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22 dicembre 1970. Lo «scandaloso» rapporto sull’ordine pubblico redatto dal prefetto di Milano Libero Mazza

Redazione Spazio70

Oggetto del rapporto: «Situazione dell'ordine pubblico - formazioni estremiste extraparlamentari»

«I disordini verificatisi sabato 12 dicembre u.s. in questa città con luttuose, se pure accidentali, conseguenze, sono da considerare i prodromi di altri eventi ben più gravi e deprecabili che possono ancora verificarsi in conseguenza del progressivo rafforzamento e proliferazione delle formazioni estremistiche extraparlamentari di ispirazione “maoista” (Movimento Studentesco, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, ecc.) nonché dei movimenti anarchici e di quelli di estrema destra. Tutti questi movimenti, che hanno la loro “centrale” a Milano, nonostante differenziazioni sul piano ideologico e nella metodologia di intervento, sono prettamente rivoluzionari, propugnano “la lotta al sistema” e si prefiggono di sovvertire le istituzioni democratiche, consacrate dalla Carta Costituzionale, attraverso la violenza organizzata».

«I REPARTI DI POLIZIA SONO OGGETTO DI AGGRESSIONI CONDOTTE CON ESTREMA VIOLENZA»

Libero Mazza

«Gli appartenenti a tali formazioni, che sino a qualche anno fa erano poche migliaia, ammontano oggi a circa ventimila unità, svolgono fanatica ed intensa opera di propaganda e proselitismo sia nell’ambiente studentesco che in quello operaio, facendo leva sulle frange maggiormente portate all’oltranzismo. Si rileva quindi con frequenza sempre maggiore l’organizzazione di riunioni e cortei, i quali sono spesso l’occasione per turbare profondamente la vita della città, compiere atti vandalici con gravi danni a proprietà pubbliche e private, limitare la libertà dei cittadini, usare loro violenza, vilipendere e dileggiare i pubblici poteri centrali e locali con ingiurie volgari ed accuse cervellotiche. I reparti di polizia (guardie di P.S. e carabinieri) sono oggetto di aggressioni condotte con estrema violenza, a testimoniare la irriducibile avversione verso le forze dell’ordine ed in genere verso ogni potere statale. Anche quando i reparti non vengono aggrediti direttamente, gli scontri diventano egualmente inevitabili, essendo la polizia costretta ad intervenire per rimuovere barricate, impedire il ribaltamento di auto in sosta, il danneggiamento di negozi, ecc. Il fine dichiarato è quello di dimostrare che “la sola presenza” della polizia è lesiva della libertà di espressione e riunione, costituisce provocazione ed è causa di incidenti».

«LA GENTE ASSISTE SBIGOTTITA E SGOMENTA»

«Questi estremisti dispongono di organizzazione, equipaggiamento ed armamento che può qualificarsi paramilitare: servizio medico, collegamento radio tra i vari gruppi, servizio intercettazione delle comunicazioni radio della polizia, elmetti, barre di ferro, fionde per lancio di sfere di acciaio, tascapane con bottiglie “Molotov”, selci, mattoni, bastoni, ecc. La stragrande maggioranza della popolazione, anche se si astiene dal reagire o dal manifestare clamorosamente la propria riprovazione, è esasperata per le continue e scomposte manifestazioni, i disordini, i blocchi stradali, le intimidazioni, il dilagare della violenza nelle università, scuole, uffici aziendali e fabbriche. Le categorie più responsabili e qualificate, inoltre, sono profondamente preoccupate per il rallentamento dell’attività produttiva, i guasti che ne derivano all’economia generale e il conseguente ritardo nell’attuazione delle riforme destinate al rinnovamento sociale e civile della nostra società. La gente assiste, sbigottita e sgomenta, alle esplosioni di odio forsennato contro ogni legittima autorità, nel nome di una malintesa libertà che, degenerando in licenza, arbitrio e sopraffazione, porta fatalmente al caos ed all’anarchia, fattori che costituiscono il presupposto, puntualmente confermato dalla storia, di soluzioni autoritarie che farebbero tramontare ogni speranza di autentica democrazia».

«NON È DA DUBITARE CHE CI SI TROVI DI FRONTE AD ASSOCIAZIONI CHE PERSEGUONO FINI EVERSIVI»

«Questi elementi facinorosi, vengono, d’altra parte, incoraggiati e resi più audaci dalla certezza dell’impunità. Anche un comportamento di cauta e prudente fermezza non è sopportato e viene qualificato dalla dilagante demagogia come “repressione”, “provocazione e sopraffazione poliziesca”, “attentato alle libertà costituzionali”, “fascismo”, mentre i fermati per reati commessi durante le manifestazioni sediziose vengono rapidamente scarcerati e le denunce rimangono accantonate in attesa della immancabile amnistia. E’ comprensibile pertanto come questi sabotatori della democrazia esercitino una grande forza di richiamo su schiere sempre più numerose di giovani immaturi o scriteriati. Per arginare questa situazione drammatica, prima che diventi sempre più difficile, non c’è che il ritorno alla lettera e allo spinto della Costituzione repubblicana. Non è da dubitare che ci si trovi di fronte ad associazioni che perseguono finalità eversive elevando la violenza a sistema di lotta. Si tratta quindi di forme associative che contrastano con l’art. 49 della Costituzione in quanto perseguono le proprie finalità con metodi antidemocratici e, cioè, ispirandosi nei programmi e nella azione (anche propagandistica) alla violenza e sono quindi in grado di compromettere il regolare funzionamento del sistema democratico».

