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Antonio «Tony» Chichiarelli: l’Icaro marsicano che sfidò i misteri d’Italia

Tommaso Nelli

Per provare a orientarsi in un simile labirinto esistenziale occorre partire da una data: 24 marzo 1984

Un dedalo di misteri. Dove rapine, delitti, rivendicazioni, ritrovamenti, opere d’arte, droga e testine per macchine da scrivere s’incrociano in continuazione tra loro. Ma che al momento d’imboccare la strada d’uscita sbattono contro un muro ancora oggi invalicabile. Così, per provare a orientarsi nel labirinto esistenziale di Antonio Giuseppe Chichiarelli, «Tony» per gli amici, occorre partire da una data: 24 marzo 1984. Roma, via Aurelia, km 9+600, deposito valori «Brink’s Securmark». Presa in ostaggio una delle guardie, tre uomini a volto parzialmente coperto entrano nel caveau e rubano denaro e titoli di vario genere per un valore pari a 35 miliardi di lire. Una cifra enorme per un furto clamoroso, passato alla storia come «la rapina del secolo». Stupisce l’impressionante facilità con la quale i banditi vanno a segno e il materiale che lasciano sul luogo del misfatto: «una bomba “Energa” da esercitazione; un involucro contenente polvere pirica colorante, nonché 7 proiettili cal. 7,62 Nato per mitragliatrice […] “volutamente buttati a terra dal ‘capo’ e non persi”» si leggerà il 12 luglio 1986 nell’ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio dell’allora giudice istruttore del Tribunale di Roma, Francesco Monastero.

IL «BORSELLO DEL PIPER»

«Tony» Chichiarelli

Quello che sul momento un anonimo rivendica come un esproprio proletario delle Brigate Rosse, tempo quarantottore è proiettato nell’interminabile galleria dei misteri d’Italia. Un redattore del quotidiano «Il Messaggero», dopo altra telefonata ignota, recupera una busta in un cestino dei rifiuti a piazza Belli, rione Trastevere. Al suo interno tre proiettili cal. 7,62 Nato, gli stessi della rapina, e una serie di documenti: un ritaglio di dattiloscritto firmato «Cellula Romana Sud – BRIGATE ROSSE», la rivendicazione della rapina con la sigla delle B.R., e, soprattutto, «quattro schede dattiloscritte relative a tale “Operazione A.N.A.”, al Presidente della Camera Pietro Ingrao, al Giudice Istruttore Achille Gallucci, nonché a Pecorelli Mino».

Shock, brividi, vertigini. Quei nomi riportano le lancette del tempo indietro di cinque anni, esattamente al 14 aprile 1979, e a un altro ritrovamento. Quello di un borsello: «il borsello del “Piper”». Due giovani americani, a Roma per studio, alloggiano da un loro connazionale, professore di scienze politiche alla «John Cabot University». All’una del mattino salgono a bordo del taxi «Pisa-1» per raggiungere la nota discoteca «Piper» a via Tagliamento, all’epoca chiamata «Make Up». Al momento di scendere si accorgono di un borsello abbandonato sul fondo della vettura. Decidono di aprirlo però solo alle tre, una volta usciti dal locale, dopodiché lo consegnano ai carabinieri della stazione Podgora. Al suo interno, c’è una pistola «Beretta» calibro 9. Ma non è l’arma a destare l’attenzione degli inquirenti, bensì una testina rotante per macchine da scrivere I.B.M. con sigla «Light-Italic 12» e quattro schede fotocopiate dal contenuto agghiacciante: «S/4 E. Oggetto: Pecorelli Mino (da eliminare); 7/D. Oggetto: Giudice Istruttore Gallucci Achille; F/6 R. Oggetto: eliminazione scorta onorevole Ingrao Pietro; 2/I 4. Oggetto: Piano A.N.A. Tratta del progetto dell’avvocato Giuseppe Prisco».

LA TESTINA I.B.M.

Tre sono i progetti di attentato a noti personaggi pubblici, mentre una riguarda la morte ancora senza verità di un uomo discusso: Mino Pecorelli. Giornalista, direttore del criptico «OP – Osservatorio Politico», un’agenzia di stampa divenuta rivista nei giorni del sequestro di Aldo Moro, ucciso a Roma, a via Orazio, quartiere Prati, il 20 marzo 1979. Sulla sua scheda si legge però che l’operazione era programmata per il 6 marzo salvo essere stata rinviata «causa intrattenimento prolungato presso alto ufficiale dei Carabinieri zona piazza delle Cinque Lune». Subito sotto: «Agire necessariamente entro e non oltre il giorno 24 marzo, sarebbe problematico concedergli tempo. Non bisogna assolutamente rivendicare l’azione anzi occorre depistare». L’alto ufficiale è il tenente colonnello Antonio Varisco, principale informatore di Pecorelli. Muore tre mesi dopo il rinvenimento del borsello. Le BR si assumeranno la paternità dell’agguato.

