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Quell’anomalo incidente che si portò via Graziano Gori, capo della DIGOS di Bologna

Tommaso Nelli

Trentanove anni da compiere, un figlio di sei e una moglie pressoché coetanea, Gori non è un poliziotto qualsiasi

«Al signor Giudice Istruttore […] per l’archiviazione degli atti, essendo l’incidente dipeso esclusivamente dal Gori». Ferrara, 6 dicembre 1978. Con questa motivazione la Procura della Repubblica del capoluogo estense chiede l’archiviazione del fascicolo sulla morte di quattro persone, avvenuta il precedente 3 luglio in un incidente automobilistico sul raccordo Ferrara-Porto Garibaldi. Una di queste è un commissario di polizia. Il suo nome? Graziano Gori. Trentanove anni da compiere, un figlio di sei e una moglie pressoché coetanea, Gori non è un poliziotto qualsiasi. Dal 18 febbraio 1976 è il capo dell’Ufficio Politico della Questura di Bologna, nel frattempo (inizio 1978) ribattezzato DIGOS a seguito della riorganizzazione del Dipartimento Centrale delle forze di polizia. Vi era stato assegnato cinque anni prima (8 marzo 1971) dopo un biennio come funzionario di polizia giudiziaria preceduto dalla laurea in Giurisprudenza all’università di Firenze e dall’infanzia a Bibbiena, piccolo paese dell’aretino.

UN IMPEGNO ASSOLTO CON «ELEVATO SPIRITO DI SACRIFICIO»

Graziano Gori

Un incarico delicato e di grande responsabilità che lo vede in prima linea a fronteggiare i principali pericoli dell’epoca: il terrorismo e la criminalità politica. Sono anni caldi, quelli, in Italia. Tra attentati mortali (Peteano, 31 maggio 1972), bombe nelle piazze (Brescia, piazza della Loggia, 28 maggio 1974) e sui treni (Italicus, 4 agosto 1974), e attacchi al cuore dello Stato (Roma, primavera 1978, sequestro e uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e della sua scorta). E Bologna non è da meno. L’11 marzo 1977, in scontri di strada, era morto lo studente di medicina Francesco Lorusso, militante di Lotta continua, ucciso dallo sparo di un carabiniere. Gori è dunque chiamato a garantire una pacifica convivenza civile in una città dal forte fermento sociale e, al tempo stesso, a raccogliere informazioni per prevenire sul nascere eventuali disordini. Un impegno assolto con «elevato spirito di sacrificio», che lo vuole «pienamente disponibile in qualsiasi ora del giorno e della notte, […] senza mai risparmiarsi» e che lo sottopone «ad una notevole tensione psicologica connessa alla sua delicata responsabilità d’ufficio». Così lo descrive una nota della questura di Bologna dell’8 luglio 1978. Anche cinque giorni prima Gori non era venuto meno al suo senso del dovere. E di buon mattino aveva lasciato la famiglia nella casa al mare di Lido di Spina, sul litorale ferrarese, per dirigersi con la sua «Alfetta» nella sua stanza al secondo piano del grande palazzo di piazza Galileo. Sono cento chilometri, ma è un lunedì d’estate, c’è pochissima gente in viaggio e l’autostrada a quattro corsie velocizza i tempi. Alle 8:10, in località Voghiera, al km 9+300, sorpassa due vetture. La seconda è la «Fiat 131» del signor Renato Sandrin, che sta facendo ritorno nelle natie terre trevigiane e che, suo malgrado, assiste all’irreparabile.

UN POLIZIOTTO CHE PREFERISCE IL DIALOGO AL MANGANELLO

Secondo quanto stabilito dalla polizia stradale di Ferrara, nella manovra di rientro l’Alfetta si sposta troppo verso il ciglio della strada, oltrepassandolo per circa quaranta metri con gli pneumatici di destra che toccano l’erba. Immediatamente, fa un movimento verso sinistra, come a ritornare in carreggiata. Ma è un attimo. Perché subito s’intraversa e compie una traiettoria parabolica di cinquanta metri che la porta a invadere il senso di marcia opposto. Dove sta sopraggiungendo un’altra vettura, una «Ford Escort». A bordo i coniugi Manservigi con suocera. Anche loro muoiono nel devastante impatto che obbliga i vigili del fuoco a ore di lavoro per estrarre i corpi delle vittime dalle lamiere. Quello di Gori è stato sbalzato fuori dall’abitacolo. Lo ritrova l’altro testimone della tragedia, il notaio Sergio Monizio, quello della prima delle due auto sorpassate dall’Alfetta, «giù nel fossato sinistro, […]in posizione longitudinale e supino con le viscere scoperte e bianco in volto» come dichiarerà il 12 luglio alla polizia stradale di Bologna.

