri probatori alle originarie connotazioni dell’accusa (scambio Agca-Orlandi) […] accreditano […] il fondato convincimento che il movente politico-terroristico costituisca in realtà un’abile operazione di dissimulazione dell’effettivo movente del rapimento di Emanuela Orlandi».

Mirella Gregori

Cala dunque il silenzio sulla giovane cittadina vaticana. Si stralcia però la posizione di un altro iscritto nel registro degli indagati, il funzionario della vigilanza vaticana Raul Bonarelli, per il quale s’ipotizza il reato di favoreggiamento personale. Era finito nell’inchiesta a causa della scomparsa di un’altra quindicenne, Mirella Gregori, avvenuta a Roma il 7 maggio 1983 e in circostanze simili a quelle della Orlandi: alla luce del giorno e in una zona centrale e trafficata come il piazzale di Porta Pia. La Procura aveva aperto un fascicolo autonomo, che però fu allegato al massiccio incartamento sulla Orlandi dopo che entrambe erano state nominate nel «Komunicato-1» del Fronte Turkesh (4 agosto 1983). Al suo interno anche un appunto della madre di Mirella, Vittoria Arzenton, risalente al 1987. Indicava in Bonarelli l’uomo che nel dicembre 1985 avrebbe riconosciuto nel corpo di vigilanza di Giovanni Paolo II – mentre attendeva di essere ricevuta in udienza insieme al marito nella chiesa di S. Giuseppe al Nomentano – e che riteneva essere lo stesso individuo da lei notato intrattenersi – in più di una circostanza e finché la figlia non sparì – con Mirella e una sua amica ai tavolini del bar sotto l’abitazione all’inizio di via Nomentana. Cioè a meno di quattrocento metri dal piazzale di Porta Pia.

Il 12 ottobre 1993, alla vigilia della sua audizione, l’uomo – scagionato dalla stessa Arzenton nel confronto in Procura: «Rappresento all’ufficio che il qui presente sig. Bonarelli non è la persona da me vista sedere abitualmente presso il bar di via Nomentana e intrattenersi con le ragazze» – riceve una telefonata da un suo superiore: «Ah Bonarelli […] e dici quello che sai per Orlandi? Niente! Noi non sappiamo niente! Sappiamo dai giornali, dalle notizie che sono state portate fuori! […] Se te dici io non ho mai indagato…l’Ufficio ha indagato all’interno… questa è una cosa che è andata poi… non dirlo che è andata alla Segreteria di Stato». Lui rispetta le consegne – «Per quanto concerne il caso di Emanuela Orlandi […] non sono in grado di dare all’ufficio nessuna indicazione in ordine alle cause della scomparsa. […] Non so assolutamente nulla circa attività svolte dall’autorità giudiziaria vaticana in ordine a questo fatto» – e l’indagine a suo carico scivola verso l’archiviazione, che sopraggiungerà il 3 febbraio 2009 nel più completo anonimato mediatico. Se il Vaticano si era sempre dichiarato estraneo a ogni coinvolgimento nella questione, perché quella raccomandazione? Perché ha risposto con fatica e scarso apporto investigativo alle tre rogatorie inoltrategli tra il 1986 e il 1995 dalla magistratura italiana? Perché ha sempre manifestato un evidente fastidio a parlare di quella sua cittadina, ma soprattutto a collaborare attivamente affinché fosse fatta piena luce sul suo destino? E soprattutto: perché nel primo bollettino emesso dalla Sala Stampa della Santa Sede su Emanuela Orlandi, 3 luglio 1983 cioè in occasione del primo appello di Wojtyla, classificò la vicenda come «sequestro di persona» quando ancora nessuno aveva rivendicato un eventuale rapimento?

Interrogativi ancora oggi rimasti «misteri della fede».