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Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
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Il Sudamerica sotto le dittature militari. Buenos Aires

Redazione Spazio70

Da un reportage di Alberto Baini per «Epoca»

«Avrebbe qualcosa sul generale Peron?». Con occhi bianchi per lo stupore e la collera, il commesso della libreria guarda lo straniero che gli sta davanti cercando di capire, disperatamente, in un attimo, se sia un imbecille oppure un provocatore […] Sulla strada, in quel momento, passa una colonna di soldati. Su tutte le camionette c’è una mitragliatrice con il nastro dei colpi ingranato e i soldati imbracciano il mitra in modo da coprire tutti i possibili angoli della strada. Finge di non vederli la gente che sta sulla porta della cartoleria Varsi – San Martin 254 – , i passanti tirano di lungo o si girano verso le vetrine e in un attimo qualcosa che sta fra l’apprensione e la paura corre come un filo di vento lungo la strada mentre la colonna si allontana nel traffico che si è fatto da parte. «Non c’è più niente», dice il commesso, «ancora un poco e non c’è più Buenos Aires».

Un anno dal golpe. Andata al potere «per mettere fine a tutte le forme di corruzione, di estremismo e di delinquenza», la giunta fa regnare sull’Argentina un ordine che somiglia a quello cileno. I soldati sparano a vista su chi è sorpreso a tracciare una scritta su un muro; un manifesto illegale costa sei anni di carcere, si muore per un articolo di giornale, per un appello allo sciopero o anche per nulla. Ogni notte nella città sterminata […] si ritrovano morti, «sovversivi» che la polizia aveva in mano da mesi. Intere famiglie sono scomparse e in certi quartieri si vedono – bruciate e vuote – case di «nemici della patria» lasciate così «per dare un esempio». Cinque o sei volte per sera la televisione interrompe i programmi. «E’ mezzanotte. Lo sai dove è tuo figlio a quest’ora?».

«VIDELA? TROPPO INGENUO E SENSIBILE»

Jorge Rafael Videla

Di giorno la vita sembra normale, la sera tutto finisce in fretta. Nella piazza dove sorge la Casa Rosada sembra che la gente non vada più volentieri. E’ raro vedere una coppia seduta sulle panchine, tra la statua della repubblica e il monumento al generale Belgrano, sono asciutte le vasche delle fontane dove un fatale 17 di ottobre (con Peron al balcone) gli scamiciati si lavarono i piedi tanto per fare capire ai borghesi che la rivoluzione era cominciata. Al tramonto, quando un soldato ammaina la bandiera sul tetto della Casa Rosada, un altro soldato gli si tiene accanto, il mitra fra le mani, nel timore di chissà quale attentato.

Da qualche parte del palazzo, in uno studio non grande, con le finestre chiuse e le tende tirate, lavora il generale Jorge Rafael Videla. In meno di un anno è già sfuggito alla morte due volte. Una bomba scoppiò in novembre dentro al campo de Mayo, sotto al palco dal quale aveva appena parlato, un’altra mancò di quaranta secondi lui, il suo aereo e il suo seguito, mentre partiva da un aeroporto di Buenos Aires per una visita a Cordoba.

E’ un uomo di 52 anni, «buon cristiano, buon marito, padre di sette figli». Ha un viso magro, i baffi, una vecchia e tradizionale pettinatura argentina – i capelli lustri, lisci, tirati – e un nervosismo, una timidezza che vince con grande fatica nelle sue uscite ufficiali. Comanda la più feroce macchina di repressione militare che abbia mai oppresso questa terra di caudillos e di generali e si continua a parlare di lui come di un moderato o di un liberale. Gli stanno dietro nella giunta, con i loro vecchi buoni nomi italiani, Emilio Massera e il brigadiere de l’aire Ramon Agosti. Lo incalzano altri generali, i falchi Menendes e Suarez Mason. La marina, che è l’arma più dura, quella che reagisce con maggiore violenza al comunismo, al peronismo, alla sovversione, lo giudica «troppo ingenuo e sensibile».