«IL RISCHIO È QUELLO DI ASSISTERE PASSIVAMENTE ALLA FINE DELLE LIBERE ISTITUZIONI DEMOCRATICHE»

Il cosiddetto «rapporto Mazza» al ministro dell’Interno Franco Restivo (fonte dell’immagine: segretidistato.it)

«In uno Stato di libertà, quale quello previsto dalla nostra Costituzione, è consentita l’attività di associazioni che si propongono il mutamento degli ordinamenti politici esistenti, purché questi propositi siano perseguiti mediante il libero dibattito e senza il ricorso, diretto od indiretto, alla violenza (Corte Costituzionale Sent. n. 114 del 1967). Ma l’illiceità di questi movimenti risulta anche della loro particolare struttura organizzativa di carattere paramilitare, nonché dalle modalità di impiego e dell’equipaggiamento dei gruppi d’azione che contrastano col divieto dell’art. 18 della Costituzione (v. anche D.L. 14.2.1948, n. 43). Se, per mancanza di una legge ordinaria che determini la procedura e gli organi competenti a reprimerne l’attività, non è possibile procedere allo scioglimento di tali gruppi in via amministrativa (come invece è ormai possibile in Francia), occorrerebbe quanto meno vietare che i reparti organizzati intervengano alle dimostrazioni in assetto da guerriglia cittadina, non esitando ad assicurare il rispetto del divieto con la coazione diretta. L’attuazione di siffatto indirizzo, per le implicazioni che ne possono derivare, attiene ovviamente ad una scelta di politica generale, per cui si ritiene di sottoporre la questione a codesto On.le Ministero per le conseguenti determinazioni da adottare in sede governativa, non senza far rilevare che il nostro ordinamento offre una base sufficiente per condurre sino in fondo con fermezza e decisione una azione di tal genere. Invero, non solo il T.U. di P.S. (art. 19), ma la stessa Costituzione (art. 17 cit.), stabilisce il divieto di portare armi alle pubbliche riunioni, e nel concetto di arma possono ricomprendersi non solo quelle da sparo e tutte le altre la cui destinazione naturale è l’offesa della persona (art. 30 T.U.P.S. 18.6. 1931, n. 773) ma anche gli esplosivi, le mazze, i bastoni, gli sfollagente, ecc. (art. 42 T.U.P.S. cit. art. 585 2° comma, n. 2 C.P.). Pertanto, nel rispetto e nei limiti fissati dalla legge, dovrebbe essere respinta con rigore ogni accentuazione dell’oltranzismo, che si risolve nel tentativo di gruppi o di categorie particolari di imporsi – al di fuori della regola democratica e del quadro costituzionale – all’intera società nazionale. Qualora non si utilizzassero tutti gli strumenti normativi ed operativi esistenti per circoscrivere, finché possibile, queste forme di estremismo frenetico e irresponsabile, si potrebbe correre il rischio di assistere passivamente alla fine delle libere istituzioni democratiche della nostra Patria».

IL «CASO MAZZA» SULLA STAMPA

«Il prefetto è uno sciocco che non capisce quanto accade o un fazioso che non vuol capire. Milano merita un prefetto della Repubblica, non un portavoce della cosiddetta “maggioranza silenziosa” che poi non è altro che una querula minoranza» (Eugenio Scalfari, allora deputato del Psi, su La Stampa del 18 aprile 1971)

«Non da oggi e nemmeno da ieri denunciamo l’esistenza a Milano di una centrale di provocazione antidemocratica: una centrale la cui pericolosità sta in rapporto diretto con la complice presenza in essa di persone e corpi che appartengono all’apparato statale. Come sempre la provocazione si esplica in forme molteplici o con l’azione diretta o con l’uso di drappelli stipendiati di picchiatori fascisti o mediante l’introduzione di spie e agenti variamente mascherati ovunque si giudichi esista un terreno adatto o infine con l’inganno spregiudicato della pubblica opinione. Di tutto ciò si serve o tenta di servirsi chi, dall’interno dei pubblici uffici, mira a precisi scopi politici reazionari. Il meccanismo della provocazione è scattato ripetutamente a Milano nell’ultimo anno e mezzo: dalla carica sconsiderata dinanzi al teatro Lirico nella quale trovò la morte l’agente di polizia Annarumma, giù fino all’aggressione di via Festa del Perdono che portò all’uccisione dello studente Saltarelli. Già più volte abbiamo avuto modo di segnalare il ruolo svolto – nel particolare clima politico di quella città – dalla prefettura di Milano. Dicono che il prefetto Mazza affidi le proprie fortune di carriera a una svolta politica di tipo reazionario e repressivo. E’ un fatto che il prefetto Mazza,nel periodo in cui nel centro di Milano, San Babila e dintorni, agivano liberamente gruppi di manganellatori in camicia nera, stilava uno pseudo-rapporto nel quale si farneticava di fantomatiche organizzazioni paramilitari di sinistra. E’ un fatto che la prima notizia circa l’esistenza di questo rapporto veniva pubblicamente rivelata da un parlamentare del MSI, il senatore Nencioni. E’ un fatto, infine, che i giornali di estrema destra di Roma e Milano sono venuti ieri in possesso del testo integrale anzi (a giudicare dalle fotocopie pubblicate) dell’originale stesso del rapporto. Ed è un fatto che tale pubblicazione – fatta col massimo rilievo dalla stampa fascista – è avvenuta alla immediata vigilia di una manifestazione di tipo sovversivo e anticostituzionale indetta a Milano per oggi. Non chiediamo in che modo questi documenti falsi e unilaterali siano venuti alla luce e con simili destinazioni. Non lo chiediamo perché lo sappiamo benissimo. E’ certo che qualcuno dal ministero degli Interni aiuta il prefetto Mazza a rendere pubblici i suoi rapporti “riservati”. Quel che affermiamo è che questo episodio colma la misura. Il prefetto di Milano non s’accontenta di andare in cerca di farfalle invece di perseguire e colpire i fascisti. Adesso – addirittura – pare voler direttamente incoraggiare ben precise attività politiche. E’ ora che se ne vada» (L’Unità, aprile 1971)

