logo Spazio70

Benvenuto sul nuovo sito di Spazio 70

Qui potrai trovare una vasta rassegna di materiali aventi ad oggetto uno dei periodi più interessanti della recente storia repubblicana, quello compreso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso.
Il sito comprende sei aree tematiche e ben ventidue sottocategorie con centinaia di pezzi su anni di piombo, strategia della tensione, vicende e personaggi più o meno misconosciuti di un’epoca soltanto apparentemente lontana. Per rinfrescare la memoria di chi c’era e far capire a chi era troppo giovane o non era ancora nato.
Buona lettura e non dimenticare di iscriverti sulla «newsletter» posta alla base del sito. Lasciando un tuo recapito mail avrai la possibilità di essere costantemente informato sulle novità di questo sito e i progetti editoriali di Spazio 70.

Buona Navigazione!

Aunque lagrimas nos cueste

Michele Riccardi Dal Soglio

La preoccupazione per le sfide che l'Argentina deve affrontare e, soprattutto, per la personalità e le dichiarazioni del nuovo presidente, questa volta è motivata: lo stile di comunicazione estremo, pittoresco, aggressivo e senza filtri che ha reso popolare Milei nei talk show nazionali ha certamente polarizzato l'opinione pubblica tra chi lo ama e chi lo odia

In un bellissimo brano dedicato al suo martoriato Paese, intitolato Aunque lagrimas nos cueste (Per quante lacrime ci costi), la cantante argentina Marikena Monti ricorda: «[..] Il suo povero bianco celeste/ tante volte è grigio/ il mio Paese. /[…] Ma se una volta/ potessi ricominciar daccapo/ che sia in questa stessa terra/ e sotto questo stesso cielo/ col suo sconforto, con il suo zelo/ e la sua aperta cicatrice/ il mio Paese, il mio Paese.»

Solo nel cuore degli argentini, ci dice Marikena, il disincanto e la speranza, la disillusione e l’euforia, l’amarezza e la passione possono coesistere simultaneamente. Ce lo dice anche la vittoria di Javier Milei alle elezioni presidenziali del 2023, che hanno decretato la sua ascesa allo scranno di Rivadavia a partire dal 10 dicembre venturo, quando la legge argentina prevede l’inizio del mandato dei neoeletti presidenti costituzionali. L’evento ha avuto una grande risonanza anche nei media di casa nostra, i quali, di norma, dedicano qua e là soltanto qualche riga nelle cronache calcistiche al Paese che accolse più di cinque milioni di italiani e nel quale, a tutt’oggi, vive un’infinità di discendenti.

I MEDIA ITALIANI (ED EUROPEI) SULLE PRESIDENZIALI ARGENTINE

Milei e la ormai nota «motosierra» sono diventati oggetto di meme e veri e propri gadget

Milei e la ormai nota «motosierra» sono diventati oggetto di meme e veri e propri gadget durante la campagna per le elezioni presidenziali argentine

Solo poco più di un anno fa, la notizia del tentato assassinio della vicepresidente Cristina Fernandez de Kirchner aveva brevemente captato l’attenzione dei nostri quotidiani. Per l’occasione avevano menzionato l’allarmante situazione economica dell’Argentina —flagellata da un’inflazione record e dalla crisi economica— che, per usare un abusato eufemismo, avremmo potuto oggi definire senza precedenti in mancanza dei ripetuti e ogni volta sorprendenti esempi di cui la patria di San Martìn ha dato invece prova nel corso degli anni.

La prossima, difficilmente evitabile, bancarotta sarà la decima nella bicentenaria storia della Nazione argentina e, probabilmente, una delle più aspre. Detto questo, salvo eccezioni, i media italiani, in questa tornata elettorale, hanno focalizzato quasi sempre la loro attenzione sulla personalità, invero istrionica e larger-than-life, del nuovo presidente e sui timori suscitati dalle sue proposte di liberismo estremo in campo economico, approfondendo raramente il contesto e le ragioni di questa scelta. È giusto premettere che quando in Europa si parla di America latina, l’avvento di un governo liberista, ancorché costituzionale, è sempre raccontato con timore, rispetto a all’insediamento di governi che si dichiarino, almeno sulla carta, di area progressista —svelando un atteggiamento di pelosa preoccupazione verso chi non si considera, sotto sotto, abbastanza maturo per decidere da sé. Il che, va detto, è sempre stato l’argomento preferito dei fan dei colpi di Stato.

CHE ACCADRÀ?