UN REGIME MILITARE CHE VIVE DI UN ANTICOMUNISMO RUDIMENTALE

Cos’altro può succedere ancora? I partiti svolgono una semplice «attività amministrativa». I grandi capi del sindacalismo sono in carcere o in fuga. I soldati fanno la guardia davanti ai palazzi deserti della Camera e del Senato. La macchina militare occupa ormai tutto lo spazio dove ribolliva un tempo la tumultuosa vita politica argentina. L’esercito governa, amministra, uccide, si occupa dei corpi e anche delle anime e poiché i suoi ingranaggi non devono fermarsi mai, c’è sempre un reparto di granatieri a cavallo in marcia verso qualche punto di Buenos Aires in cui si celebra o si ricorda qualcosa. Commemorano nei primi giorni di marzo il padre della patria San Martin, i 164 anni della bandiera, il fondatore della marina ammiraglio Brown, la base militare di Punta Indio, un pionere della aviazione e una quantità di altre date e ricorrenze minori.

C’era a quelle cerimonie un’aria di alienazione completa. I granatieri portavano uniformi e stendardi dell’Ottocento, i marinai con le divise storiche sembravano illustrazioni di un libro inglese del diciottesimo secolo e solo la presenza sul palco degli ammiragli, dei generali e dei brigadieri, riconduceva ai drammi dell’Argentina di oggi. A un certo punto le trombe suonavano e sotto ai monumenti o davanti ai sacelli di padri della patria sepolti da un secolo, c’era sempre un generale che rievocava come un fatto di ieri una carica contro le truppe spagnole (1810) o una remota campagna sugli altipiani del Paraguay. Ad ascoltare i discorsi, però, si capiva che dentro a quelle frasi retoriche, gonfiate dalla sonorità della lingua spagnola, i generali esponevano una loro visione del mondo. Come altri regimi militari, da Montevideo a Santiago del Cile, anche quello argentino non ha una ideologia. Vive di un anticomunismo rudimentale sul quale innesta alcune idee, vecchie quanto sono vecchie le caserme e le uniformi storiche dei granatieri. Il potere militare è convinto di contrapporre «l’organizzazione allo sfacelo, l’ordine al caos».

«UN UOMO È FUGGITO DAL CARCERE DI JUNIN. È FACILE RICONOSCERLO: NON HA PIÙ NÉ UNGHIE NÉ DENTI»

(Foto di Mario De Biasi)

La società civile gli sembra un universo assurdo e imperfetto. Nelle istituzioni politiche non vede altra cosa che l’inefficienza e la corruzione. E’ convinto che lo sviluppo di un Paese sia una questione tecnica come il decollo di un aereo, un semplice calcolo di pesi e di spinte. Così mescola aspirazioni tecnocratiche a idee di oltretomba, scambia per efficienza lo sbattere dei tacchi e va a cercare la spinta negli esempi della storia: «Nella vita dei nostri eroi», disse una di quelle mattine l’ammiraglio Massera, «noi argentini dobbiamo trovare la forza e l’entusiasmo per rimettere la repubblica in piedi: per inaugurare un nuovo ciclo di storia».

Dietro questi quadri di vita militare – bandiere che sventolano e cavalli inquieti – c’è un mondo oscuro in cui l’ufficiale e il soldato portano una divisa color cachi e tengono in mano un filo elettrico o un paio di tenaglie. «Un uomo è fuggito dal carcere di Junin», disse una mattina la radio, «e riconoscerlo è facile. Non ha più i denti, non ha più le unghie». Non aveva più i capelli, invece, la ragazza che la solita auto degli squadroni della morte o della polizia buttò una sera su un angolo di strada dopo averla scotennata. Non aveva parlato perché non era lei: c’era stato un errore. Una ragazza dai capelli rossi, era stata scambiata per un’altra ragazza dai capelli rossi […] Sono anni ormai che Buenos Aires inciampa sui morti e sui torturati. Come un vortice la violenza ha aspirato i giovani guerriglieri marxisti o peronisti, gli squadroni della morte protetti dal governo o dalla polizia e infine l’esercito. L’Argentina ha conosciuto i sequestri «per finanziare la rivoluzione», il terrorismo e la follia dell’ultrasinistra, le teorie dei guerriglieri di vent’anni, la corruzione e l’incapacità del governo di Isabelita. Infine su tutto questo, il golpe è calato come una pietra tombale.