«Oggi – proprio poche ore dopo la notizia che un missino era capo della banda criminale di Genova* – i giornali fascisti pubblicano il cosiddetto “rapporto Mazza” dal quale figurerebbe che a Milano di fatto agiscono soltanto organizzazioni illegali di estrema sinistra e in cui si ignora completamente la presenza dei teppisti fascisti i quali, proprio nei giorni in cui il rapporto sarebbe stato steso, stavano dando vita a una serie di criminali aggressioni contro cittadini e organizzazioni democratiche. […] Le affermazioni contenute in questo rapporto – su cui fino al momento in cui scriviamo né lo stesso prefetto Mazza né il ministro dell’Interno si sono ancora pronunciati – sono senza dubbio gravissime. Non soltanto perché danno dei gruppi della sinistra extraparlamentare una visione falsa, deformata e del tutto arbitraria (basti dire che le manifestazioni, ad esempio, del Movimento studentesco si sono svolte a Milano nel massimo orine quando la polizia non è intervenuta a proibirle): ma soprattutto perché si ignora deliberatamente la presenza delle organizzazioni teppistiche fasciste che dal gennaio del 1969 al febbraio del 1971 hanno compiuto – secondo un elenco largamente incompleto – almeno 140 gravi atti di violenza contro le persone e sedi democratiche. E’ una attività che il prefetto Mazza non può certamente ignorare e che è stata oggetti di dettagliate inchieste non solo da parte del nostro giornale ma anche del Giorno e dell’Avanti! La pubblicazione di questo rapporto – proprio alla vigilia di una nuova manifestazione filofascista a Milano sotto l’insegna della “maggioranza silenziosa” – costituisce quindi un nuovo grave atto – prontamente strumentalizzato dai fascisti – di quella centrale della provocazione esistente a Milano e che ha portato a un susseguirsi di gravissimi attacchi alla democrazia. Questa centrale della provocazione fu dal nostro partito denunciata proprio nei giorni in cui venne ucciso lo studente Saltarelli. E’ una “centrale” che sembra coinvolgere anche personaggi che avrebbero il dovere di difendere la legalità democratica. Lo ricordava proprio in questi giorni, sul nostro giornale, il compagno Gianni Cervetti, segretario della Federazione, in un commento in cui si diceva che “a Milano vi è una istituzione statale (seppure costituzionale illegittima), la prefettura, con precise funzioni tra l’altro di rappresentanza governativa e con un prefetto che pare inamovibile. E’ superfluo chiedersi quali siano le sue precise responsabilità negli avvenimenti che hanno visto come protagonista a Milano la “centrale della provocazione”? » (L’Unità, aprile 1971)

«I giornali para-fascisti La Notte di Milano e Il Giornale d’Italia di Roma hanno pubblicato nel pomeriggio di ieri il testo di un rapporto riservato inviato in doppia busta dal prefetto di Milano, Libero Mazza, al ministero degli Interni in data 22 dicembre 1970. Appare veramente incredibile che un documento così delicato e riservato possa essere ora nelle mani dei giornali dell’estrema destra. […] Il compagno Scalfari chiede di “conoscere per quali vie il giornale parafascista ‘La Notte’ è venuto in possesso di tale rapporto riservato” e “quale sia il giudizio del ministro dell’Interno sul contenuto del predetto documento e sulle proposte ivi formulate”. Infine Scalfari chiede di sapere “se il prefetto Mazza abbia mai inviato al ministero dell’Interno analoghi rapporti contenenti analoghe proposte con riferimento ai movimenti sovversivi fascisti, alle formazioni paramilitari squadristiche che per mesi hanno infestato il centro di Milano a pochi metri dal palazzo della prefettura, come risulta da innumerevoli denunce di associazione, di parlamentari, di singoli cittadini e dello stesso sindaco della città”» (Avanti!, 17 aprile 1971)