Tuttavia la preoccupazione per le sfide che l’Argentina deve affrontare e, soprattutto, per la personalità e le dichiarazioni del nuovo presidente, questa volta è motivata: lo stile di comunicazione estremo, pittoresco, aggressivo e senza filtri che ha reso popolare Milei nei talk show nazionali, negli ultimi anni, ha certamente polarizzato l’opinione pubblica tra chi lo ama e chi lo odia. Fino a qualche tempo fa, in pochi avrebbero scommesso sulla sua possibilità reale di vincere alle elezioni, nonostante il palpabile e vivissimo malcontento sociale della popolazione nei confronti della gestione kirchnerista che negli ultimi anni ha duplicato la spesa pubblica, la quota di popolazione sotto la soglia di povertà e l’indice di criminalità.

La vittoria in sé di un outsider, rappresentante dell’antipolitica e della lotta alla Casta, non è quindi una sorpresa e, guardando la tendenza politica internazionale, nemmeno una novità assoluta. Sicuramente quello che adesso tutti gli argentini, elettori di Milei e non, si stanno chiedendo è: Adesso, che accadrà?

L’incognita è enorme, i rischi immensi. In poche altre occasioni l’Argentina ha vissuto momenti di cambiamento così epocali e forieri di grandi aspettative quanto di paure.

IL «LIBERISMO» DEGLI ANNI DELLA DITTATURA MILITARE

Una immagine del ministro argentino Martinez de Hoz (fonte: Revista Mercado, 1980)

Una immagine del ministro argentino Martinez de Hoz (fonte: Revista Mercado, 1980)

Volendo tracciare dei parallelismi, le due occasioni che più richiamano alla mente questa svolta politica sono il cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale, ossia la dittatura civico-militare iniziata nel marzo 1976, e il ritorno della democrazia con le elezioni del 1983 che videro trionfare Raul Alfonsìn.

Nel primo caso, l’Argentina arrivava —o meglio, credeva di uscire— da un periodo di inaudita violenza politica e di caos economico che avevano toccato il loro apice durante la presidenza di Isabel Peron: la designazione al ministero dell’Economia di Alfredo Martinez de Hoz, rampollo di una secolare famiglia dell’aristocrazia terriera, amministratore delegato di Acindar e consulente nonché amico personale degli chairmen di svariate multinazionali e holding nazionali e straniere, era sembrata la scelta più adeguata per condurre il Paese fuori dalla crisi economica.

Nei suoi primi discorsi pubblici, Martinez de Hoz invocava una serie di misure improntate a un liberismo allora fortemente agognato dai più, dopo anni di inflazione stellare e la mancanza dei beni di consumo di prima necessità fomentata da una politica economica isolazionista e dirigista; libera circolazione delle merci e delle importazioni, liberazione dei tassi di cambio, libera circolazione del denaro, riduzione del controllo e dell’intervento dello Stato, taglio della spesa pubblica e privatizzazione delle infrastrutture. Una ricetta che, sulla carta, avrebbe dovuto «aprire un nuovo capitolo della storia economica argentina», per citare Martinez de Hoz, «voltando pagina dopo l’interventismo statalizzante e schiacciante per dar passo alla liberazione delle forze produttive».

Certamente non vi furono manifestazioni di giubilo, né euforia generalizzata come quelle viste nei giorni scorsi, ma in quel frangente milioni di argentini, terrorizzati dalla violenza della guerriglia e del terrorismo, stremati economicamente, avevano salutato con un sospiro di sollievo la nuova giunta militare e il nuovo governo non costituzionale, nella speranza che questi li avrebbero traghettati in migliori acque.

L’ESPLOSIONE DEL DEBITO ESTERO E LA BANCAROTTA DI MOLTI ISTITUTI DI CREDITO

Tralasciando in questo discorso la ferocia della repressione clandestina, i primi due anni parvero dare respiro all’economia nazionale, svincolata dalle logiche stataliste e populiste del peronismo anche grazie al programma di svalutazione controllata della moneta nazionale, passato alla storia con il nome di tablita, che permise di pianificare investimenti a medio termine, diventati altrimenti impossibili con un’inflazione come quella degli ultimi mesi del governo Peròn, giunta al 5000 per cento annuale. Tuttavia, la tanto declamata rivoluzione liberista non ebbe successo, arrivando rapidamente a generare la prima gravissima catastrofe sociale ed economica del Paese uscito dalla dittatura con un debito estero passato da 7,6 a 46 miliardi di dollari dell’epoca e con una popolazione sotto la soglia di povertà decuplicata.