«Venite a Buenos Aires: è una città ideale per una buona vacanza». I turisti americani scoprono che le agenzie di viaggi non li hanno ingannati. L’ordine regna. Della follia che sta sotto, non si vede nulla. Non c’è più il rischio di prendersi una pallottola alla fermata di un autobus come due anni fa. Si può passare la domenica al Tigre, su uno di quei battelli che vanno avanti e indietro sul fiume o andarsene a qualche asado criollo, in campagna, dove Buenos Aires finisce, comincia la pampa e un manzo intero gira sul fuoco tra il profumo dell’erba. Nel vecchio Paese dove i capi di bestiame sono sempre stati più numerosi degli uomini e dove […] il piacere di vivere si mescola alla violenza e al terrore.

«I MORTI? LI CHIAMANO EL PEREJIL, PERCHÉ SPUNTANO DA TUTTE LE PARTI»

La città ha una sua malinconia dolcezza europea. A ogni passo un italiano ritrova i segni di un destino che avrebbe potuto essere il suo. Nei vecchi quartieri ci sono i portici liguri e lungo le strade, dietro le due file di platani, le case da capomastri dove si sentirono ricchi – con un figlio nell’esercito e un altro nelle ferrovie – gli emigranti italiani. Il vino è buono, alla tv la domenica risuona interminabile il grido dei cronisti e la sera, in un posto del barrio di San Telmo, una Argentina senza tempo riascolta i suoi tanghi più celebri come se nelle loro parole trovasse una filosofia di vita. Nella avenida Corrientes, in ristoranti dove le pale dei ventilatori girano come le eliche di vecchi aeroplani, si trova posto a fatica. C’è sempre molta gente nella calle Florida, davanti alle vetrine dei negozi eleganti, poi il passeggio diventa più raro finché all’una di notte si vedono i giocatori di biliardo professionisti uscire dal caffè Richmond a passo svelto, ormai inquieti, ognuno con la sua stecca avvolta nella guaina come un violino prezioso.

Spente queste ultime luci della giornata cominciano notti di cui nessuno conosce completamente la storia. Buenos Aires si deforma come in un racconto di Borges, il suo più grande scrittore, diventa un luogo di violenze e di agguati. C’è gente che sparisce, portata via da uomini che prima di sfondare la porta hanno detto una sola parola – polizia – e c’è chi ricompare all’alba in un cantiere, in un vicolo o sui gradini di una merceria: «Credevo che dormisse, non c’era sangue, e poi ho visto quei buchi sulla saracinesca”. I morti non hanno più molta importanza, li chiamano el perejil, il prezzemolo, «perché spuntano da tutte le parti» e anche nei giornali ne hanno perso il conto: «Dovrebbero essere sui 4000 negli ultimi tre anni. Forse in archivio c’è una cifra precisa». Di queste notti i giornali raccolgono solo pochi frammenti: «Quattro delinquenti sovversivi abbattuti all’alba», scrive La Naciòn. «Ucciso un montonero nel quartiere dell’Once». «Ammazzata l’estremista Patricia Elisabeth Acevedo». Ogni mattina, nelle pagine interne e con titoli a una colonna, i giornali elencano le richieste di habeas corpus: si ricercano persone scomparse, portate via da soldati o da gente in borghese e delle quali non si è saputo più nulla. Ventotto nomi, il quattro di marzo sulla Naciòn, 12 il giorno dopo su un giornale della sera, il rapimento di un deputato peronista in fondo a una pagina, tra la pubblicità, in quattro righe, e come scene della vita quotidiana file di donne e di uomini anziani davanti al palazzo di giustizia nella speranza che un magistrato possa far qualcosa. «Nessuno riesce a fare qualcosa: e se insisto mi ammazzano», dice un avvocato.