Uno dei numerosi articoli dell’Avanti! sulla vicenda del rapporto Mazza

«Il “Giornale d’Italia”, la “Notte”, il “Corriere d’Informazione” hanno riportato ieri – sul primo ne abbiamo viste riprodotte parti in fotocopia – una riservata-raccomandata doppia busta indirizzata dal prefetto di Milano al ministero dell’Interno sulla situazione dell’ordine pubblico nella città, con particolare riferimento alle “formazioni estremiste extraparlamentari”. Nel merito di quanto il prefetto di Milano ha scritto – o avrebbe scritto perché la riproduzione della fotocopia non è integrale – avremmo parecchie cose da dire, le stesse cose che abbiamo già dette e ripetute in innumerevoli occasioni a proposito dei problemi connessi alla tutela dell’ordine pubblico. Ma in questa circostanza esse passano in secondo piano rispetto alla domanda che rivolgiamo ai pubblici poteri, al prefetto di Milano, per essere precisi, e al ministro dell’Interno, su come è potuto accadere che un documento, riservato, raccomandato, e in doppia busta, sia finito nelle redazioni di giornali notoriamente legati agli ambienti della media e della estrema destra e per di più in coincidenza singolare con una manifestazione “anticomunista” annunciata con gran clamore per oggi a Milano. L’importanza che noi attribuiamo alla domanda non è motivata solo dal fatto, di per sé, gravissimo e addirittura scandaloso, che un documento estremamente delicato, passato presumibilmente per pochissime mani, è stato tranquillamente fotografato e ceduto o venduto da funzionari dello Stato, i quali hanno così commesso un reato specificamente configurato come tale, e che debbono essere scoperti allontanati e puniti a norma di legge. L’importanza che noi attribuiamo alla domanda, e quindi alla risposta che ci verrà data, è anche di natura politica e si riallaccia al problema di quella politica dell’ordine pubblico su cui più volte siamo intervenuti. E il problema è questo: nei gangli vitali dello Stato, nei personaggi che vi si annidano, è ancora in auge e in vigore, tollerata, quando addirittura non incoraggiata, da certi ambienti politici, la convinzione che i militanti di partito, magari anche democristiani, gli uomini che professano apertamente e liberamente opinioni politiche democratiche, vanno guardati con sospetto, tenuti a bada, circondati di sana diffidenza; laddove gli appartenenti a quel partito silenzioso dei lettori del “Tempo”, del “Borghese”, dello “Specchio” sono per definizione dotati di “senso dello Stato”, difensori dell’ordine, pensosi dei destini della patria, degli di ogni fiducia. In realtà – e questo è il senso politico della domanda – il criterio va rovesciato. Sono i militanti senza tessera del partito del qualunquismo autoritario e fascistoide, operanti nei gangli più delicati dei pubblici poteri, che costituiscono il nucleo del peggiore e più pericoloso sovversivismo esistente in Italia. Sono quelli che montano la speculazione sulle “brigate rosse” lasciando filtrare notizie solo nella direzione voluta; sono quelli che scoprono in una banda di volgari delinquenti una “centrale di maoisti” i quali poi – guarda caso – si scopre che sono diretti da un ex candidato del MSI e che per noi volgari delinquenti restano, senza qualifica politica: sono quelli che trafugano a fini probabilmente anche di lucro, ma sempre in direzione del sovversivismo reazionario, documenti riservati al ministero dell’Interno, trovando giornali, i quali fedeli alla loro ispirazione di sempre, coltivano il “senso dello Stato” valendosi dei trafugatori. La verità è che gli “estremismi” possono essere molti. Avere colori cangianti, volti diversi: ma quello pericoloso è uno solo ed è l’estremismo che ha dalla sua la forza economica dei settori più parassitari e rapaci del padronato, la forza politica che gli viene dalle compiacenze di chi intende farsene strumento e dalle complicità dei fascisti e fascistoidi vecchi e nuovi che servono lo Stato rubando documenti, la forza d’urto che trae dall’arruolamento di teppisti e di delinquenti professionali» (Avanti!, aprile 1971)