La testina I.B.M. rimanda invece a una vicenda raccontata dal giornalista: il sequestro Moro. In particolare al comunicato numero 7 e al numero 1 in codice. Una perizia grafica del 1989, predisposta sempre dal giudice Monastero nell’inchiesta sulla morte del cronista, stabilirà che sono stati scritti «con la stessa macchina per scrivere o con la stessa testina ruotante». Quell’esame però non accerterà se il falso comunicato numero 7, quello del lago della Duchessa, comparso il 18 aprile 1978 e volente il cadavere di Moro sul fondo del bacino idrico al confine tra Lazio e Abruzzo, sia stato scritto con la testina del borsello o con la macchina da scrivere dei due poc’anzi menzionati «in quanto non è stata rintracciata alcuna macchina per scrivere I.B.M. che accettasse la testina rotante di cui sopra». E a proposito di falsi: lo era anche il comunicato numero 1 in codice, che però recava la stessa firma ritrovata nelle carte della rivendicazione della «Brink’s»: «Cellula Romana Sud – Brigate Rosse».

«TONY IL FALSARIO? UNO DEI MIGLIORI FALSARI DI TUTTA ITALIA»

Ma che c’entra il depistaggio del lago della Duchessa con la rapina alla «Brink’s»? Semplice, il luogo del ritrovamento. Perché anche quel documento fu lasciato a piazza Belli. Balzo di nuovo dunque al 1984. Quando questi particolari non sfuggono al sostituto procuratore Domenico Sica, uno dei magistrati più quotati della Procura di Roma, titolare del fascicolo sulla «Brink’s» e già di quello sul borsello. Gli manca però il filo che unisca tutti questi indizi ovvero il capo della banda della rapina. «Età apparente 35-36 anni circa, alto 1,78 metri, corporatura robusta, capelli lunghi e ricci di colore nero corti, stempiato, baffi neri grossi, carnagione olivastra, occhi scuri» si legge nel rapporto dei carabinieri redatto in base alla descrizione dell’agente preso in ostaggio. Poi però nient’altro.

Almeno fino alla notte del 28 settembre 1984. Quando a via Martini, quartiere Monte Sacro, secondo il rapporto della Squadra Mobile «un giovane, alto circa 1,65 m, indossando un jeans e giubbetto verde» spara a una coppia appena scesa da una Mercedes 190. Lei, Cristina Cirilli, 21 anni, si salva in ospedale. Lui, che di anni ne ha 36, no. Il suo nome? Antonio Giuseppe Chichiarelli, nativo di Magliano dei Marsi (borgo al confine tra Lazio e Abruzzo), per gli amici «Tony». Anzi, «Tony il Falsario». Perché specializzato nella riproduzione contraffatta di quadri d’autore. Fra le sue repliche, opere di Fantuzzi, Omiccioli, Tamburi, Purificato e perfino Mantegna. «A mio giudizio era uno dei migliori falsari in tutta Italia, particolarmente abile nell’invecchiamento delle tele» dice il 10 ottobre 1984, alla Mobile, il suo amico pregiudicato, nonché confidente delle forze dell’ordine, Luciano Dal Bello.

UN TENORE DI VITA CHE CAMBIA RADICALMENTE

I loro nomi non sono nuovi agli inquirenti. Soprattutto quello di «Tony» e soprattutto a Sica, che nell’autunno di tre anni prima aveva dato mandato di perquisire la sua villa di via Sudafrica, all’EUR, nell’ambito di un’indagine della Guardia di Finanza sul commercio di opere contraffatte iniziata a Taranto, città di origine di Chiara Zossolo, moglie di Chichiarelli. Lui la lascia nel 1983, ma ci rimane in ottimi rapporti al punto da comprarle, per 140 milioni di lire in contanti, un appartamento a viale Marconi. Quando? Nella primavera inoltrata del 1984. Quando il suo tenore di vita cambia radicalmente. Oltre alla Mercedes, «Relly» (come firmava i suoi dipinti) acquista anche una villa, un altro appartamento, due motociclette di grossa cilindrata e una vettura per la nuova compagna. Dispone, improvvisamente, di fiumi di denaro. Ma dove l’ha preso? Un falsario non guadagna tutti quei soldi. La Squadra Mobile lo capisce non appena va a perquisire la sua abitazione pochi giorni dopo il delitto. Vi rinviene «numerosi gioielli e oggetti d’ingente valore», ma soprattutto 37.237.000 ₤ in contanti e 2 videocassette, una delle quali contrassegnata con la scritta a penna «B-O.K.». Sul nastro lo «Speciale TG1» sulla rapina alla «Brink’s». Il gioco è fatto. Tony Chichiarelli – baffi folti, capelli e occhi neri, grossa corporatura – è l’uomo che stanno cercando: l’artefice della «rapina del secolo».