Il 5 luglio, nella chiesa di S. Domenico, si celebrano i funerali del commissario. A salutarlo, anche i militanti di Lotta continua, che lo omaggiano pure sul loro quotidiano: «Una giornata triste, è morto un amico». Un evento più unico che raro, ma che non deve stupire. Gori era stimato anche sull’altro versante della barricata perché amante più del dialogo che del manganello. Poi, mentre la notizia esce dalle cronache, le indagini s’incanalano ben presto sul binario che terminerà nell’archiviazione sancita dal giudice istruttore del Tribunale di Ferrara l’11 dicembre 1978. Motivazione? «L’incidente fu causato dal comportamento di guida di una vettura». Il riferimento è all’Alfetta che, secondo la perizia medico-legale effettuata sul corpo del commissario, sbandò per un malore di quest’ultimo. «Ecco la causa dell’incidente, ecco cosa portò alla situazione di sinistro: un collasso mattutino». A provocarlo, l’enorme quantitativo di stress lavorativo che causò «uno stato di collasso cardiovascolare per il quale il soggetto non fu più in grado di reggere la guida dell’automobile».

L’ASSENZA DI FRENATE PRIMA DELL’IMPATTO

Ma Gori ebbe un malore? Perché dal suo esame istologico cuore, fegato, milza e reni erano in ottime condizioni. Sennonché la perizia aveva tenuto conto di un particolare reso dal signor Sandrin alla polizia stradale di Ferrara il 10 luglio: «Mentre l’Alfetta deviava verso destra, ho notato che il conducente era non in posizione retta e corretta per la guida, ma come piegato in avanti e verso destra, tanto che ho avuto l’impressione che stesse manovrando l’apparecchio radio o cercasse qualcosa nel cruscotto. Quando l’auto ritornando verso sinistra è cominciata a sbandare il conducente non si vedeva e pensavo si fosse accasciato. […] per quanto ricordo non mi sembrava fosse al posto di guida in quanto il busto non sporgeva dalla parte metallica della portiera». In sintesi: dopo il sorpasso Gori si era sente male, piegandosi sulla sua destra e perdendo il controllo del veicolo che era andato a scontrarsi con la Ford.

Però andò proprio così? Premesso che il testimone si ricordò della posizione del commissario «successivamente, pensando alla dinamica (dell’incidente, ndg) a mente fredda», il dubbio nasce dalla lettura della perizia tecnica dell’incidente e da altre informazioni. Sorprende innanzitutto l’assenza di frenate nell’impatto. «Si rammenta che lungo tutto il percorso non sono state rilevate al suolo incisioni e tracce di frenata. La Ford, poi, non ha lasciato tracce di nessun genere». Il particolare fa capire la fulmineità della disgrazia e incamera anche la conferma dello stesso Sandrin: «L’Alfetta durante tutta la fase del sinistro non è stata frenata in quanto sono certo che non si sono accesi i fanalini posteriori di arresto». Ci si chiede dunque: perché non furono utilizzati? Furono manomessi o si ruppero improvvisamente? Esclusi ufficialmente sabotaggi – «Il mezzo era in perfetta efficienza prima dell’incidente» – i freni erano funzionanti sebbene i condotti dell’olio per le ruote anteriori, pur «non strappati», fossero «piegati». Ma ciò era dovuto all’impatto. E il loro mancato utilizzo da parte di Gori era derivato dall’impossibilità a intervenire per il sopraggiungimento del collasso. Sennonché: se il malessere fu improvviso e lancinante da accasciarsi, perché la vettura, una volta toccata l’erba, fu «richiamata dal suo conducente» in traiettoria? L’istinto non avrebbe dovuto indurre, se c’erano sempre le forze, a frenare, considerando l’alta velocità (120 km/h) e che alla guida, quando si percepisce un pericolo o un imprevisto, come un problema di salute, la reazione immediata è di rallentare o di arrestare l’andatura?