«La faccenda del rapporto riservato e in “doppia busta” del prefetto di Milano al ministro degli Interni, sullo stato dell’ordine pubblico nel capoluogo milanese, ha avuto ieri diversi sviluppi: alcuni previsti, altri prevedibili, altri ancora perfettamente collocabili nella stessa logica. Come era previsto, la stampa fascista e parafascista ha cercato di contrabbandare le preoccupazioni e lo sdegno dei socialisti e degli altri partiti democratici per il fatto che il rapporto segreto e riservato sia finito sui tavoli di certe redazioni come una difesa delle eventuali formazioni paramilitari che si mascherano con etichette “di sinistra”: noi sosteniamo che il dovere di un prefetto è quello di fare tutto ciò che ritiene opportuno (rapporti riservati al ministro compresi) per assolvere il proprio compito, ma che se i suoi memoriali – in versione originale o in fotocopia – arrivano a chi ha interesse a sfruttarli vuol dire che lungo il tragitto che va dal tavolo del prefetto a quello del ministro agiscono spie ed agenti provocatori che vanno individuati e colpiti. […] Come era prevedibile gli esponenti socialdemocratici, corifei della filosofia degli “opposti estremismi” si sono trovati allineati con le centrali fasciste: ecco dunque il segretario regionale lombardo del PSDI chiedere perentoriamente la limitazione del diritto di sciopero “al fine di garantire la libertà del lavoro minacciata dalle burocrazie sindacali e dal fanatismo di pochi attivisti”. Poi ci sono alcuni fatti che completano il puzzle: la rilevazione del rapporto prefettizio cade nel momento in cui la minoranza sediziosa e fascista indice una manifestazione provocatoria alla vigilia dell’anniversario della liberazione e mentre si apre la Fiera di Milano. Prima che si concluda la giornata di venerdì due bombe fasciste vengono lanciate contro la federazione del PSI e contro una sezione comunista. La firma degli attentatori è imbrattata sul marciapiede: SAM ovvero “squadre d’azione Mussolini”. Infine il divieto dell’ultimora alla manifestazione “anticomunista”, lo stato d’assedio, l’indignazione dei cittadini democratici, le azioni squadriste dei gruppi paramilitari fascisti, l’incendio della associazione Italia-Cina, gli altri incidenti di cui riferiamo in questa stessa pagina. A questo punto è evidente che ci troviamo di fronte a una vastissima provocazione in cui gruppuscoli e dinamitardi hanno la parte di comparse. Il compagno Scalfari (che ha già presentato una interrogazione urgente al ministro dell’Interno) ha così commentato i recenti fatti: “Non credo sia casuale che il documento riservato del prefetto – inviato al ministro 4 mesi fa – sia stato trasmetto ai giornali (evidentemente dagli uffici della stessa prefettura) il giorno prima della manifestazione parafascista organizzata a Milano per oggi. E’ invece certamente un caso – peraltro assai significativo – che la pubblicazione del predetto documento abbia preceduto di poche ore l’esplosione di dinamite fascista nella federazione del PSI di Milano e in una sezione del PCI. Milano merita un prefetto della Repubblica, non un portavoce della cosiddetta maggioranza silenziosa che poi non è altro che una querula minoranza borbonica”.» (Avanti!, aprile 1971)

Il «famoso» articolo del vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno in difesa del prefetto Mazza

«Viene fatto di rimpiangere che a Milano manchi l’uso comune, per esempio, in Calabria di coprire i muri con striscioni “Viva il Vescovo”, “Viva il sindaco”, “Viva Misasi”: altrimenti ci sarebbe da scrivere “Viva il Prefetto” in piazza del Duomo. Non conosciamo le idee politiche del prefetto Mazza: ma nel suo rapporto (che in mancanza di smentite si presume autentico) c’è una sola frase discutibile e magari degna di condanna: il rammarico che non si possa, come in Francia, sciogliere i “gruppuscoli” con misure amministrative. Per fortuna in Italia non è dato al governo un così rischioso strumento di arbitrio. In tutto il resto il rapporto riassume dati che ogni lettore di giornali già conosce e che ogni abitante del centro di Milano può confermare. Proliferano, dice il prefetto, le formazioni estremiste “cinesi”, anarcoidi e di estrema destra; diverse per ideologia e tecniche di combattimento, si propongono di sovvertire il nostro sistema politico “attraverso la violenza organizzata”: e per raggiungere questo obiettivo si danno strutture paramilitari con servizio medico, collegamenti radio,mezzi per intercettare le comunicazioni della polizia, elmetti e maschere e tante armi definite “improprie” dalla legge, ma efficacissime nel combattimento di strada, dai bastoni alle catene, dalle fionde ai lanciarazzi e alle bottiglie molotov. […] Che cosa si può rimproverare al prefetto? Qualcuno contesta il numero dei guerriglieri: ma è la stessa cifra indicata al nostro Pansa – e mai smentita – dal questore Allitto, uomo non sospettabile di benevolenza per i fascisti, in una intervista a Capodanno. Altri deplorano l’allusiva indicazione ad una prevalenza numerica della estrema sinistra: ma è un dato che risponde a verità, anche se alleanze dirette e indirette potrebbero rendere meno isolata, e quindi politicamente più inquietante, l’estrema destra. Ma forse il prefetto è condannato soprattutto per aver accolto la tesi detestata degli “opposti estremismi”: come se un prefetto, un questore, avessero il diritto di cercare il colore dei reati, anziché il dovere di applicare imparzialmente la legge […] Il prefetto di Milano ha l’avallo di Nenni. Il quale in una intervista a L’Europeo sottolinea certo la “grande differenza morale e storica” i tra i due estremismi e giudica i fascisti, legati ad una tradizione recente e a forze conservatrici, più pericolose dei maoisti, guerriglieri “d’una rivolta tutto sommato infantile” e fuori dalla realtà europea; ma afferma che sul piano materiale “un atto di violenza maoista e un atto di violenza fascista possono essere la stessa cosa”. […] Costituzione e norma penale consentirebbero certo di sciogliere, senza usare gli arbitrii amministrativi del sistema gollista, i gruppuscoli paramilitari: entrambe vietano le milizie private. Ma non mi sembra necessario e nemmeno opportuno. Lasciamo che i “cinesi” sognino la loro rivoluzione maoista, gli anarchici inseguano l’utopia antistatalista, il Fronte nazionale vaneggi su una repubblica militar-corporativa: purché tutti gli squadristi finiscano in carcere al primo reato e ci restino fino all’espiazione della pena. Dei ventimila guerriglieri di Milano forse duemila saranno davvero temibili: ma sembra che si trovino presenti, sempre gli stessi, in tutte le provocazioni e le battaglie» (Carlo Casalegno, La Stampa, 20 aprile 1971)