A dirla tutta, fu un liberismo quanto mai di facciata. La vera libertà di mercato nell’Argentina del governo di Videla non esistette affatto, perché lo Stato intervenne continuamente e abbondantemente negli affari influenzando e orientando le compravendite di asset e aziende private, quanto pubbliche, a favore degli amici dei governanti, arrivando a eliminare fisicamente gli imprenditori o gli amministratori che non intendevano sottostare a tali manovre. Basta citare il caso della nazionalizzazione della Italo Argentina de Electricidad, azienda di produzione di energia elettrica —obsoleta e decotta— di proprietà svizzera, acquistata dal governo per la cifra oscena di circa 400 milioni di dollari dell’epoca.

Colpo di grazia per l’economia del Paese fu l’assunzione da parte dello Stato argentino dei debiti lasciati dal fallimento del BIR (Banco Interregional de Desarrollo) e da tutti quegli istituti bancari privati che, sorti come funghi durante il Processo, andarono in bancarotta dalla sera alla mattina con i risparmi di centinaia di migliaia di cittadini.

L’IPERINFLAZIONE DEI TEMPI DI ALFONSÌN

Il presidente argentino Raúl Alfonsín in una immagine istituzionale risalente al 1984 (Presidencia de la Nación Argentina)

Il presidente argentino Raúl Alfonsín in una immagine istituzionale risalente al 1984 (Presidencia de la Nación Argentina)

All’uscita dalla dittatura, fu invece Raul Alfonsìn, nuovo leader della Union Civica Radical, a infiammare i cuori di milioni di argentini con parole di grande ispirazione e speranza. Quelle del suo ultimo discorso prima delle elezioni, tenutosi in una Avenida 9 de Julio gremita di folla, sono rimaste scolpite nella memoria collettiva argentina: «Oggi finisce la dittatura, la corruzione […] arriva l’Argentina onesta che ama la sua gente […] finisce l’Argentina della fame operaia, delle fabbriche morte e arriva l’Argentina del lavoro e della produzione […] qui si tratta di vedere se possiamo mettere un cardine alla storia dell’Argentina e farla finita con la frustrazione e la disperazione […] in Argentina c’è fame non per mancanza di cibo come in altri Paesi, ma per eccesso di immoralità, perché abbiamo sottoposto il padre di famiglia alla più grande umiliazione cui un uomo può essere sottoposto, lavorare trenta giorni al mese e non riuscire a mettere il pane in tavola tutti e trenta i giorni. […] Adesso basta, è finita, è un’Argentina onesta e morale quella che viene!»

Chi ha avuto modo di studiare quel periodo, o meglio ancora di viverlo, sa con quale entusiasmo, speranza e commozione, con quale spirito collettivo di ricostruzione venivano accolte le parole e i gesti di Alfonsìn: tuttavia, la sua politica economica non riuscì a portare il Paese fuori dalla crisi, per vari fattori, e la sua presidenza finì anticipatamente nel mezzo di una crisi di iperinflazione mostruosa che ancora oggi è ricordata per i suoi effetti surreali nella vita quotidiana.

ALCUNE TESTIMONIANZE DALLA SOCIETÀ ARGENTINA

E gli argentini, chiamati nuovamente a una svolta piena di incognite, cos’hanno da dire? Intervistando persone diverse, per età, estrazione sociale e provenienza geografica, le risposte sono state talvolta sorprendenti.

Laura, avvocato nella città di Rosario, classe 1971, donna fortemente indipendente e determinata, ammette di aver votato per Milei nella speranza di mettere fine ai vent’anni di egemonia kirchnerista, alla disperazione di vedere il proprio lavoro aumentare del doppio a fronte di un reddito odierno pari al 25 per cento di quello di venti anni prima. Laura osserva come gli uffici pubblici e le autorità con cui si interfaccia abbiano nel frattempo aumentato a dismisura l’organico, pur di assorbire la disoccupazione, dando vita a una burocrazia kafkiana e inefficiente; per non parlare poi della criminalità giunta a livelli insostenibili anche nei quartieri del centro città. Ricordando l’elezione di Alfonsìn, ha confidato di essersi abbracciata con il padre che, ammette, ha rivissuto quel senso di speranza su una possibile svolta. Laura è cosciente che difficilmente Milei potrà realizzare le sue promesse, ma ha affermato, piangendo, di aver soltanto desiderato di poter vedere un cambiamento nel proprio Paese.