LA STORIA DI INGRID HAGELIN

(Foto di Mario De Biasi)

Non c’è possibile aiuto nelle ambasciate, non è uno scudo il passaporto straniero. Dagmar Hagelin è un uomo di affari nato a Buenos Aires, ma cittadino svedese. Dal 27 gennaio cerca sua figlia Ingrid, una ragazza di 17 anni ferita con un colpo di pistola da un commando della marina e portata via «come un animale», dice, nel baule di un taxi. «Quel giorno, verso le quattro, andò da una sua compagna di suola in calle Pampa al numero 1700. Doveva combinare per una vacanza, suonò alla porta e quando vide uomini armati, in borghese, si spaventò e corse via. Il primo uscito le gridò di fermarsi, una mitragliatrice sparò una raffica in aria dal tetto, la paura di lei crebbe naturalmente e non smise di correre. L’uomo le sparò con una pistola e lei cadde sul marciapiede». Caserme, alti comandi, posti di polizia, cimiteri e ospedali. Hagelin è stato dovunque. Non sono serviti a nulla l’ambasciata svedese, gli articoli dei grandi giornali di Stoccolma.

La cosa che Hagelin è riuscito a sapere per certo è che quegli uomini facevano parte di un commando della Scuola Meccanica della marina. Per qualche motivo la casa di calle Pampa era stata vuotata, un agguato era pronto, si aspettava qualcuno. E bussò la ragazza. «Per una gita al mare», ripete Hagelin. Dopo tanti giorni è ancora un uomo calmo e padrone di sé. Ma il suo continuo ragionare sui fatti è come una macchina che gira nel vuoto: «Ingrid», dice, «era ferita lieve. Se no, come avrebbe potuto difendersi quando la misero dentro al baule dell’auto? Il sangue che colava dal capo è vero. Ma poteva essere per la caduta, no? Il marciapiedi è scheggiato in quel punto. Sono andato a vederlo».

Per questo, come per infiniti altri casi, nessuno risponde. Dieci, quindici, persone ogni giorno spariscono da Buenos Aires senza lasciare tracce. Sono studenti, operai, vecchi sindacalisti, giornalisti e scrittori come Rodolfo Walsh, gente di sinistra comunque perché la repressione è diventata ideologica, non è soltanto una caccia al terrorista e al montonero. C’è gente che muore sotto la tortura, ci sono campi senza nomi nei cimiteri e reparti, negli ospedali, dove i feriti vengono registrati con nomi falsi o sotto la sigla n.n. Secondo calcoli della Amnesty International e della Croce Rossa a Ginevra, da 25 a 30 mila persone sono scomparse in un anno in Argentina. La Lega per i diritti dell’uomo parla di «spettri nazisti» e raccoglie testimonianze su posti di polizia con la croce uncinata.

Ci sono attentati continui a scuole ebraiche e a Buenos Aires, nell’Once, il vecchio quartiere commerciale israelita, sono assai frequenti le minacce e le bombe. Forse ha ragione il cartolaio ebreo scappato qui nel 1938 dalla Germania: «Tutto questo mi ricorda qualcosa». La paura si allunga a quasi un milione di esuli sfuggiti al mattatoio cileno, all’ordine militare di Montevideo o alle carceri del generale Stroessner, in Paraguay. «Buenos Aires», dicono i sociologi, «è una città alluvionale»: oltre alle migrazioni di un tempo l’hanno riempita i cambi violenti di governo e le crisi economiche dei Paesi vicini. Alla periferia ci sono quartieri di case modeste o di baracche dove si parlano soltanto i dialetti della Bolivia. Nascosti tra gli altri, aiutati da quell’accento cantante che ha lo spagnolo sul Rio de la Plata, vivono in Argentina – spesso da irregolari, senza un documento – mezzo milione di uruguayani. Ci sono esuli del Paraguay con dieci, vent’anni, di esilio alle spalle e molti cileni «legati a un filo, più esposti degli altri» riconoscibili subito per il loro inconfondibile accento. Vivono qui perché qualsiasi luogo è più sicuro di Montevideo o di Santiago, ma rifiutano di «radicarsi» perché pensano che la situazione peggiorerà: «E lei può credermi se le dico che ormai abbiamo una sensibilità speciale per queste cose». Dai giorni del golpe del generale Videla le polizie argentina, uruguayana e cilena si sono saldate. Lavorano insieme ancora più di quanto non facessero prima. Si dividono i compiti, si rendono i favori.