«Sono sette anni che è a Milano. Nessuno ha mai resistito tanto. […] Non è davvero possibile che qualcuno riesca a scalzarlo e a fargli maturare la pensione in uno di quei confortevoli uffici dove, di solito, si conclude, in punta di piedi, la corsa agli “avanzamenti” degli alti funzionari dello Stato? Tutto dipende da Roma, si dice. Se a Roma si leva un certo vento politico, anche per l’intramontabile Libero Mazza sarà finito il tempo delle sue “energiche e imprevedibili” sortite. Sarà ridimensionato. Senz’altro» (Paese sera, 6 luglio 1973)

«Attento osservatore e quasi geloso custode delle prerogative che derivavano dalle sue funzioni, il prefetto Mazza è stato al centro di polemiche e di critiche che hanno dilagato talvolta sul piano nazionale. Particolarmente nell’aprile 1971 quando fu resto pubblico, in maniera non ancora chiara, il testo del suo rapporto sulle organizzazioni estremiste milanesi dell’ultrasinistra e dell’ultradestra suscitando emozioni e controversi giudizi. Di carattere estremamente riservato, i milanesi possono ricordarlo mentre, insieme a pochi intimi collaboratori, passeggiava negli intervalli della sua giornata di lavoro per le vie del centro storico quasi a rendersi conto di persona degli umori che fermentavano in città.» (Corriere della Sera, al momento del commiato di Mazza dalla prefettura di Milano, giugno 1974)

«“Credo di essere un progressista sul piano delle riforme sociali, un moderato per le esigenze di ordinata convivenza sociale”. E’ Libero Mazza, 69 anni, toscano di Pisa. Resse la prefettura di Milano dal 1966 al 1974, gli anni più tumultuosi della contestazione e delle lotte sociali. In più di un corteo fu inalberato il cartello “Mazza, ti impiccheremo in piazza”. Rimase tranquillo al suo posto, sollecitando invano una politica più decisa per l’ordine pubblico. Nel 1971 inviò un rapporto, 133 righe in tutto, al ministro Restivo: parlava di gruppi paramilitari che operavano a Milano. Non ebbe successo, quelle notizie andavano controvento: gli uomini di governo continuarono a rimandare: le sinistre l’accusarono di voler fare il “governatore” di Milano. Una polemica che non si è ancora spenta benché da un lustro l’ex prefetto sia uscito dai ranghi della amministrazione pubblica e occupi un posto al vertice della Liquigas. “Perché mi sono candidato, da indipendente, con la DC a queste elezioni politiche del 1979? Perché è un partito che si ispira ai concetti di democrazia occidentale, fa riferimento all’etica cristiana, ed è l’unico schieramento politico che per la sua forza può fronteggiare il partito comunista. Certo, la DC ha colpe e responsabilità nel deterioramento della situazione generale. Ma non mi pare sia il caso di indugiare nelle recriminazioni. Ora si tratta di vedere com’è possibile affrontare i più angosciosi problemi del momento a cominciare dalla ricostruzione dello Stato e dalla lotta contro la criminalità comune e politica. Con quel rapporto a me sembrava di aver scritto cose semplici, rispondenti alla realtà effettiva. Purtroppo ci furono dei travisamenti, mi accusarono di convalidare la teoria degli opposti estremismi. Gli attacchi furono violenti e vennero soprattutto dalla corrente oltranzista dei socialisti, che pure erano al governo, e dai comunisti. Certo il linguaggio del PCI, quando condanna il terrorismo, oggi ricalca quasi il mio linguaggio di allora. Tuttavia le frange extraparlamentari ebbero in quegli anni protezione e qualcuno, disse anche, foraggiamento dal PCI che esercitava una opposizione forte, decisa, dura. I comunisti protestarono contro il mio rapporto benché parlasse solo di extraparlamentari: forse si consideravano i gelosi, sensibilissimi, tutori di quelle formazioni. Invece ci sarebbe voluta, subito, una terapia adeguata: ora tutto è più difficile e la prognosi è incerta. Occorrevano rimedi sul piano della normativa e dei principi costituzionali: la democrazia non può accettare la presenza di bande armate anche se allora erano armi improprie. Avevamo il dovere di intervenire, anche con la coazione diretta. Cioè di reagire alla violenza con la forza legittima dello Stato. Se è esistita una connessione, una discendenza diretta fra quei gruppi extraparlamentari e i successivi nuclei del terrorismo? Credo di sì. Non è da escludere che certi giovani permeati di spirito rivoluzionario, a un certo punto, non abbiano saputo adeguarsi alla nuova linea del PCI che nel 1973 intraprese la politica del compromesso storico. E forse era difficile far capire a questi giovani che, per arrivare alla rivoluzione, si doveva collaborare con la borghesia. Io sono sempre stato anticomunista, per motivi ideologici. Non ho capitali, non ho aziende, non ho patrimoni da difendere. Considero il comunismo una ideologia irrealizzabile, quasi antibiologica: perché l’eguaglianza non c’è nella natura umana. E’ vero però che dal 1973 il PCI ha provato una nuova strategia, dettata da motivi di opportunità politica, sia interni che internazionali. Il PCI deve tentare la scalata al potere attraverso il voto: se riuscisse, sarebbe la prima volta che un partito comunista arriva al potere per via non violenta. Però nonostante alcuni tentativi di distacco, i legami con la casa-madre, con la nazione guida, sono rimasti saldi. Mio padre era un socialista,ma quel che oggi si direbbe un socialdemocratico. Se lo ricorda anche il presidente Pertini: mio padre dovette rinunciare anche alla carriera universitaria per la sua opposizione al fascismo. La moda dei magistrati in politica? Non avrei da sollevare obiezioni se il magistrato avesse la forza di seguire una sua ideologia, ma di tenerla ben distinta dall’esercizio delle sue funzioni. Invece capita talvolta che qualche magistrato tenga conto del suo spirito di parte. E questo provoca grave danno all’immagine della giustizia. Senza parlare poi di quell’altra cerchia, molto ristretta per fortuna: che arriva ad auspicare addirittura forme di lotta armata contro lo Stato. Quali sono i miei principi di riferimento? Credo alla libertà nell’ordine. Respingo l’idea che la democrazia debba essere sgangherata e inefficiente. Non è vero che una società ordinata e disciplinata sia sinonimo di conservazione. Al contrario, la democrazia deve essere ordinata, efficiente, prestigiosa. Altrimenti si corre il rischio di cadere in quelle situazioni di anarchia che in genere precedono le dittature. In che modo combattere il terrorismo? Con leggi adeguate. Per esempio: la polizia deve poter interrogare i fermati. Occorrono mezzi e addestramento per le forze dell’ordine. Ma l’organismo che potrebbe affrontare in modo decisivo questo terrorismo, che è quasi diventato guerriglia, è rappresentato soprattutto dai servizi di sicurezza. Inutile farsi illusioni: ci vorrà tempo perché i servizi si riprendano. Ma non si deve dare agli elementi eversivi una sensazione di impunità. Perché sono stati smantellati i servizi? Da una parte vi è stata insipienza e irresponsabilità, dall’altra il proponimento di distruggere uno dei più efficaci strumenti di difesa dello Stato democratico. Ma è stato colpevole anche tollerare contese personali all’interno del servizio» (Da una intervista concessa a Walter Tobagi, Corriere della Sera maggio 1979)