Però qualcosa non quadra. Perché il desiderio di riscatto di un presente pauperistico per un futuro da sceicco non si sposa con quella rivendicazione tanto simbolica quanto inquietante. Ok, le capacità di un falsario aiutano a depistare, ma che c’entra «Tony» col «borsello del Piper», Moro e Pecorelli? Lui poi, secondo quanto dice Dal Bello a Sica pochi mesi dopo l’omicidio, era un tipo che raccontava frottole e non lo prese sul serio quando, nel periodo del sequestro Moro, gli confidò che stava organizzando la messinscena del lago della Duchessa. Una versione invece accreditata nelle sedi competenti anche da Osvaldo Lai, suo amico e commercialista dopo il colpo alla «Brink’s», che ricorda «di aver appreso dallo stesso Chichiarelli che costui era l’autore del falso comunicato […] del lago della Duchessa non mancando […] accenni ai rapporti di conoscenza che quest’ultimo avrebbe avuto con qualificati elementi della malavita».

UN PERSONAGGIO AL CENTRO DI CONTRADDIZIONI E COMMISTIONI

Ma allora chi era «Tony il Falsario»? E che ambienti frequentava? Oltre alla criminalità locale si parla di uomini dei Servizi poco «servizievoli» con lo Stato ed esponenti dell’estrema destra. Però lui si professava simpatizzante delle Brigate Rosse e la Zossolo nell’ultima Commissione Moro l’ha collocato anche a via dei Volsci, sede di un famoso collettivo frequentato anche da brigatisti come Alessio Casimirri. Convocata in Procura il 25 gennaio 1985, la donna ricorda le schede su Gallucci, Pecorelli e Prisco sul tavolo della loro casa all’EUR, riconosce nel «borsello del Piper» un regalo che aveva fatto al marito e rammenta come lui le disse d’averlo «lasciato appositamente su un taxi per depistare gli inquirenti e per dimostrare che non ci voleva nulla a fare “imboccare” una strada al posto di un’altra».

Però «Tony» salì davvero su quel taxi? Perché nelle descrizioni dei passeggeri fatte da Mario B., l’autista della coppia americana, in servizio dalle 21:50 di quella sera alle 7 del mattino seguente, nessuna corrisponde alla sua. E perché all’originale della scheda di Pecorelli e a un’altra copia di quest’ultima, fatta ritrovare il 17 novembre 1980, aggiunse a mano la scritta «Sereno Freato», un onorevole amico di Moro? Quelle schede ebbero lo stesso committente della rapina? Perché sempre Lai rivela un’altra confidenza di «Tony»: «l’organizzatore […] era stato un personaggio del tutto insospettabile dal quale lo stesso Chichiarelli diceva di dover prendere ordini». Ma chi? Lo stesso che gli aveva detto di mettere sotto controllo l’onorevole Ingrao? Chichiarelli lo spiava a Ponte Lanciani, dalla galleria d’arte dell’amico Libero Matteucci, al quale doveva consegnare un’altra testina rotante, sempre marca «I.B.M.». Quella che i poliziotti del commissariato Monteverde gli trovarono addosso il 5 agosto 1979 durante una ricognizione all’ospedale San Camillo.

Casualità? Definire i ripetuti intrecci della vita di un personaggio al centro di contraddizioni e commistioni consentirebbe di capire anche perché una scheda della rapina alla «Brink’s» viene rinvenuta in un deposito di armi di via Prenestina 220, covo della destra eversiva. Quella che il 21 ottobre 1981 massacra l’allora capitano di polizia Francesco Straullu, al quale Sica aveva affidato subito gli accertamenti sulla testina del borsello nonostante questo fosse nelle mani dei carabinieri. Perché?

Infine, saperne di più sul quotidiano di Chichiarelli, permetterebbe di scoprire soprattutto il suo assassino. Secondo le parole della Cirilli alla Mobile di Roma «una persona non molto alta, scura di capelli e che le ricordava la razza sudamericana». Il movente? Si parla anche di un regolamento di conti per storie di droga. «Tony» non la disdegnava e un altro pregiudicato, Gaetano Miceli, il 13 novembre 1984 racconta a Sica come l’amico campasse «acquistando piccole partite di cocaina che poi vendeva in giro. A proposito dei fornitori, solo una volta mi disse che avrebbe visto i “CILENI” a Monte Sacro». Ma la storia dell’Icaro marsicano che sfidò l’oscuro sole dei misteri d’Italia, può dissolversi in una manciata di polvere bianca?