LE «DELICATISSIME INDAGINI» E LE SEGNALAZIONI SU UN POSSIBILE ATTENTATO

Ma poi: perché l’Alfetta durante la sbandata ha un movimento regolare? Sia Sandrin, sia il gesso dei rilievi evidenziano «un semicerchio senza serpeggiare, con traiettoria continua» che, senza l’incidente con la Ford, avrebbe terminato la sua corsa nel fossato. Questa è un’altra sorpresa. Perché, a parte cercare il freno piuttosto che il ritorno in traiettoria, un malore che reclina il conducente sul sedile del passeggero anteriore lo obbliga a lasciare le mani dal volante e il piede dell’acceleratore. Quindi, oltre a non poter essere riportato nella giusta direzione, il veicolo asseconderebbe il movimento iniziale, nella fattispecie l’uscita di strada verso l’erba, oppure inizierebbe a sbandare con un’andatura irregolare, a zig-zag, perdendo drasticamente velocità. Com’era accaduto nel 1977 in Formula-1 al Gran Premio del Sudafrica. Sul rettilineo del traguardo del circuito di Kyalami l’inglese Tom Pryce, a bordo della sua Shadow, al 22^giro aveva falciato a 250 km/h un giovane commissario olandese, Janseen Van Vuuren, entrato in pista con un estintore per spegnere il principio d’incendio sviluppatosi sull’altra Shadow, quella del nostro Renzo Zorzi. Nell’impatto l’estintore aveva colpito il casco di Pryce, fracassandogli il cranio. La monoposto, senza controllo al volante e sulla pedaliera, aveva attraversato pericolosamente e più volte la pista, sbattendo prima contro il guard-rail sul lato interno per poi terminare la sua corsa dalla parte opposta, nella via di fuga in fondo al rettilineo. Un movimento del tutto irregolare. Al contrario dell’Alfetta che, oltre a eseguire un movimento regolare, passa dai 125 km/h dell’uscita sull’erba ai 100 km/h dell’impatto in cinquanta metri. In definitiva, una scheggia impazzita che la Ford, attestata sui 90 km/h, si ritrovò davanti agli occhi all’ultimo istante centrandola in pieno sulla fiancata destra al punto da renderla «praticamente spezzata in due tronconi».

Secondo Il Resto del Carlino dell’epoca, quella mattina il commissario aveva ricevuto una telefonata da parte di un collega che gli aveva chiesto di rientrare urgentemente. Pare che una persona volesse vederlo per importanti comunicazioni. Quali? Non si è mai saputo. Come, per il momento, non sappiamo chi fosse l’autore della telefonata e di che cosa Gori si stesse occupando nello specifico. Di sicuro, erano «delicatissime indagini». Così si legge in un fonogramma trasmesso la sera del decesso dalla questura di Bologna a quella di Ferrara nel quale, oltre a chiedere accertamenti perché si temeva un sabotaggio dell’auto, si fa presente che «recenti segnalazioni confidenziali preannunciavano prossimo attentato at persona appartenente amministrazione statale». Da dove arrivavano? E che cosa dicevano? Lavorare per l’Ufficio Politico voleva dire avere a che fare con informazioni sensibili. Basti pensare che fino al 1974 la struttura dipendeva dal sempre discusso Ufficio Affari Riservati, l’organo del Ministero dell’Interno con funzioni d’intelligence interna che, per controllare il clima politico del Paese, non lesinava infiltrazioni nei partiti, nei giornali, nei movimenti studenteschi, ecc.

Ma quel foglio è rimasto senza seguito. Nessun funzionario della questura di Bologna, a cominciare dal questore Mario Iovine, deceduto nel 2004, fu mai ascoltato dalla procura ferrarese. Dove agli inizi di dicembre fu chiusa la partita giudiziaria. Ma a distanza di oltre quarant’anni, almeno finché non si conoscerà l’oggetto di quelle «delicatissime indagini» e chi era la persona che quel 3 luglio aveva bisogno di parlargli, i dubbi, sulla morte di quel giovane e brillante commissario, restano.