«Si passò dalla protesta prevalentemente folkloristica del Sessantotto a quella con le armi, sia pure improprie: bulloni, cubetti di porfido, spranghe, chiavi inglesi, molotov. Era il 1969. Il corteo diventa plurisettimanale. A Milano il panorama è spesso sudamericano: barricate, legnate, assalti, auto rovesciate, vetrine in frantumi. Molti feriti, ogni tanto ci scappa il morto. Certi pomeriggi era come se ci fosse il coprifuoco: la gente non usciva di casa, guardava inorridita dalla finestra, e non capiva. Non capiva e si domandava: dove andremo a finire? La risposta venne dal prefetto Libero Mazza che dal 1966 abitava il palazzo milanese del governo e qualche esperienza se l’era fatta. Scisse al ministro dell’Interno, Restivo (democristiano), una relazione memorabile, in cui tra l’altro, dopo aver denunciato il “progressivo rafforzamento e proliferazione delle formazioni estremiste extraparlamentari di ispirazione maoista (Movimento studentesco, Lotta continua, Avanguardia operaia, eccetera) nonché dei movimenti anarchici e di quelli di destra”, sosteneva la necessità di un tempestivo intervento per sciogliere di autorità, come aveva fatto con successo la Francia, le frange più agguerrite (circa 20 mila persone) perché minacciavano seriamente di “sovvertire le istituzioni democratiche attraverso la violenza organizzata”. Parole profetiche. La missiva divenne famosa sotto l’etichetta “Rapporto Mazza” di cui si discusse per lustri. Era datata 22 dicembre 1970. Riassumeva quanto era sotto il naso di tutti,ma a cui nessuno osava o poteva opporsi. Tantomeno il ministro che prese quei fogli e li chiuse nel cassetto. Dove rimasero fino al 16 aprile 1971 quando qualcuno li estrasse consegnandoli al “Giornale d’Italia” che li pubblicò. Ma la divulgazione non servì ad aprire gli occhi all’apparato; anzi, fu l’occasione per una ondata di polemiche che impedì di esaminare con lucidità la diagnosi dell’alto funzionario. Un altro ministro, quello della pubblica istruzione, dichiarò che gli “studenti non si devono toccare neanche con un fiore”. I comunisti si indignarono proclamando che il prefetto voleva uccidere la libertà. I socialisti, che facevano parte del governo di centrosinistra ma, al tempo stesso, gareggiavano col PCI nel proteggere e coccolare i barricaderi, rimproverarono di rozzezza culturale l’autore del rapporto perché aveva messo sullo stesso piano i focosi virgulti della sinistra e la teppaglia nera. La teoria degli opposti estremismi non solo fu bocciata, ma addirittura irrisa. La grande folla si sentì legittimata a insistere nella ebollizione e si scatenò. Walter Tobagi scrisse sul Corriere della Sera che in più di un corteo fu inalberato il cartello “Mazza, ti impiccheremo in piazza”. I paladini dell’antifascismo, allora, si esprimevano con queste delicatezze. Carlo Casalegno è uno dei pochi che prende posizione in favore della relazione e difatti sappiamo che fine gli hanno fatto fare, la stessa di Tobagi. Il vicedirettore della Stampa firma un articolo titolato “Viva il prefetto”. Ma chi gli dà retta? Nenni, per la verità, pur precisando che fra i due estremismi c’è una grande differenza “morale e storica”, riconosce che dal punto di vista materiale “un atto di violenza maoista e un atto di violenza fascista possono essere la stessa cosa”. Ma anche il vecchio capo socialista è inascoltato. Solamente oggi, a distanza di quasi quindici anni, si inizia a capire da quale parte fosse la ragione. Come mai c’è voluto tanto? Il più accreditato per dare una spiegazione è lo stesso che scrisse quel rapporto, Libero Mazza, che lasciò l’amministrazione nel 1974 e, dopo una parentesi come parlamentare al Senato della Repubblica (fu eletto a Milano con 37 per cento dei voti, indipendente nelle liste della DC) oggi vive lontano dalla politica ma continua a interessarsene con immutata attenzione. “Ciò che misi nero su bianco nel 1970 – racconta l’ex prefetto – erano concetti elementari, osservazioni suggerite dal buon senso, e forse proprio per questo non furono accolte. Il