Alfonso, 55 anni, docente universitario statale, ha sottolineato come l’elezione di Milei, dopo quarant’anni di esercizio ininterrotto della democrazia, rappresenti una forte occasione di richiamo sulla necessità di ricostruire le basi del dialogo politico per molto tempo polarizzato da un discorso populista. Il kirchnerismo, dice, ha privilegiato una retorica del nemico, occupando e svuotando ogni spazio della vita democratica; si è inoltre appropriato, cooptandolo e manipolandolo, del tema dei diritti umani e delle minoranze.

Paloma, 23 anni, studentessa universitaria di scienze sociali con un passato di attivista radicale in Franja Morada, sottolinea come il kirchnerismo si sia appropriato di ambiti quali la memoria dei diritti umani, i diritti Lbgtq o dei popoli originari, per brandirli in modo ostentato e continuo come vessillo del proprio presunto progressismo. Tutto questo ha portato a una sorta di saturazione della sensibilità di un’opinione pubblica, molto più interessata ad avere risposte concrete su come riuscire a sopravvivere alla povertà, all’inflazione, alla corruzione e alla microcriminalità che ogni giorno di più attanaglia la vita quotidiana di milioni di argentini. Paloma è convinta che Milei non saprà governare, pur non condividendo i timori millenaristici di alcuni. Lo ritiene un comunicatore non così astuto e capace, a differenza di quanto si pensi, ma comunque la sua salita al potere ha avuto come effetto positivo collaterale quello di risvegliare l’attenzione di moltissimi giovani verso i meccanismi istituzionali e il funzionamento dei corpi intermedi dello Stato, il cui valore di contrappeso oggi appare ancora più nitidamente nella sua importanza.

Roberto Glen, classe 1963, militante radicale di Necochea e speaker radiofonico, che qualche tempo fa abbiamo intervistato sulla sua esperienza di ex detenuto desaparecido, si sente invece profondamente sconfortato da questa elezione: riconosce anche lui che il peronismo kirchnerista, soprattutto negli ultimi quattro anni di governo, sia stato uno dei peggiori passaggi storici, dal ritorno della democrazia, in tema di corruzione, malgoverno e deterioramento economico, ma teme che con Milei, totalmente inesperto ed estraneo rispetto alla cosa politica, contraddistinto da una personalità istrionica e instabile, le cose possano solo peggiorare. Chi potrebbe avvantaggiarsi in caso di difficoltà, aggiunge Glen, potrebbe essere la sua vice, Victoria Villaruel, nota attivista per il riconoscimento dei diritti delle vittime del terrorismo degli anni Settanta, che in questi anni ha assunto una posizione sempre più negazionista e filodittatoriale. Il discorso di Milei contro l’aborto o il matrimonio egualitario che l’Argentina riconosce già dal 2005 rappresenta un altro punto di viva preoccupazione sempre secondo Glen, indice di una visione repressiva e tutt’altro che libertaria.

«NON CI UNISCE L’AMORE, MA LO SPAVENTO»

Cristina Kirchner nel giorno dell'inaugurazione del suo secondo mandato (2011. Fonte: Casa Rosada, Presidencia de la Nación argentina)

Cristina Kirchner nel giorno dell’inaugurazione del suo secondo mandato (2011. Fonte: Casa Rosada, Presidencia de la Nación argentina)

Raccogliendo ancora altre opinioni, è evidente come il voto per Milei sia stato nella grande maggioranza dei casi un voto contro l’egemonia peronista e in generale contro la politica, dettato dal desiderio di avere un’opportunità di cambiamento e rinnovamento più che da un’autentica fiducia nel candidato ultraliberista: chi lo ha votato per protesta, come chi non lo ha votato, non pensa sia una minaccia per quanto dice di voler fare, ma è ben consapevole che un suo fallimento, oltre a far sprofondare ulteriormente il Paese nel caos socioeconomico, potrebbe sancire un ritorno ancor più duraturo della casta peronista.

Insomma, quel 56 per cento degli argentini che hanno votato per Milei non è composto da cittadini ultraliberisti, né di destra, né filo-militari od omofobi (anche se tra di essi ve ne sono sicuramente molti); si tratta invece di un consenso trasversale, estremamente eterogeneo, proveniente da cittadini esasperati dalla politica. Questi argentini non necessariamente credono a Milei o alla sua ricetta anarco-capitalista, ma sperano, o vogliono consapevolmente illudersi, di avere ancora un’occasione per risollevare il loro travagliato ma amatissimo Paese. Uno scenario che può essere ben descritto parafrasando la chiusura di una celebre poesia di Borges dedicata a Buenos Aires: «No nos une el amor sino el espanto, serà por eso que la quiero tanto» (non ci unisce l’amore ma lo spavento, sarà per questo che l’amo tanto).