documento, dato il conformismo imperante, era coraggioso; ma non conteneva niente di straordinario, era semplicemente la fotografia della situazione. Come mi era venuto in mente di presentarlo? Il 12 dicembre 1970 c’era stato uno dei soliti scontri. Un agente aveva lanciato un lacrimogeno e aveva colpito al petto un giovane, si chiamava Saltarelli. S’immagini le polemiche. La pubblica sicurezza fu sottoposta alle accuse più spietate. Ebbi un colloquio telefonico col ministro e gli feci notare che gli uomini erano pochi, un migliaio, che si riducevano a trecento, sì e no, tenuto conto dei riposi, dei servizi speciali e delle malattie. Pochissimi per una città come Milano che letteralmente scoppiava. E mi permisi di dire, per sottolineare l’urgenza di ottenere rinforzi, che Roma disponeva di un organico dieci o quindici volte superiore al nostro. Ma il ministro non era sensibile al discorso. Sentenziò che la capitale era più importante. E non ci fu verso di fargli cambiare opinione, neanche quando gli ricordai che la vera capitale, nel bene o nel male, era questa e che se fosse crollata si sarebbe sfasciato il Paese. Se rinunciai alle richieste? Nemmeno per sogno. Qualche giorno più tardi andai al Viminale e ribadii di persona quello che avevo detto per telefono. Ma il risultato fu identico: zero. Quando afferrai la maniglia, udii la voce di Restivo: ‘Mi mandi un promemoria’. Al momento trascurai l’invito, ma tornato a Milano ci ripensai e feci quel lavoro, il rapporto. Ebbi modo di attingere i dati dalle forze dell’ordine. Da anni seguivo le vicende milanesi, sapevo tutto a memoria. Rammento che la prima occupazione fu alla Cattolica,nel 1967. Capanna era già in pista. Ma i docenti e i dirigenti furono decisi, bisogna ammetterlo. E riuscimmo con il loro consenso a riportare la normalità. Ma la contestazione, soffocata da una parte, sfiatò alla Statale dove Capanne e il suo seguito si erano subito trasferiti. Da qui in poi fu un disastro. Gli studenti, soprattutto i più sprovveduti, si accodarono al gruppetto dei capi e divennero padroni assoluti dell’università. Ho assistito a episodi vergognosi: professori che, per paura, si prostravano e automaticamente davano spazio alle ribellioni. A uno di quelli che davano il diciotto politico un giorno dissi: ‘presto avremo dei dottori somari’. Mi rispose che era il modo più efficace per combattere il sistema. Ma queste sono sciocchezze, servono soltanto per dare un’idea del clima. Dal Sessantotto al Settanta gli estremisti crebbero a dismisura, sempre più sfrontati sempre più aggressivi. E la polizia impotente: se interveniva, quando poteva, rischiava di essere incriminata. Era l’epoca in cui molti magistrati erano pronti a procedere contro gli agenti mentre sorvolavano sulle violenze dei dimostranti professionisti. In due anni 495 uomini delle forze dell’ordine rimasero feriti, alcuni gravemente. Anche nelle fabbriche era il caos: erano spuntati i CUB, comitati unitari di base, che organizzavano picchetti, malmenavano i dirigenti, sabotavano la produzione. […] Una volta tre o quattro carabinieri col loro capitano furono circondati da un’orda di incontenibili. Si stava mettendo male e l’ufficiale sparò in aria tre o quattro colpi. Uno rimbalzò sul cornicione di una casa, poi schizzò sull’asfalto e si conficcò nella natica di un giornalista. Apriti cielo. Un ministro mi telefonò furibondo, gridando che erano cose da pazzi e non dovevano succedere più. Cercai di precisare, ma inutilmente. La polizia umiliata, dileggiata, demoralizzata, insufficiente, non fu più in grado di dominare la situazione. Le conseguenze sono state il terrorismo. La sua matrice è in quegli anni. All’inizio non solo non è stato contrastato, ma addirittura favorito. E quando è stato valutato nei suoi reali pericoli era troppo tardi; per batterlo si è pagato un prezzo che si poteva benissimo risparmiare. Bastava un po’ di coraggio”» (Corriere della Sera, ottobre 1985)

* L’autore del pezzo si riferisce alla cosiddetta Banda XXII ottobre, attiva a Genova tra il 1969 e il 1971